Marsia e Apollo da Ovidio a Dante – Arcana Opera: IL LAMENTO DI MARSIA

Tiziano : Punizione di Marsia

Sic ubi nescio quis Lycia de gente virorum
rettulit exitium, satyri reminiscitur alter,
quem Tritoniaca Latous harundine victum
adfecit poena. ‘quid me mihi detrahis?’ inquit;               385
‘a! piget, a! non est’ clamabat ‘tibia tanti.’
clamanti cutis est summos direpta per artus,
nec quicquam nisi vulnus erat; cruor undique manat,
detectique patent nervi, trepidaeque sine ulla
pelle micant venae; salientia viscera possis               390
et perlucentes numerare in pectore fibras.
illum ruricolae, silvarum numina, fauni
et satyri fratres et tunc quoque carus Olympus
et nymphae flerunt, et quisquis montibus illis
lanigerosque greges armentaque bucera pavit.               395
fertilis inmaduit madefactaque terra caducas
concepit lacrimas ac venis perbibit imis;
quas ubi fecit aquam, vacuas emisit in auras.
inde petens rapidus ripis declivibus aequor
Marsya nomen habet, Phrygiae liquidissimus amnis.

Talibus extemplo redit ad praesentia dictis
vulgus et exstinctum cum stirpe Amphiona luget;
mater in invidia est: hanc tunc quoque dicitur unus
flesse Pelops umeroque, suas a pectore postquam
deduxit vestes, ebur ostendisse sinistro.               405
concolor hic umerus nascendi tempore dextro
corporeusque fuit; manibus mox caesa paternis
membra ferunt iunxisse deos, aliisque repertis,
qui locus est iuguli medius summique lacerti,
defuit: inpositum est non conparentis in usum               410
partis ebur, factoque Pelops fuit integer illo.

Ovidio, Metamorfosi – Libro VI

Fù Marsia in Frigia un Satiro nomato,
Fra i musici più degni il più perfetto,
Ne le canne da vento il più lodato,
O sia trombone, ò piffero, ò cornetto.
Mentre fè Apollo à buoi pascere il prato,
Hebbe di questo suon molto diletto;
E fama fu, che Febo in questa parte
Sapesse più, che non discorre l’ arte.

Venne à goder dopo cent’anni, e cento
Questo Marsia, ch’ io dissi in terra il lume,
Ch’à dare à flauti, et à cornetti il vento
Apprese per natura, e per costume.
E preferirsi à Febo hebbe ardimento,
Per donare à la patria un novo fiume,
Che come hebbe di questo Apollo nova,
Scese dal cielo in Frigia, e venne in prova.

Stupisce il biondo Dio tosto, ch’ intende
Il dolce suon, che ’l Satiro dà fuora,
Che mentre un dolce spirto al corno ei rende,
Hor co’l suon si rallegra, hor s’ange, e plora.
Quanto più vien lodato, più s’accende
Di gloria, e nel parlar sè solo honora,
E dice à Febo, homai conoscer puoi.
Quanto avanzi il mio suono i merti tuoi.

Quanto ad Apollo il suon di Marsia aggrada,
Tanto gli spiace il suo soverchio orgoglio.
E disse à lui la tua virtù si rada
Fà, ch’ammonir d’un grande error ti voglio.
Per far, che ’l tuo valor teco non cada,
Prendi del tuo fallir teco cordoglio,
E dì con humil cor come ti penti
D’haver biasmati i miei più dolci accenti.

Ch’io giuro per quell’acqua, che mi sforza,
Che s’ostinato stai nel tuo pensiero,
Con dir, che l’arte tua sia di più forza,
Tal dar castigo al tuo parlare altero,
Che vedrai ’l corpo tuo star senza scorza.
Ma quando ti ravegga, e dica il vero,
E che del fallo tuo cerchi perdono,
Io vò giunger dolcezza al tuo bel suono.

