Jean Epstein di Laura Vichi e qualche film

 

JEAN EPSTEIN CINEASTA 1922-1929. DALLA FOTOGENIA DELL’IMMAGINE ALLA FOTOGENIA DELL’IMPONDERABILE

 

di Laura Vichi

Il periodo che va dal 1922 al 1929 è quello che ha reso famoso l’Epstein cineasta in un percorso particolarmente denso. Esso va infatti dal film d’esordio all’ingresso di Epstein nel mondo del “mestiere” al tentativo di creare una casa di produzione indipendente alla disillusione, infine, nei confronti delle leggi del mercato cinematografico. Nelle storie del cinema è spesso l’unico periodo della carriera di Epstein ad essere considerato, incasellato in tre momenti distinti: i film Pathé, il periodo Albatros e la fase autonoma di Les Films Jean Epstein.

In realtà, come si vedrà, i film realizzati in questi tre periodi sono intimamente legati tra loro e rappresentano un momento di lavoro incessante sul piano dell’elaborazione teorica. Si tratta di una ricerca che passa attraverso la pratica allo scopo di indagare le possibilità del linguaggio cinematografico in relazione al concetto, che va costruendosi, del cinema come pensiero, il quale sarà pienamente espresso da Epstein negli scritti teorici e filosofici degli anni Trenta e Quaranta.

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Passando in rassegna i suoi film dell’epoca emerge come Epstein cerchi di dar forma alle varie sfaccettature del suo pensiero filmico, percorso che si compirà, sul piano della prassi, con Le tempestaire (1947), film teorico per eccellenza[1].

In questa prospettiva il primo film di Epstein, Pasteur (1922), diviene un film importante in quanto contiene già diverse indicazioni sui temi della ricerca cinematografica del cineasta, che abbandona il modello naturalista a favore della suggestione e dell’evocazione[2]: “Les souvenirs laissés par le passage d’un surhomme sont chargés d’un tel potentiel d’expression […] qui consiste à multiplier les reliques au delà des limites du vraisemblable”[3].

In effetti, nonostante l’agilità del film risulti imbrigliata nelle didascalie esplicative, sul piano delle immagini è evidente il tentativo di concretizzare alcune delle idee espresse in Bonjour cinéma, per esempio quelle sul primo piano, sull’“animismo” e sulla capacità evocativa del cinema. In questo senso appaiono particolarmente significative le parti del film dedicate agli esperimenti scientifici attraverso le inquadrature ravvicinate degli alambicchi, dei microscopi, delle colture, dei microbi, ecc. I frequentissimi primi piani di oggetti e dettagli denunciano dunque la capacità del cinema di rivelare la vita laddove resta invisibile all’occhio umano, ma anche di crearla quando nella percezione ordinaria non esiste.

L’opera di Pasteur descritta nel film sembra inoltre venire a supporto dell’idea di Epstein formulata in La lyrosophie (1922), secondo cui il principio intuitivo dell’analogia diviene sapere scientifico: “Une analogie s’établit dans l’esprit de Pasteur entre ces corpuscules et les ferments. Ce sont là comme ici des microbes”, recita infatti una didascalia.

Anche la fotogenia del mondo inanimato viene tematizzata sotto forma, prima, delle ricerche dello scienziato sulla struttura cristallina intesa come visualizzazione sincronica della parabola vitale, poi delle ricerche sul fenomeno della fermentazione. Il film sottolinea come Pasteur avesse compreso che tale processo non era dovuto a “cause di morte”, ma “di vita” a livello microscopico. Benché questo concetto non venga sviluppato oltre il dato fenomenico e resti di fatto ancora affidato più al discorso verbale che alle immagini, la vitalità della morte è un argomento che Epstein, appassionato lettore di Lucrezio e di Poe, continuerà ad approfondire sia nel suo cinema sia negli scritti.

I film Pathé: un terreno fertile  per l’elaborazione teorica

Se già in Pasteur Epstein aveva adottato angoli di ripresa inusuali e valorizzato il mondo oggettuale, in L’auberge rouge (1923) grazie all’uso del primo e primissimo piano e della dissolvenza incrociata, gli oggetti diventano personaggi: il cesto di frutta con il candeliere, le carte da gioco, le collane e i braccialetti, il diamante che tramite una dissolvenza incrociata si trasforma in asso di denari e poi in teschio, la pioggia torrenziale. Significativamente, viene loro attribuito un ruolo nodale anche nella struttura del film, nei momenti in cui questa agisce sui diversi piani temporali. Il mezzo scelto per attuare tali passaggi è la dissolvenza incrociata, valorizzata da Epstein soprattutto allo scopo di conferire fluidità alle associazioni attuate dal pensiero, le quali in uno stato di fatigue mentale (del protagonista, ma anche dello spettatore) possono dare luogo a “trasformazioni” dell’oggetto della visione rivelandone ulteriori significati. Anche i primi e primissimi piani dei volti, che possono debordare dall’inquadratura o essere costretti da mascherini, conferiscono al racconto un senso “altro”, enigmatico o rivelatore. Ne è un esempio l’apertura del film, con il primo piano cadaverico di Prosper racchiuso in un’iride, che non ha alcuna relazione con la sequenza successiva. Solo a posteriori, infatti, è possibile capire come con questa immagine il passato risulti subito immesso nel presente e come l’incipit “contenga” il resto del film.

Merita di essere trattata separatamente l’inquadratura, ricorrente lungo tutto il film, della “natura morta” composta da un cesto di frutta e un candeliere, la quale non presenta alcuna identificazione con lo sguardo dei personaggi. Questa inquadratura segna ogni passaggio da un piano temporale all’altro, ad indicare la presenza del dispositivo cinematografico come ulteriore narratore.

Con L’auberge rouge Epstein si propone di indagare programmaticamente[4] e pragmaticamente il funzionamento del ritmo. In particolare, l’attenzione è rivolta al rapporto tra il ritmo interno alle inquadrature e tra un’inquadratura e l’altra, anticipando il “montaggio ritmico” ejzenštejniano. In questa prospettiva Epstein cura particolarmente la gestualità degli attori, spesso costretti a movimenti lentissimi che li fanno apparire come “in trance”. Per creare un’atmosfera emotivamente carica, queste inquadrature vengono poste in contrasto con la velocità del montaggio, operazione che rende visibile la capacità del cinema di manipolare il tempo.

