Au hasard Balthazar: Robert Bresson.

Si legge spesso in giro che uno dei punti di forza di Au hasard Balthazar risieda nel suo approccio mostrativo piuttosto che dimostrativo, nel fatto cioè di aver usato il punto di vista oggettivo di un asino per mostrare la miseria umana, l’intima cattiveria che l’uomo è capace di lasciar fluire al proprio esterno. Non si capisce, stando così le cose, come lo spettatore provi pena per quell’animale, e non solo nel finale, quando, morente, lo vediamo contornato dagli ovini, ma pure in tutto l’arco della pellicola, nelle successive angherie che Balthazar è costretto a subire. Ebbene, Balthazar non è un oggetto, e il suo punto di vista non è quello di un oggetto, non è oggettivo e risulta anzi perfettamente in linea con quello dello spettatore. Certo, non conosciamo la logica delle bestie, ma non la conosciamo perché ci siamo distanziati da esse, divenendo umani; le emozioni, però, ci ricordano che in qualche maniera siamo animali, lo rimaniamo o lo eravamo e ne conserviamo un piccolo residuo, ed è questa residualità animale che ci fa soffrire per Balthazar, perché in fondo lo sappiamo, che il suo sguardo non è più oggettivo che sofferente, e laddove c’è la sofferenza, ecco, là c’è una soggettiva, ma è una soggettività così elementare, così rozza da diventare subito oggettività animale. Non piangiamo perché rompiamo una tazzina di caffè e sulla morte del nonno ormai vecchio riusciamo a mettere una pietra sopra, ma di fronte allo stupro, all’omicidio, all’ingiusto che trova compimento nell’esistenza non riusciamo a tacere e, spesso, a dimenticare o a tornare in pace con noi stessi, e questo perché è così perspicua l’ingiustizia da giungere prima della morale, prima dell’etica – nella vita animale stessa. Soffriamo per Balthazar, dunque, ma «soffrire per» significa da una parte soffrire a causa di o in favore di Balthazar, dall’altra soffrire al posto di Balthazar, il che significa che o Balthazar è molto più umano di quanto noi immaginiamo essere l’animale oppure noi siamo molto più animali di quanto crediamo essere reputandoci umani. Questioni di semantica, forse. Comunque non è del tutto rilevante snocciolare una risposta, scegliere uno dei due bivi, ciò che importa è ricondurre Balthazar a noi (o noi a Balthazar), toglierlo da quel limbo d’oggettività, sinonimo d’oggettualità, nel quale diversa critica l’ha scagliato. Come essere così ottusi? Del resto, già in principio Balthazar acquisisce un nome, viene battezzato, viene comperato, sì, ma giusto per amore dei bambini, che lo volevano a tutti i costi… ed è importante tenere bene a mente questo, perché, altrimenti, salta molta parte del discorso susseguente, snocciolato da Bresson in diversi punti della pellicola (v. la destrutturazione dell’asino nelle parti che lo compongono mentre traina il carretto, destrutturazione che sembra non voglia mostrare altro come, di per sé, Balthazar altro non sia che la propria forza lavoro e nient’altro), e cioè che, solo una volta conquistata un’esistenza para-umana, Balthazar può essere oggettivato, ma può esserlo solo nel momento l’essere umano stesso può essere venduto e acquistato nella sua persona come merce di lavoro: il proletario. La registrazione dell’umana crudeltà per opera di Balthazar, del resto, è una registrazione che avviene non per via visiva ma per via corporale, ed è il corpo, il fulcro, perché è lì che agisce il potere (cfr. Foucault) e, inoltre, è attraverso di esso che Balthazar canalizza il mondo intero. Balthazar, chi se non altri? Quel Baldassarre che ebbe la visione della fine dei tempi, questo Balthazar che annuncia, quale simbolo (nella sua forma) del proletariato, la fine della storia o, meglio, della preistoria marxianamente intesa, dal che la micro-apocalisse nel finale del film e il nostro, silenzioso, rammarico nel considerare che altrimenti non sarebbe potuta andare a finire.

