Cannes2016 – Bacalaureat, di Cristian Mungiu by Aldo Spiniello e Lorenzo Rossi

#Cannes2016 – Bacalaureat, di Cristian Mungiu

Una pietra, lanciata chissà da chi, infrange la finestra e rotola nella stanza. Inizia così Bacalaureat, il nuovo film di Mungiu, con un immediato, intuitivo rimando al finale di Oltre le colline, a quell’improvviso schizzo di fango sul parabrezza. Ed è come se non ci fossimo mossi di un millimetro, fossimo ancora lì a subire la violazione inaspettata dello spazio tranquillo della nostra quotidianità. L’elemento esterno che invade il quadro, che irrompe nel set da un fuoricampo incontrollabile: non sapremo mai chi ha gettato il sasso, chi attenta, in modi più o meno infantili, ma comunque inquietanti, alla pace di Romeo e della sua famiglia. Che sia il piccolo Matei, la presenza più destabilizzante e segreta del film, che ogni tanto entra in campo con la sua maschera di cartone? Non è dato saperlo. Ma quei sassi sono i segni di una realtà che si manifesta come urgenza, un incidente, un latente, ma implacabile sabotaggio del piano. E tutta la struttura di Bacalaureat è costellata di incidenti, di avvenimenti non previsti e non prevedibili. Il tentativo di violenza sessuale subito da Eliza, il malore della vecchia madre di Romeo, che viene colto in flagrante ed è costretto a rendere la confessione definitiva della sua relazione extraconiugale. Ma piccoli incidenti, quasi buchi neri della storia, sono anche le mille telefonate, gli squilli e le vibrazioni di cellulari che punteggiano il film, fin quasi a divenire una specie di colonna sonora, di rumore bianco di fondo. Proprio come in La fille inconnue dei Dardenne (sarà un caso che i fratelli appaiano qui in veste di produttori?). Con la differenza che mentre la dottoressa Jenny Davin risponde sempre, interrompendo costantemente le conversazioni e la tensione drammatica, Romeo non risponde mai, sottolineando ancora più l’invadente gratuità del reale. Distanza morale tra i personaggi, differenza d’approccio tra autori.

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Il fatto è che Mungiu, come sempre, mette il suo cinema sotto pressione, obbliga i suoi personaggi a confrontarsi con la spinta di un mondo che se ne infischia degli equilibri a fatica costruiti, dei recinti di benessere, delle clausure evasive. E che, soprattutto, non ammette principi, regole morali (o conventuali), desideri e aspirazioni. Obbligando gli individui a scelte dolorose, a illeciti più o meno gravi, a compromessi meschini. Pena l’esclusione.

Tutta l’odissea di Romeo, ossessionato dall’esame di diploma della figlia Eliza, è un racconto di corruzione, di scambi interessati, di patteggiamenti e richieste illecite, raccomandazioni e menzogne. Sogna per la figlia un futuro diverso, fuori dalla Romania, paese “incivile”, dal suo sistema clientelare soffocante, dai suoi conflitti d’interesse. Ma ogni sua azione lo spinge sempre più addentro questo mondo oscuro, tra le maglie di questa ragnatela di relazioni compromissorie. In realtà, nulla crolla irreparabilmente. Proprio perché tutto resta invischiato nella mediocrità diffusa di una realtà che non ammette eccezioni. Fossero anche quelle del talento, dell’eccellenza, della meritocrazia pur sempre soggetta alla valutazione del sistema, e quindi alla conformità. Cioè che viene meno è la purezza dei principi e la possibilità di costruire un futuro diverso, nella misura in cui sui figli viene proiettata la lunga ombra del cielo plumbeo dei padri.

Bacalaureat racconta l’impasse di una società inguaribilmente corrotta e sembra avere la chiarezza cristallina di un pamphlet. Ma Mungiu non procede per assiomi astratti o dimostrazioni a tesi. Affonda lo sguardo sulle azioni concrete, le scelte e le crisi dei suoi personaggi, e scopre, a partire dall’individuo, il risvolto politico e sociale. Non sottolinea il dramma, non scarta, non infiamma, ma come sempre lavora sui pedinamenti, sui dialoghi in piano sequenza, su scene che si aprono al tempo reale, sull’intensità emotiva della durata. Il suo cinema sembra non far vedere nulla, eppure mostra tutto, quasi fosse uno specchio impudico e implacabile. Sembra soffocante al pari del mondo che racconta. Ma si anima di un’inquietudine vertiginosa, come fosse attraversato da un germe di follia esplosiva. Quella che alimenta il fuoco della nostra rabbia e della nostra disperazione. Quella che spacca il vetro, lasciando fluire tutta la densità del reale nella gabbia dell’inquadratura.

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Bacalaureat di Cristian Mungiu

di Lorenzo Rossi

Nel totale di un caseggiato di periferia, con i muri scrostati e le strade piene di buche che apre Bacalaureat si scorgono nel primo piano – ma un po’ scostato nel basso dell’inquadratura – le braccia di un uomo che, pala alla mano, sta scavando una buca. Non c’è mai nulla di casuale nel cinema di Cristian Mungiu: non la messinscena, non lo stile rigoroso, non le scelte estetiche sempre funzionali al racconto. E senza dubbio non lo sono ambientazioni e location, che parlano, dicono e raccontano almeno quanto i personaggi. Con questo folgorante incipit, che termina con l’attimo in cui una pietra scagliata da mano ignota spacca il vetro di una finestra della casa del protagonista, Mungiu ci mostra qualcuno che scava la (propria) fossa e ci avverte che il segno grafico, metaforico e simbolico del film sta proprio in quell’atto lì. Messo a margine di un piano lungo dove l’elemento umano scompare e a riempire la scena sono condomini e casermoni tipicamente associati ai paesaggi urbani dell’Europa dell’est.