Il dispositivo cinematografico è quindi tutto orientato a cogliere l’evoluzione delle interiorità nella loro mutevolezza. Più precisamente, con il montaggio ritmico, il cineasta riesce per la prima volta a concretizzare l’idea del “flusso di coscienza” in termini cinematografici, come si era proposto in La poésie d’aujourd’hui (1921) e che tornerà in modo altrettanto prioritario in altri film, quali Cœur fidèle (1923) o La chute de la maison Usher (1928).

L’auberge rouge è anche un luogo di tensione tra oggettivo e soggettivo. Il primo piano al rallentatore della veggente dopo l’estrazione dell’ultima carta pone l’accento sulla capacità rivelatrice del cinema e allo stesso tempo enfatizza l’impreparazione del personaggio di Prosper, uomo di scienza, davanti alle forze dell’irrazionalità. Non è forse un caso se lo stesso tipo di inquadratura verrà impiegato in Usher proprio nel momento in cui Roderick prende coscienza della sua sensitività.

Nella sequenza dell’incubo, invece, la soggettività è affidata al montaggio: alle inquadrature degli ospiti che dormono e a quella di Prosper sveglio si alternano, rapidamente, immagini di cespugli, di fiori e della pioggia torrenziale inframmezzate a quelle delle collane, dei gioielli e dei diamanti cui sono connesse per analogia formale. Una serie di espedienti linguistici articola le fasi dello stato emotivo di Prosper: primi e primissimi piani del protagonista illuminato in modo diverso e di alcuni particolari (la mano, il bisturi), cui si aggiungono fotogrammi neri, ad indicarne i vuoti mentali, lo stato di trance. Contemporaneamente, tutta la sequenza è giocata sulla contrapposizione interno/esterno (Prosper, nell’agitazione, entra ed esce dalla locanda) che nelle immagini del temporale presenta delle ambiguità, confondendo il mondo interiore e quello esterno.

La sequenza che culmina nell’esecuzione di Prosper attiva un meccanismo di sovrapposizione tra mondo oggettivo e mondo soggettivo attuando così un “trasferimento” di sentimenti dall’uno all’altro personaggio. Nella parte in cui si vede la figlia dell’oste correre per i campi verso la prigione, questo meccanismo sembra altresì segnalare l’esistenza di un disegno più ampio, dominato dalle forze naturali (il temporale in primo luogo, e poi gli alberi spogli), e da un “destino” che ingloba la vicenda, come emergerà in modo più incisivo in altri film.

Con  Epstein prosegue le sue ricerche in direzioni ulteriori. Se qui compie deliberatamente una rielaborazione del melodramma[5], il film non si limita a questo.

Grazie al tipo di inquadratura, il personaggio femminile si presenta da subito come un personaggio diviso: non è mai ripreso a figura intera, ma se ne vedono alternativamente le mani, immerse tra gli oggetti dell’osteria, e il volto, il cui sguardo è proiettato altrove, verso l’esterno. In tal modo, come in L’auberge rouge, tra interno ed esterno, soggettivo e oggettivo, si crea un rapporto ambiguo e mutevole. Questa doppiezza dello sguardo torna in maniera ancor più evidente nella sequenza dell’appuntamento di Jean e Marie. Qui il tempo risulta sospeso in virtù di una serie di inquadrature dell’acqua inframmezzate e sovrimpresse ai volti dei due amanti, le quali danno luogo ad una “composizione plastica” e “fluttuante”, sganciata dalla narrazione.

Il mare è però anche il luogo dell’unione e del desiderio dei due. Appare infatti significativo che nella sequenza in cui Jean attende invano Marie al porto, una sorta di “danza” composta da sovrimpressioni in movimento mostri ora il volto della ragazza sull’acqua, ora la superficie increspata del mare, simbolo di un sogno di libertà turbato dalla separazione. Questa volta, l’effetto di sospensione scaturisce da una serie di dissolvenze incrociate, sovrimpressioni, inquadrature dall’alto verso il basso, che visualizzano lo stato di disperazione ipnotica del ragazzo, il quale scambia (trasforma letteralmente, grazie ad una dissolvenza incrociata) una donna per la sua amata. La fondatezza dell’irreale visualizzato da Jean è tanto più forte quanto più vediamo, già all’interno della sequenza stessa, Petit Paul e Marie lontani dal mare, in una strada deserta dell’entroterra. Qui, il paesaggio brullo, metafora dell’aridità sentimentale di quella situazione è funzionale alla transizione che porta alla sequenza clou del film, quella del carnevale e della giostra.

In Cœur fidèle si hanno dunque, da un lato, il mondo fluido del “movimento dei sentimenti”, dall’altro, un mondo meccanico, quello della festa paesana. Quest’ultima, che coincide con il fidanzamento tra Petit Paul e Marie, contiene già, grazie all’inserimento di inquadrature che mostrano l’avvicinarsi di Jean, un’inversione di segno nella progressione della vicenda drammatica, che prevede infatti la sostituzione di Petit Paul da parte di Jean sulla giostra come nella vita (la struttura delle due sequenze del carnevale è identica). Questo tipo di costruzione concretizza le ricerche di Epstein sul montaggio rapido e sulla mobilità dello sguardo della macchina da presa diventando un pretesto per testare la fotogenia del montaggio ritmico.

Grazie a questa sequenza Cœur fidèle si pone subito come un modello per le contemporanee ricerche sul cinema, ma Epstein sente già il bisogno di esplorare nuovi territori, cosicché a partire dall’anno successivo, mette per iscritto aspre critiche nei confronti dell’“antologizzazione” e dell’enfasi che questa dà agli espedienti tecnico-linguistici. Secondo il cineasta, “le stade mécanique du cinéma est passé”[6], così come “l’âge du cinéma-kaléidoscope”[7], arrivando ad affermare che “les symphonies de mouvement, venues trop tard à la mode, sont maintenant bien ennuyeuses”[8].