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Au hasard Balthazar, di Robert Bresson

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Occorre salvaguardare il mistero, noi viviamo nel mistero; occorre che questo mistero riemerga intatto sullo schermo, occorre sempre che l’effetto preceda la causa, come capita nella vita.
Robert Bresson

Se il cinema di Robert Bresson è ricerca assoluta e dell’assolutezza dell’immagine quale primato perentoriamente esclusivo di ogni altra espressività narrativa del cinema, Au hasard Balthazar rappresenta uno dei massimi momenti di questa ricerca dell’Autore e nostra, di spettatori, nei confronti del suo cinema. La Cineteca di Bologna ci fa riscoprire due film centrali della sua opera che condensano i temi della poetica di questo autore così dimesso e sconosciuto.
Maestro indiscusso della frammentazione narrativa, Bresson con Au hasard Balthazar (1966) porta il suo stile, che fa leva su una arcaica sensibilità figurativa, a misurarsi con una austerità quasi ascetica, tanto distante da ogni urgenza di diegesi narrativa, pur utilizzando i frammenti di una realtà connotata da forti significati esistenziali. La realtà vista in primo piano, come ebbe a sottolineare lo stesso Bresson in

un’intervista a proposito del suo lavoro. Un reale quotidiano che diventa significazione stessa dell’esistenziale, della trascendenza, secondo l’accezione di Paul Schrader che sul concetto costruì il suo saggio di laurea attraverso il cinema di Ozu, Dreyer e appunto, Bresson. È per questo suo insistere su una normalità quotidiana che Bresson si definisce più che un metteur en scène un metteur en ordre. Prendo pezzi dei realtà e cerco di metterli insieme in un certo ordine. Non “realizzo” né metto “in scena” un bel niente. Il cinema è una scrittura, non uno spettacolo. Dichiarazioni che assolutizzano la forma rispetto alla continuità narrativa in cui la realtà è messa in ordine, in virtù della scrittura che perfeziona ogni processo creativo. Il soggetto di un film è solo un pretesto – dichiarava Bressonè la forma molto più che il contenuto, a colpire lo spettatore e farlo elevare. Con la scrittura del reale i suoi film hanno sempre dato contenuto alla spiritualità rigorosa che contrassegna il cinema del regista francese e questo film in modo particolare. Un cinema che non sembra essersi sfilacciato nella sua fitta tessitura di trame con il passare del tempo e che resta integro come accade solo alle vere opere d’arte.


Au hasard Balthazar è considerato unanimemente il film cesura tra la prima produzione di Bresson e quella che sarebbe successivamente venuta. Un’opera in cui i misteri religiosi della predestinazione e del libero arbitrio si concentrano nello sguardo intimamente rassegnato di Balthazar, l’asino che assiste alla tragedia umana attraverso una rassegna esemplare dei vizi capitali, destinato ad essere testimone di ogni peccato e che espierà, incolpevole, ogni colpa. In mezzo, nella storia che ha una sua particolare fluidità nonostante non tutto appaia necessariamente consequenziale, le controverse storie d’amore di Marie. La sua è una figura centrale nel racconto, così come lo è il personaggio di Arnold che, sotto altro nome, sembra ritornare nel successivo Mouchette che costituisce una sorta di prosecuzione dei temi lasciati aperti con Balthazar. Marie non è solo la sposa di Balthazar nella poetica sequenza notturna del loro matrimonio, ma in lei si riflette anche la vicenda umana dell’asino e Sergio Arecco, nel suo Robert Bresson – L’anima e la forma (Ed. Le mani, 1998), suggerisce la conferma di questa simbiosi nella contemporanea scomparsa dei due personaggi quando sapremo che Marie è partita per sempre e non tornerà più. A proposito di questo personaggio, in realtà così evanescente, Bresson afferma: Era pure necessario, dato che la vita di un asino è molto placida e monotona, trovare un modo drammatico. Pensai a una ragazza. A una ragazza perduta o meglio sul punto di perdersi.
Gli amori terreni di Marie completano quindi il passaggio sulla terra di Balthazar e lei, nella sua piena umanità, è stretta tra un tra un amore casto e giovanile (Jacques) e uno affascinante e diabolico (Gerard). Personaggio, Marie, che fa parte del mistero che avvolge i destini umani, in una opposizione che non è risolvibile. Vi è solo, quindi, l’accettazione del destino, che Marie accoglie gradualmente così come si accorge che deve essere compiuto. Balthazar sembra sin dall’inizio cosciente di un suo destino e ne subisce i colpi accettando, pacificamente rassegnato, che tutto si compia completamente.
Au hasard Balthazar_1