Non vorrei dal tuo orgoglio esser costretto
Far perir l’arte tua, ch’al mondo è sola;
E quando di sentirmi habbi diletto,
Fà diventar humil la tua parola:
Che per lo stesso stagno io ti prometto
Di vento à questo corno empir la gola.
E da la cortesia di questo legno
Esser l’accento mio saprai più degno.

Le Ninfe, i Fauni, e gli altri Semidei,
E i Satiri fratelli eran d’ intorno
À Marsia, che cedesse à i sommi Dei,
C’honorasse lo Dio, ch’apporta il giorno:
Vo’, che siano i suoi canti i miei trofei,
Risponde il folle, e giunge scorno, à scorno.
Irato Apollo il legno al labro accosta,
E fida al bosso altier la sua risposta.

La lingua, il labro, il legno, i diti, e ’l vento
Di tempo in tempo obedienti à l’arte
Si dolce fean ne l’aria udir concento,
Che si vedea, che da l’ Etherea parte
Era disceso il nobile istrumento,
E l’autor, che le note, e ’l suon comparte;
Tal, che l’alme soggette al caldo, e al gielo
Donar l’honore al cittadin del cielo.

La Ninfa, il Fauno, e ogn’un, che ’l suon udio,
Di consenso comun chiaro risponde,
Che ’l Fauno è vinto, è vincitor lo Dio,
E ’l campo gli adornar di nova fronde.
Romper non posso il giuramento, ch’ io
Pur dianzi fei per l’osservabili onde,
(Disse lo Dio pentito) e un ferro prende,
Che privar de la pelle il vinto intende.

Deh Marsia allhor dicea, deh non è tanto
L’error, ch’io fei, che merti si gran pena,
Che spogli à la mia carne il primo manto,
E ch’apra il guado ad ogni fibra, e vena.
Apollo lascia à lui fare il suo pianto,
E de la scorza il priva, e de la lena,
E tanta pelle à la sua carne invola,
Che tutto il corpo è una ferita sola.

Stilla il sangue da muscoli, e da vene,
E ’n tutto il corpo suo rosseggia, e luce,
E fan sanguigne le montane arene,
E al misero Silvan toglion la luce,
Tal, che ciascun, ch’in lui le ciglia tiene,
Distilla in pianto l’una, e l’altra luce,
I Satiri fratelli, e le Napee,
I Fauni, l’Amadriade, e l’altre Dee.

Ogni Frigio pastor, ch’ in quel contorno
À pascer si trovò gregge, od armento,
Vedendo essere à lui levato il giorno,
Che facea loro udir si bel concento,
E restar del suo suon vedovo il corno,
Et ogni altro suo musico istrumento,
Concorse à lagrimarlo, e ’l ciel già chiaro
Oppose un flebil nembo al volto amaro.

Di Marsia il sangue, e Ie lagrime sparte
Da Semidei, da gli huomini, e dal cielo
Render la terra molle in quella parte,
E la terra al giovar rivolto il zelo,
Si succia il tutto, e distillando parte
Il bianco, e chiaro humor dal rosso velo,
E ne le vene sue stillato in fiume
Più basso alquanto il fà vedere il lume.

Distilla limpidissimo dal monte,
E tien di Marsia il nome, e tanto scende,
Seco tirando più d’un Frigio fonte,
Che Dori in sen l’abbraccia, e salso il rende.
Con queste historie manifeste, e conte
Parla il saggio nel tempio, e ’l volgo intende,
Fin predicendo à ogn’un malvagio, e rio,
Che per suo fin non ha il timor di Dio.

Ovidio, Metamorfosi – Libro VI

O buono Apollo, all’ultimo lavoro

fammi del tuo valor sì fatto vaso,

come dimandi a dar l’amato alloro.

Infino a qui l’un giogo di Parnaso

assai mi fu, ma or con ambedue

m’è uopo entrar nell’aringo rimaso.

Entra nel petto mio, e spira tùe

sì come quando Marsia traesti

della vagina delle membra sue.

Divina Commedia/Paradiso/Canto I


Perugino: Apollo e Marsia

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