Quando Cœur fidèle esce nelle sale, Epstein ha già girato La montagne infidèle (1923) e quasi terminato la lavorazione di La Belle Nivernaise (1924), due film che testimoniano del nuovo indirizzo preso dal regista verso, da un lato, un maggiore realismo della rappresentazione e dall’altro, un approfondimento della riflessione su un mondo in cui l’uomo non ha più alcuna centralità ed entra a pari merito nei cicli della natura.

Se il documentario – perduto –  sull’eruzione aveva al centro il fuoco e la lava, è invece l’elemento acquatico a ricoprire un ruolo fondamentale in La Belle Nivernaise.

Rispetto ai film precedenti, i movimenti della macchina da presa sono diventati più morbidi e il numero dei campi lunghi è notevolmente aumentato, specialmente per quanto riguarda le sequenze dedicate al barcone. Anche i carrelli e le panoramiche, figure proprie della descrizione filmica, acquisiscono un valore quasi liquido. Tutto ciò corrisponde ad un minor virtuosismo tecnico e spettacolare, frutto di una scelta consapevole di Epstein, che con questo film delude le aspettative di molti, forse in attesa di altri “pezzi da antologia”.

In La Belle Nivernaise la natura fonde la propria materia con i volti o con altre parti di se stessa: l’acqua del fiume scorre sul volto di Victor pensieroso, poi lui e Clara appaiono sotto una superficie di acqua increspata (forse un cattivo presagio come in Cœur fidèle), ma anche le piante sulla riva “scorrono”, viste dalla chiatta, su altre piante. Da qui proviene il senso di inglobamento fluido tra organico e inorganico, tra acquatico e terrestre, e la descrizione diviene un nuovo modo, per Epstein, di indagare le cose e gli esseri ed estrapolarne l’essenza.

La valorizzazione dei dettagli e degli oggetti, spesso in primo piano, è presente anche in questo film, ma la loro rappresentazione ha subito un’evoluzione verso l’antropomorfizzazione. L’imbarcazione stessa si configura progressivamente come un’entità organica di cui la famiglia Louveau, Victor incluso, è parte integrante. Se ne ha la prova con l’allontanamento del ragazzo, che non potendo vivere lontano dal fiume e dal barcone si ammala gravemente. Contemporaneamente, la famiglia Louveau perde la propria vitalità chiudendosi come in un lutto. Anche la “Belle Nivernaise” stessa è “sofferente” e si è riempita di fori. Tutto il mondo che ruota attorno alla péniche sembra così essere colpito da una patologia e da una perdita di equilibrio che si risolvono soltanto con il ritorno di Victor, che compie contemporaneamente un percorso affettivo. La sua unione con Clara è anche un ritorno alla natura, siglato dai primi piani dei fiori sovrapposti a quelli dei volti dei due innamorati nel finale del film.

I film Albatros: una transizione necessaria

Il periodo trascorso presso Albatros presenta una divaricazione tra il pensiero espresso negli scritti e il lavoro di Epstein sul set. Infatti, da un lato questi sta approfondendo alcuni concetti chiave del suo pensiero, quali, in particolare, l’animismo del mondo che il cinema riesce a visualizzare e a creare, la visione “altra” dell’obiettivo, che può connotarsi psicanaliticamente intaccando la persistenza dell’io (mostrandoci a noi stessi sullo schermo), la fotogenia come qualità “morale”, il décor come personaggio. In questi anni Epstein produce degli articoli importanti, come “Le regard du verre” e “L’opéra de l’œil” e infine pubblica Le cinématographe vu de l’Etna.

Il cineasta riflette sulla nuova direzione che l’estetica cinematografica deve prendere. Secondo lui, il problema della drammaturgia filmica non è risolto, e non è possibile individuare soluzioni se non nella prassi[9]. Lavorare per Albatros significa per Epstein affacciarsi su un nuovo panorama produttivo e uscire completamente dal “formalismo modernista”[10], ma trovare soluzioni interessanti non è facile e il cineasta comincerà presto a sentire il peso delle contingenze commerciali.

Epstein si confronta così con gli aspetti del mestiere tipici della produzione Albatros e di solito considerati dall’avanguardia “anticinematografici” e “teatrali”: la valorizzazione della recitazione e le arti della scenografia e della costumistica.

In questo senso il trattamento dello spazio e delle scenografie di Le lion des Mogols (1924) rappresenta un ibrido in cui il regista tenta di coniugare (criticandole al contempo) la tendenza orientalista di Albatros, con quella modernista legata alla Parigi delle notti metropolitane e del mondo del cinema. Il contrasto tra Roundghito e Morel e la messa in ridicolo dei loro mondi traducono l’ironia di Epstein nei confronti delle due tendenze.

Alcuni elementi che caratterizzavano l’innovazione dei film di Epstein ora si sono ridimensionati, ad esempio lo stato emotivo di Roundghito, a differenza di quanto è avvenuto in altri film con l’oscillazione del punto di vista dall’oggettivo al soggettivo, è tutto risolto nella recitazione. Di conseguenza, le inquadrature sono più lunghe e più statiche. Altri elementi anticipano invece soluzioni adottate nei film del periodo successivo, come la corsa in auto. Vero e proprio topos del movimento modernista, quest’ultima segna il passaggio dallo stato di depressione a quello euforico del protagonista. Benché Epstein vi insista più nel découpage[11] che nel film, la velocità dell’automobile diventa un mezzo di liberazione e di oblio, che anticipa, via L’affiche (1924), La glace à trois faces (1927).

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Le lion des Mogols è quello che riflette maggiormente la fase di transizione in cui il cineasta si viene a trovare, infatti i due film che seguono, L’affiche e Le double amour (1925), sono soprattutto dei prodotti di mestiere, anche se non escludono del tutto né i legami con i film realizzati per Pathé (primi piani di volti e di oggetti, valorizzati attraverso gli stessi procedimenti), né elementi che Epstein avrà modo di rielaborare più tardi sia sul piano estetico che teorico. In L’affiche ad esempio l’immagine fotografica è direttamente connessa alla morte, rappresentata dal manifesto con il “Bébé Cadum” deceduto. Questo tema, a cui Epstein attribuisce un valore cognitivo, sarà approfondito in seguito, nella prassi come nella teoria.