È Balthazar alla deriva come potrebbe suggerire una possibile traduzione del titolo, ma al contempo, ricercando con cura e pazienza nel lavoro composito di Bresson, ci si accorge che il film non è né una metafora, né una parabola, ma qualcosa di molto più complesso che chiama a raccolta non soltanto la cultura occidentale, compreso il sentimento religioso componente essenziale del suo cinema. Il mio film è partito da due idee che si completano. In primo luogo: mostrare le tappe della vita di un asino simili a quelle della vita di un uomo. L’infanzia: le carezze. L’età matura: il lavoro. Il talento o il genio: l’asino sapiente. Il periodo mistico che precede la morte: l’asino che porta le reliquie. In secondo luogo: quest’asino passa nelle mani di diversi padroni, che rappresentano ciascuno un vizio umano: gola, accidia, superbia, ira … Esso ne soffre in modo diverso. Li guarda con l’occhio di un giudice. E ancora: Balthazar porta con sé, forzatamente, l’erotismo greco, e a un tempo, la spiritualità e il misticismo biblici.
Il film di Bresson, e non potrebbe essere altrimenti, è tutto in queste parole chetraducono l’essenzialità figurativa che già avevamo conosciuto in Diario di un curato di campagna (1951) e nelle altre e precedenti opere e in quelle che sarebbero seguite, fino alla purezza figurativa estrema delle sue ultime che ancora lampeggiano nella mente e nel ricordo.
Ecco quindi che Balthazar rappresenta la sintesi tra la cultura laica e quella religiosa, tra l’erotismo greco, che trova i suoi riferimenti arcaici nella vicenda narrata da Apuleio in L’asino d’oro – come suggerisce ancora Sergio Arecco – e il suo Calvario umano e quindi cristologico, che completa quell’aura di mistero insondabile che avvolge la vicenda terrena dell’asino, vittima delle malvagità umane e testimone sulla terra della irrimediabilità dei mali del mondo. Lo sforzo di Bresson, che si manifesta forse con maggiore evidenza proprio in questo film, sembra essere sempre quello della reductio ad unum. Le immagini si fanno ricche e gravi di significati, il modello recitativo imposto avvalora questa superficiale sensazione. Ma nel contempo ogni singola immagine assume la forma e la forza di una visione pura, spogliata di ogni altro carattere, significato, essenza e attribuzione che non sia quella di creare (fare) la spiritualità che diventa genesi dello stile. Bresson restituisce al cinema quella luce primitiva che non sembra possa essere dono di molti altri registi e carattere presente solo la dove la forma narrativa tenda a quell’ascesi, a quella purezza delle forme, che rappresenta e prefigura la necessità del divino.
In questo senso Au hasard Balthazar è forse il film di Bresson che appare più stratificato e denso di reconditi e segreti significati che solo la cultura giansenista del suo autore poteva celare nelle pieghe di una normalità quotidiana. L’eresia di quella filosofia per la Chiesa sta nella immanenza della predestinazione che esclude l’intervento del libero arbitrio. Il male quindi come peccato naturale e originario e l’asino diventa ponte e personaggio sacrificale sospeso tra queste culture, tra queste anime umane. Tuttavia il film di Bresson, come si diceva, si radica nella tradizione mitologica (che rappresenta

anch’essa una forma di ancestrale religiosità) di cui troviamo espliciti riferimenti nel film. Nella già citata sequenza notturna del matrimonio tra Marie e l’asino, il malefico e perfido Gerard che assiste a questa cerimonia sospesa tra il misticismo religioso terreno e una evocazione arcadica, afferma: “Come nella mitologia” e il suo amico, tradendo la propria ignoranza gli risponde: “Mito …che?”.
Ecco quindi il mistero che vive dentro un film di rara purezza come Au hasard Balthazar, l’asino che sembra silenziosamente accompagnarci nel tempo con il suo sguardo paziente e sapiente, con le sue ire improvvise e la sua mite e mansueta sopportazione della vita. Tutto dentro il fascino di immagini che mettono ordine e riflettono, in fondo, il mistero eterno dell’esistenza.

Titolo: id.
Regia: Robert Bresson
Interpreti: Anne Wiazemsky, François Lafarge, Philippe Asselin, Nathalie Joyaut, Walter Green, Jean-Claude Guilbert.
Distribuzione: Il Cinema Ritrovato – Cineteca di Bologna
Durata: 95’

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