Bacalaureat è la storia di un padre, Romeo, medico in una piccola città della Transilvania, che cerca in tutti i modi (legali e non) di aiutare la figlia Eliza, diciottenne, ad ottenere il diploma con una media superiore al 9, punteggio utile per poter mandare la ragazza a studiare in Inghilterra garantendole un futuro migliore di quello che avrebbe restando in Romania.

Già perché la Romania che viene fuori dal film è una nave che affonda, un paese che si sta, appunto, scavando la fossa. E il film racconta – come sempre senza dare giudizi morali e senza prendere le parti, contro o a favore, dei propri protagonisti – il lento percorso che Romeo compie verso l’adesione al mondo delle clientele, dei favoritismi e della micro-corruzione più come un rito di passaggio che come un’arresa. La telefonata all’amico dell’amico, lo scambio di favori, la richiesta di fare uno strappo alla regola sono tutti comportamenti che fanno parte di uno stesso dispositivo. Come una serie di tasselli del domino affiancati a formare una catena e pronti a crollare l’uno sull’altro abbattendo l’intero sistema. Un apparato retto non dalle istituzioni ma dagli uomini che ne fanno parte – sistema al quale in Italia siamo tutt’altro che estranei – e che sono successori dei burocrati cacciati dopo il colpo di stato dell’89 (l’ufficiale di polizia, il funzionario della dogana, il preside del liceo), ma dei quali di fatto hanno ereditato non solo il posto ma anche la condotta, l’atteggiamento e l’esercizio del potere.

«Quando siamo tornati qui nel ’91 pensavamo di cambiare le cose, ma non abbiamo cambiato niente» dice Romeo alla figlia per convincerla ad andarsene a studiare all’estero. Come se la Romania risorta dalle ceneri della dittatura, 27 anni dopo, il suo “bacalaureat” non l’avesse ancora preso. Non sia ancora diventata adulta proprio perché i padri come Romeo (e non soltanto per colpa loro) non l’hanno saputa guidare e non hanno saputo instradarla sulla via della rettitudine.

Una rettitudine tanto più utopica e fragile se paragonata alla solidità dalle strutture di potere viziate dalla corruzione che costituiscono le fondamenta di un Paese dal quale i padri consigliano ai figli di scappare (altra inquietante similitudine con l’Italia). Dichiarando la resa e caricando di significato ulteriore l’immagine con la quale il film si chiude: quella di Eliza e dei suoi compagni che posano per la foto di classe il giorno del diploma. Guardando negli occhi i genitori che stanno loro di fronte, i ragazzi cercano di sorridere e stanno lì immobili mentre la camera indugia su di loro. L’esatto controcampo di un murale ritraente, nel tipico stile del realismo socialista, due giovani allievi sorridenti impegnati nello studio, che pochi istanti prima avevamo visto all’interno della scuola. Gli sguardi dei ragazzi, fissati nella mente degli spettatori dal sopraggiungere del nero, carichi di speranza e rivolti al futuro e che paiono l’unico momento in cui lo sguardo di Mungiu assume una prospettiva positiva, sono in realtà ancora più carichi di malinconia.

Il regista porta alle estreme conseguenze un discorso che aveva iniziato con i due film precedenti. Se gli effetti delle sovrastrutture (la religione in Oltre le colline, 2012) esercitano un potere coercitivo sull’individuo così forte da violarne materialmente il corpo (l’aborto clandestino in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, 2007) qui è come se il sistema medesimo (il corpo statale) fagocitasse se stesso. E così come nei due film precedenti anche qui manca una visione che sia totale, che abbracci i luoghi gli eventi e le situazioni narrative con uno sguardo di insieme. La macchina di Mungiu, che sta incollata ai personaggi e gli spazi, piuttosto che descriverli, preferisce attraversarli (rendendoli automaticamente abitati), vuole che la propria parzialità sia elemento integrante della storia che racconta. Viene in mente Niente da nascondere (2005) di Haneke. E non solo per la dinamica degli atti vandalici misteriosi che la famiglia di Romeo subisce, ma anche per quell’atteggiamento di costruzione della realtà viziato sempre da uno sguardo filtrato. Gli specchi nei quali vediamo di continuo restituiti i corpi dei personaggi, i giochi di riflessi con i vetri (da applausi quello alla stazione di polizia quando Eliza deve riconoscere l’uomo che l’ha aggredita) di cui Mungiu riempie i lunghi piani sequenza sono la testimonianza dell’impossibilità (che è anche necessità) di guardare la realtà con occhi genuini, puri.

Un metro di osservazione del quale il regista ci rende partecipi sin da subito riassumendolo in un attimo tanto fugace quanto straordinario. La mdp, posta dentro l’auto del protagonista inquadra l’esterno attraverso un finestrino. Pochi istanti dopo un sasso infrange il vetro che, disintegrandosi resta tuttavia attaccato al montante della portiera. La camera non si sposta, l’auto nemmeno, l’unica cosa che cambia è l’oggetto del nostro sguardo, ciò che prima osservavamo (il mondo all’esterno dell’auto) e che ci sembrava nitido ora è increspato, opalescente, invisibile. Come se a rompersi non fosse il finestrino, e nemmeno l’obiettivo della mdp o lo schermo del cinema. Ma il nostro stesso occhio.

http://www.cineforum.it/FocusesTexts/view/Bacalaureat_di_Cristian_Mungiu

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