Le immagini notturne della metropoli nell’incipit di L’affiche è un elemento iconografico che ritorna in La glace à trois faces, ma soprattutto sembrano anticipare il film del 1927 la sequenza della domenica fuori città, sulla Senna, e quella della corsa in auto. La prima richiama un’idea che Epstein, preannunciando la dimensione antropologica del suo cinema, aveva già espresso in Bonjour Cinéma a proposito del paesaggio, il quale mediante l’impiego di primi piani e dettagli dei gesti, dei volti e delle cose deve evitare di essere “da cartolina”. Come in Le lion des Mogols le sequenze della corsa in auto sono legate all’estetica della velocità che caratterizza l’Art déco. Oltretutto l’universo di L’affiche è tutto moderno: la pubblicità, gli affari, le quotazioni in borsa, le comunicazioni veloci costituiscono il nuovo mondo che ora entra pienamente nel cinema di Epstein.

A differenza del film precedente, invece, Le double amour punta, da un lato, alla massima valorizzazione della Lissenko, dall’altro presenta un ulteriore approfondimento del rapporto tra il regista e il lavoro dello scenografo. Nel periodo trascorso presso Albatros Epstein consolida la sua padronanza nella gestione dell’elemento umano nella composizione del film. Gli attori vengono così a ricoprire un ruolo centrale, il che comporta inquadrature più lunghe che lasciano spazio all’espressione dei gesti e dei volti, provocando una certa lentezza che si ripercuote sul ritmo generale. Quanto alla scenografia, Albatros annovera tra le sue file specialisti di rilievo, ma si deve anche tenere conto del clima più generale determinato dall’internazionalizzazione culturale, la quale trova una delle sue massime espressioni nella Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels del 1925. Se le scenografie di L’inhumaine, firmate da Mallet-Stevens, Cavalcanti e Léger rappresentavano una sorta di “catalogo” dell’esposizione[12], quelle di Le double amour sono vicine – via Kéfer – al pensiero di Meerson, secondo cui il décor non deve primeggiare sugli altri elementi ma sottolineare opportunamente alcuni passaggi del film e soprattutto restituirne l’atmosfera[13].

La staticità del mondo ritratto (che include un’interessante campionatura del design déco) si riflette anche sulla sua struttura, poggiata sulla simmetria dei rapporti tra i personaggi e sul raddoppiamento della vicenda di Prémont-Solène in quella del figlio. Di qui deriva anche una temporalità particolare evidenziata attraverso la ripetizione di immagini e inquadrature. L’onda che si infrange sulla battigia ne è un esempio.

Con Les aventures de Robert Macaire (1925) Epstein si cimenta nel film a episodi, che in questo periodo sta subendo una trasformazione con il passaggio dal primato del sensazionalismo e della suspense a quello della visione, quindi a una fruizione più contemplativa dell’immagine[14]. In questo quadro, oltre alla valorizzazione degli attori principali, si comprende la riscoperta del paesaggio in cui Epstein immerge letteralmente i suoi personaggi. Il plein air diviene protagonista della maggior parte delle inquadrature, in cui spesso i personaggi sono visivamente secondari.

Con la scelta di Robert Macaire, eroe proveniente dalla letteratura popolare e dalla caricatura, il cineasta può inoltre rivolgersi ad un pubblico vasto e parodiare il genere a cui solo in apparenza fa riferimento. È chiaro perciò, da questo punto di vista, come anche Robert Macaire costituisca a suo modo un lavoro di ricerca: a ben vedere, Epstein travalica il genere pur senza modificarne le regole e sposta l’attenzione dal soggetto alla rappresentazione.

Les Films Jean Epstein ovvero la fotogenia del tempo

Con Mauprat (1926), il suo primo lavoro indipendente, Epstein in realtà realizza ancora un lavoro di transizione verso i film che lo stesso cineasta considera come i più compiuti della sua carriera, La glace à trois faces, La chute de la maison Usher, Finis Terrae e conferma ulteriormente che i film realizzati per Albatros costituiscono una fase non trascurabile nell’evoluzione epsteiniana.

Come in Macaire, gran parte del film è una vera e propria celebrazione della natura boschiva. Nelle intenzioni di Epstein c’è la volontà di ricreare l’atmosfera del romanzo di Sand, più che riprodurlo, ma il cineasta è costretto a cambiare in parte i suoi programmi a causa di una controversia con Antoine[15]. In ogni caso, benché sia un film irrisolto da più punti di vista, lo si può vedere come un passaggio obbligato da Macaire a Usher, non solo per l’atmosfera gotica degli esterni invernali e degli interni scuri ed ampi della Roche Mauprat, ma anche e soprattutto per il modo in cui la macchina da presa si muove e “accarezza” oggetti e volti. Dalla “leggerezza” di Macaire, si passa così all’impalpabilità di Usher. Vi sono inoltre anche puntuali riferimenti che pongono i due film in relazione diretta. Sul piano iconografico, oltre al castello misterioso e allo stagno, compare lo stesso primo piano delle candele (che qui apre il racconto di Hubert sulla vicenda del nipote dopo la morte della madre), o l’uccello morto che in Mauprat presagisce la negatività degli eventi a venire. Sul piano stilistico, l’elemento più evidente è il carrello che accompagna Bernard nella sua fuga dal castello dello zio Hubert e che caratterizzerà i movimenti di Roderick Usher.

Infine, la connotazione psichica data all’indagine dei sentimenti rappresenta altresì un’evoluzione nella ricerca epsteiniana che, prima di approdare ad Usher, passa per Six et demi onze (1926).

Qui Epstein torna al tema della fotografia e del raddoppiamento. Questa volta il racconto è soprattutto visivo e si articola secondo una complessa modulazione di alcune immagini fondamentali, quali la luce del sole, la macchina fotografica, la fotografia e il volto della donna. Programmaticamente, nei titoli di testa gli attori principali sono “l’objectif, le soleil et Suzy Pierson”, i primi due considerati alla stregua di due vedettes americane[16]. Il nuovo spessore teorico che il linguaggio acquista in questo film appare connesso con alcune riflessioni che il cineasta sta elaborando nello stesso periodo, in particolare quelle pubblicate in Etna a proposito dello specchio e dell’immagine riflessa di noi stessi, la quale ci oggettiva in modo inquietante nella nostra visione. Successivamente, un ulteriore approfondimento di queste riflessioni attraverso i suoi film, porterà il cineasta a concepire la capacità rivelatoria e cognitiva del dispositivo cinematografico come un equivalente, in forma attenuata, della morte, evento in cui si attua la conoscenza completa di un individuo, poiché essa è “vita cristallizzata”[17].

Queste concezioni emergono in Six et demi onze sotto forma di temi, mentre Epstein dirige la propria ricerca verso una figurazione dominata dai principi della ripetizione, della variazione, dell’inversione e della simmetria. La figura del doppio, che come si è visto ricorre in vari film, raggiunge qui, grazie ai ruoli attribuiti allo specchio e alla macchina fotografica, una dimensione metalinguistica. Al centro è il potere rivelatore dell’immagine fotografica. Lo sguardo del dispositivo penetra l’apparenza e rivela la vera identità della donna, così come spiega il suicidio di Jean.

Il momento dell’autodistruzione coincide con quello in cui Jean finalmente vede se stesso “oggettivato” nello specchio e prende coscienza delle proprie illusioni. Si ha dunque una sorta di sintesi: i richiami al flash e alla luce del sole sono attuati figurativamente dalla sovraesposizione della scena del suicidio, mentre sul piano figurale si può parlare di una ricongiunzione dell’oggettivo e del soggettivo che si compie totalmente nella morte. L’analogia morte/fotografia viene tematizzata nell’apertura della seconda parte del film: Jerôme rialza da terra il ritratto di Jean, gesto che preannuncia la funzione chiave della fotografia nella vicenda del fratello. Tutta la seconda parte ricalca la prima tramite la sostituzione di Jean da parte di Jerôme, ma compie inoltre un percorso di conoscenza attraverso il ritrovamento e lo sviluppo dei negativi.

La natura riflette i sentimenti che percorrono il film: il sentimento di morte è evocato dai cipressi che si muovono al vento nella sequenza d’apertura al cimitero e che ritornano nella sequenza in cui Mary è sulla spiaggia. Come in altri film, il mare è l’elemento che sancisce l’unione di Mary e Jean (i due si baciano e “dissolvono” nell’acqua). Tuttavia, qui il mare appare anche abbinato, tramite sovrimpressione, alla corsa in auto, che si presenta come una fuga dalla propria realtà, come in Le lion des mogols e in L’affiche e più tardi in La glace à trois faces. L’illusione della felicità corrisponde, in Six et demi onze, all’illusione di avere per sé Mary, che infatti passa dall’auto di Jean a quella sportiva di Harry Gold, che sfreccia a gran velocità.

L’illusione di poter raggiungere la felicità e di fuggire da se stessi nel film è data ancora una volta dal procedere “a ritroso” della narrazione, almeno da un certo punto in poi.

Se in L’auberge rouge il passato e il presente erano rappresentati spazialmente (i fatti del 1799 e la cena del 1825), qui la dimensione temporale sembra affrancarsi dallo spazio, preannunciando il lavoro compiuto con La glace à trois faces.

Quest’ultimo è infatti un “film-saggio” che, da un lato, rappresenta il risultato delle ricerche sin qui compiute, dall’altro contiene spunti teorici che il cineasta svilupperà lungo l’arco di tutta la sua carriera, in particolare per quanto riguarda la riflessione sul tempo.

Rispetto alla produzione precedente, il film mette in pratica l’idea, spesso sottolineata da Epstein, che al cinema non ci sono storie ma solo situazioni, senza inizio né fine. Questa concezione emerge sia a livello macroscopico, nell’esposizione sintetica delle relazioni tra l’uomo e le tre donne, sia a livello microscopico, all’interno dei singoli episodi, in cui i comportamenti e i gesti sono quasi sempre tratteggiati nei loro momenti iniziali o conclusivi, ma mai descritti nella parabola del loro svolgimento. Il racconto di Lucie nel terzo episodio è, in questo senso, particolarmente chiarificatore: tramite un montaggio rapidissimo di alcuni “flash” della memoria si vede “Lui” che è appena arrivato, che riparte, che si sta per sedere a tavola, che è sul punto di andar via, ecc.

Non solo. Tutto il film è denotato da una modalità di rappresentazione che procede per accenni, allusioni, richiami, che lo spettatore è invitato a porre in relazione. Infatti, tramite dissolvenze incrociate, sovrimpressioni e raccordi analogici tra le immagini, ossia la retorica di quell’avanguardia rinnovata auspicata da Epstein, le sequenze non si susseguono cronologicamente e danno luogo a fenomeni di compressione e dilatazione temporale.

Ad un altro livello, la frammentarietà espositiva corrisponde all’identità indecidibile e plurima del personaggio maschile, che non ha un nome e di cui non a caso, all’inizio del secondo brano, un’inquadratura mostra il busto “sdoppiato” tramite un’esposizione multipla. D’altra parte, in nessuno degli episodi lo si vede nella sua interezza: la macchina da presa ne frammenta il corpo proponendone delle parti (primi piani o dettagli) o nascondendolo dietro oggetti diversi, oppure facendolo sfrecciare attraverso lo schermo. Soltanto alla fine, cioè dopo la sua morte, se ne ha un’immagine unitaria. La morte, ancor più che in Six et demi onze, si configura così come un mezzo di conoscenza: solo ora le confidenze (e il desiderio) delle tre donne si fondono in un’unica immagine del protagonista, che però svanisce immediatamente, poiché per Epstein la morte è un’entità dinamica.

Il momento del decesso dell’uomo coincide con l’incontro di diversi livelli di temporalità che si attualizzano nel “qui e ora” di quell’evento. Così Epstein:

“Le je futur éclate en je passé; le présent n’est que cette mue instantanée et incessante. Le présent n’est qu’une rencontre. Le cinéma est le seul art qui le puisse représenter tel que ce présent est”[18]. In La glace à trois faces passato e presente vengono messi in comunicazione tra loro mediante associazioni e rimandi tra le immagini, che tessono ulteriori strutture all’interno della narrazione, la quale acquisisce un carattere onirico. In sostanza, il tempo non lineare del film è un tempo determinato dai movimenti della coscienza, argomento su cui Epstein aveva già scritto nel 1922[19]. Non si tratta di procedere semplicemente all’indietro, ma di mostrare in tempo inverso alcune frazioni dello sviluppo normale di un evento.

Anche al livello di ogni singolo episodio non si tratta mai di una temporalità lineare, la struttura di ogni microstoria corrisponde infatti ad un percorso a ritroso attraverso momenti salienti. È lo stesso Epstein a spiegare la nuova ricerca intrapresa:

“Les événements ne se succèdent pas et pourtant se répondent exactement. Les fragments de plusieurs passés viennent s’implanter dans un seul aujourd’hui. L’avenir éclate parmi les souvenirs. Cette chronologie est celle de l’esprit humain. Les personnages se présentent chacun seul et le récit les tient écartés définitivement; néanmoins ils vivent ensemble, l’un pour l’autre. Est-ce de la dramaturgie nouvelle vers laquelle les images maintenant s’efforcent? Environ délestées de toute technique, elles ne signifient vraiment que l’une par l’autre […]. Et deux d’entre elles, inconnues l’une pour l’autre, par-dessus vingt mètres de films, se rencontrent dans l’œil du spectateur et là seulement sonnent leur vrai son: ainsi les notes d’un accord qu’une demi-octave sépare, ne donnent leur signification que dans l’oreille du musicien”[20].

Come si è visto, le vicende vengono tratteggiate in quel che resta della loro memoria: gesti, atteggiamenti, inizi, fini, incontri, separazioni. Con l’occhio della cinepresa viene esplorata la genesi di un atteggiamento o la traccia di un gesto fuggevole.

In questo gioco di temporalità diverse attuate dal film è chiamato in causa lo spettatore. Rispetto alla novella di Paul Morand da cui Epstein trae il soggetto e che ha già una struttura pirandelliana, il film presenta, oltre che alcune variazioni nel contenuto, un ulteriore approfondimento del concetto di relatività espresso dallo scrittore. Tale concetto, che secondo il cineasta ha la possibilità di essere visualizzato e concepito in modo completo solo dal cinema, caratterizza la dimensione temporale, in particolare il tempo interno dell’individuo, sia all’interno del film, sia al suo esterno, coinvolgendo cioè il pubblico. Questo è infatti interpellato immediatamente, dalla domanda iniziale “Trois femmes aimaient un homme. Mais lui en aimait il une?”, che tuttavia, posta in questo modo, contiene già la sua risposta, esplicitata nel finale, in cui il protagonista risulta non aver mai realmente amato nessuna delle donne, utilizzate narcisisticamente come tre specchi per il proprio piacere. Lo spettatore è chiamato in causa e la sua posizione tematizzata subito dopo la didascalia d’apertura nella scena in cui si vedono tre camerieri spiare qualcosa di indecifrabile. Nella posizione dell’oggetto visto ci sono immagini incoerenti con la situazione: luci notturne, mentre i camerieri si trovano nell’esterno/giorno di un giardino. Tale apertura, se posta in relazione con l’epilogo, appare come lo svelamento del meccanismo di comunicazione con lo spettatore, che diviene il soggetto del film. Nel finale lo specchio rimane infatti vuoto producendo in chi guarda una riflessione sulla natura ingannevole del proprio desiderio.

Come in Six et demi onze il senso di morte pervade tutto il film, ma a un livello più profondo. E proprio gli elementi di collegamento tra gli episodi si fanno portatori di questa connotazione. Appartengono tutti al mondo tecnologico moderno e rappresentano l’aspirazione alla libertà del protagonista: il telefono, i fili elettrici, il treno e, naturalmente, l’automobile. Alla fine del primo segmento Ferté ritira l’auto dal garage. Il movimento è quasi aereo e anticipa, nella rotazione sempre più veloce, la vertigine prodotta dalla corsa finale.

In ogni “capitolo” del film vi sono delle anticipazioni di questa fuga vertiginosa verso la libertà. Alla fine del secondo segmento, “Lui” scompare in automobile, e si vede l’asfalto su cui l’auto corre, immagine che torna nel terzo segmento. Qui si sovrappongono alla strada le cime degli alberi che “scorrono” anch’esse sempre più veloci. Poi, all’inizio dell’ultimo brano si conclude il terzo episodio, con il telegramma indirizzato a Lucie, seguito dall’inquadratura dei fili elettrici su cui ora sono appollaiate delle rondini: il sogno di libertà e di velocità è minacciato – lo si coglie sempre a posteriori – da un presagio di morte.

La fuga finale esprime pienamente il desiderio di evasione che percorre tutto il film parallelamente all’avvicinarsi della morte, e con cui alla fine coincide. Si ristabilisce per così dire un equilibrio nella natura. La rondine incarna l’agente di giustizia, come la luce dell’alba e la fotografia in Six et demi onze, e produce l’evento, che è anche una rivelazione. La “natura-personaggio” di matrice canudiana acquista una connotazione “morale”, diventa cioè una sorta di coscienza soprannaturale, che ingloba le coscienze delle cose e degli esseri. Il film celebra questo movimento vitale attraverso l’impiego di inquadrature quasi mai statiche sottolineando non solo il “panteismo” cinematografico, ma anche, in modo più incisivo rispetto a prima, l’idea del cinema come pensiero. Idea ulteriormente approfondita con La chute de la maison Usher.

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Nel film ispirato a Poe la cesura tra l’incipit e tutto il resto segna una presa di distanza dal genere fantastico e fornisce indicazioni circa i principi di organizzazione dello spazio che informano tutto il film, in particolare la frammentazione straniante del corpo, l’isolamento dei dettagli, la costruzione di uno spazio fluttuante e illogico, quindi l’ambiguità che deriva da questi processi[21]. L’incongruenza iniziale sembra perciò avere lo scopo di invitare lo spettatore ad una lettura “altra”, lettura che mette in rilievo la visione vitalista che Epstein ha dello scrittore americano[22].

Nell’universo letterario di Poe, in cui tutto è pronto a metamorfosizzarsi ed è incline all’ambiguità[23], alcuni personaggi sono dotati di ipersensibilità percettiva. Come Poe, Epstein pone il suo Roderick in relazione al limite in senso assoluto, la morte, e ne fa un fenomeno di vita, di trasformazione.

Nella prima parte, definita dal trasferimento di Madeline nel quadro ad opera di Roderick, la donna è tenuta prigioniera “dalla tirannia nervosa” del marito, cosa che la definisce già come sepolta viva nel castello.

Nella seconda parte, questa coincidenza si allarga al resto del mondo. Infatti, la morte della donna sembra muovere altre forze vitali. Il funerale con il trasporto della bara attraverso la campagna e l’acqua dello stagno, è associato al matrimonio (l’abito nuziale di Madeline) e alla comunione con il mondo naturale. Sul funerale convergono i quattro elementi che alla fine del film si risolveranno nel crollo del castello, nella tempesta e nell’incendio: la terra (la campagna e l’interno del sepolcro), l’acqua (lo stagno attraversato in barca, ma anche l’atmosfera vaporosa), l’aria (il vento), il fuoco (le candele, il fuoco nel camino e poi l’incendio). La morte di Madeline sembra in effetti attivare un flusso energetico: il vento già presente nel castello, e che segnala l’indefinitezza dei confini tra esterno e interno, diventa sempre più forte. La “diminuzione della vita” nella ragazza corrisponde ad un’amplificazione della sensibilità percettiva di Roderick, opponendolo all’amico, che ha capacità uditive e visive ridotte e al dottore occhialuto, della cui scienza, come recita una didascalia, la malattia di Madeline si prende gioco.

Attraverso l’analisi del movimento, il ralenti risponde all’esigenza di visualizzare le energie che si sviluppano nel mondo di Usher, un universo in cui animato e inanimato, esterno e interno, vita e morte, si mescolano in un unico flusso in cui ogni istante è diverso dal precedente e dal successivo. Uno dei fattori che più contribuiscono a tale risultato è il fatto che siano posti tutti sullo stesso piano, in una temporalità che risulta “altra”, una temporalità puramente psicologica[24].

Attraverso il montaggio, oltre che il ralenti, Epstein traduce gli effetti della “tirannia nervosa” a cui Roderick sottopone la moglie. Per esempio, all’interno della sequenza dell’arrivo dell’amico, si vede Roderick prendere la tavolozza e lambire la tela con il pennello, cui segue un’inquadratura di Madeline che si tocca la guancia, come se fosse stata colpita. Più oltre, quelli che il montaggio e i movimenti di macchina pongono come oggetti della visione di Roderick, sono elementi che si trovano altrove: il paesaggio circostante e i libri che cadono dagli scaffali socchiusi. Tramite il personaggio di Roderick Epstein sembra dirci che la capacità di captare e di creare flussi di energia sono la stessa cosa. Roderick è percorso da energie nervose che lo rendono ipersensibile, iperenergetico, febbricitante, viene in sostanza descritto come un personaggio affetto da fatigue, fattore che consente l’accesso ad un “nuovo stato di intelligenza”. Attraverso Roderick si concretizza così quell’“ascolto della vita vegetativa” che in La poésie d’aujourd’hui era attribuito alla poesia moderna.

Il momento di comunione con Madeline, definito dall’atto di ritrarla, è comunione con le energie che percorrono il mondo e lo animano, cioè trascende i singoli personaggi. La sequenza del “raptus creativo” corrisponde ad un processo di “assorbimento” dell’energia vitale. La vita di Madeline si trasferisce nel quadro[25], che si presenta come uno specchio: la donna è forse il doppio di Roderick? Nel racconto di Poe i due sono gemelli. Epstein attribuisce loro un potenziale rigenerativo rendendoli sposi. Il funerale di Madeline si configura contemporaneamente come un matrimonio (l’abito nuziale della donna), cosicché la sepoltura diviene una rinascita latente. Nella sequenza finale, il tema della rigenerazione si svincola dal personaggio per oggettivarsi nel gigantesco “albero della vita” al di sopra del castello in rovina, mentre la tempesta innesca un’esplosione di energie. L’ultima inquadratura, a tempesta placata, è appunto occupata dalla figura illuminata dell’albero: ancora una volta la morte e la vita sono unite indissociabilmente.

C’è di più. Qualcuno[26] ha messo in evidenza come la serie di immagini del mondo naturale venga progressivamente sostituita da inquadrature molto ravvicinate e al ralenti dei particolari dell’orologio a pendolo. In tal modo Epstein ottiene il senso di una penetrazione del tempo. Il gesto del dipingere non corrisponde tanto ad una volontà di catturare la vita quanto a quella di identificarsi con essa, non è dipingere il tempo, ma identificarvisi.

Roderick rivela l’animismo e il panteismo del mondo, attraverso di lui la vita e la morte sono due aspetti di uno stesso fenomeno, attraverso i suoi sguardi costruisce degli spazi paralleli. L’immagine diviene il luogo di incontri fugaci tra elementi diversi, dell’instabilità e della processualità delle cose, che si comportano come fluidi che fanno sparire l’identità, anche l’identità umana, come scriverà Epstein vent’anni dopo in L’intelligence d’une machine, Le cinéma du diable, Esprit de cinéma e Alcool et cinéma.

Vent’anni prima di Le tempestaire, attraverso Roderick si attua la “chiaroveggenza del cinema” – di cui Epstein scriverà in Photogénie de l’impondérable (1934-35) – intesa come la capacità di concepire simultaneamente lo spazio e il tempo e che, a ben vedere, era già anticipata dal personaggio di “Lui” in La glace à trois faces.

Il ralenti ha la funzione di rivelare i regni della natura, di cui fa parte anche Roderick. Infatti è contemporaneamente inscritto, anche lui, in un universo che lo contiene, una sorta di coscienza superiore, che potremmo chiamare a questo punto, la “coscienza del tempo”. Tale coscienza, scriveva Bergson in L’évolution créatrice (1907), contiene la durata indivisibile e senza oggetto che ne è la condizione di esistenza. Pensare il tempo, corrisponde ad entrare nel divenire stesso[27].

Il carattere di indeterminatezza che denota tutto il film nella mancanza o nell’indecidibilità di contestualizzazioni e referenti spazio-temporali e nelle ambivalenze e ambiguità delle figure che vi compaiono è anche l’indeterminatezza della fotogenia. Epstein sembra qui esplorare il “valore morale” della fotogenia del movimento, cui è attribuita la funzione di penetrare gli esseri e le cose[28], trasformandola in una “fotogenia dell’imponderabile”. Si apre così una riflessione, che si svilupperà negli scritti a partire dalla metà degli anni Trenta, sulla capacità del dispositivo di concepire lo spazio-tempo e sulla necessità di una filosofia del cinema, capace di avere coscienza dei propri mezzi e delle proprie leggi.

Nota: Questo testo è stato pubblicato in spagnolo sul n°63 (ottobre 2009) monografico “Jean Epstein: la forma que piensa” della rivista Archivos de la Filmoteca, a cura di Angel Quintana e Daniel Pitarch, pp. 56-77.


————————————————————————————————————————————————[1] Si veda « Le tempestaire o il compimento della teoria », in L. Vichi, Jean Epstein e il cinema documentario, tesi di dottorato, Università di Bologna, aa. 2004-2005, pp. 229-240.

[2] Per una presentazione e un’analisi dettagliata di Pasteur e degli altri film di Epstein, si veda L. Vichi, Jean Epstein, Il Castoro, Milano, 2003.

[3] J. Epstein, “A l’affût de Pasteur” (1922), in Ecrits sur le cinéma, Seghers, Paris, 1974, t. 1, p. 112, d’ora in avanti EC1.

[4] “Rythme et montage” (1923), in Le cinématographe vu de l’Etna (1926), in EC1, cit., pp. 43-44.

[5] Cfr. “Présentation de Cœur fidèle”, in EC1, cit., p. 123.

[6] “Pour une avant-garde nouvelle” (1924), in Le cinématographe vu de l’Etna, in EC1, cit., p. 150.

[7] “L’objectif lui-même”, (1926), in EC1, cit., p. 128.

[8] “Le regard du verre” (1925), in EC1, cit., p. 125.

[9] “L’opéra de l’œil” (1926), in EC1, cit., pp. 125-127.

[10] F. Albera, “Sociologie d’Epstein”, in J. Aumont, sous la dir. de, Jean Epstein. Cinéaste, poète, philosophe, Cinémathèque Française, Paris, 1998, pp. 233-234.

[11] Conservato presso il Fonds Epstein della BiFi.

[12] Cfr. M. L’Herbier, in “Autour du cinématographe. Entretien avec Marcel L’Herbier, Cahiers du cinéma, n. 202, 1968, p. 27.

[13] Cfr. D. Albrecht, Designing Dreams, London, Thames and Hudson, 1987, p. 58.

[14] M. Dall’Asta, “Le forme dell’eccesso: il cinéroman francese tra sensazionalismo e nostalgia”, Cinegrafie, n. 9, 1996, p. 109.

[15] Cfr. H. Langlois, « Jean Epstein », Cahiers du cinéma, n. 24, juin 1953, p. 20.

[16] “Les films de Jean Epstein vus par lui-même”, in EC1, cit., p. 61.

[17] J. Epstein, “Nos lions” (1928), in EC1, cit., p. 199.

[18] “Temps et personnage du drame” (1927), in EC1, cit., pp. 179-180.

[19] “T” (1922), in EC1, cit., pp.106-111.

[20] “Art d’événement” (1927), in EC1, cit., p. 181.

[21] Cfr. K. Cohen, Film and Fiction, Yale UP, New Heaven, 1979 (trad. it. Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio, Torino, ERI, 1979, pp. 95-97).

[22] Cfr. J. Epstein, “Quelques notes sur Edgar A. Poe et les images douées de vie” (1928), in EC1, cit., p. 187.

[23] Cfr. T. Todorov, Prefazione a E.A. Poe, Nouvelles Histoires Extraordinaires, Paris, Gallimard, 1974, p. 9.

[24] Cfr. J. Epstein, “L’âme au ralenti” (1928), in EC1, cit., p. 191.

[25] Sulla funzione del ritratto si veda J. Aumont, “Le sens d’une absence”, in A quoi pensent les films?, Séguier, Paris, pp. 90-109.

[26] J. Aumont, “Ciné-génie ou la machine à re-monter le temps”, in J. Aumont, sous la dir. de, op. cit., p. 104.

[27] Cfr. Ph. Dubois, “La tempête et la matière-temps, ou le sublime et le figural dans l’œuvre de Jean Epstein”, in J. Aumont, sous la dir. de, op. cit., pp. 322-323.

[28] Si potrebbe dire, con E. Morin, che la funzione della fotogenia è quella di una chiaroveggenza mitica che fissa sulla pellicola gli spettri invisibili all’occhio umano. Cfr. E. Morin, Le cinéma ou l’homme imaginaire, Minuit, Paris, 1956 (trad. it, Il cinema o l’uomo immaginario, Milano, Feltrinelli, 1982, p. 40) In effetti il socio-antropologo francese condivide con Epstein più di un concetto. Per un confronto tra i due, si veda L. Vichi, Jean Epstein e il cinema documentario, cit.

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Pasteur 1822-1895 – Vidéo Ina.f

MAUPRAT

“La glace à trois faces” -Six et demi, Onze

 

La Chute de La Maison Usher

 

 


FINIST ERRAE J EPSTEIN 1925 – FERRE La Mémoire et la Mer …

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