Opus architectonicum Francesco Borromini Internet Archive – Borromini spiegato da Paolo Portoghesi

Ricostruzione del disegno originario di Francesco Borromini del 1653-55; revisione di A.L.R. nel 2005

Chi segue altri non gli va mai inanzi. Ed io al certo non mi sarei posto a questa professione col fine d’esser solo copista.” (da Opus architectonicum, a cura di Maurizio De Benedictis, De Rubeis, 1993)

Opus architectonicum Equitis Francisci Boromini : ex …

Opus architectonicum Equitis Francisci Boromini : ex ejusdem exemplaribus petitum; oratatorium nempè, ædesque Romanæ RR. PP. Congregationis Oratorii S. Philippi Nerii : additis scenographia, geometricis, proportionibus, ichnographia, prospectibus integris, obliquis, interioribus, ac extremis partibus lineamentis : accedit totius ædificii descriptio ac ratio

disegno originario del campanile del Borromini del 1653-55, progetto del campanile di Antonio Del Grande e Giovanni Maria Baratta sotto la supervisione di Carlo Rainaldi 1656-66 ,  campanile del Bernini per p.za S. Pietro costruito nel 1637 e demolito nel 1644

Francesco Borromini (1599-1667

Giovinezza e formazione

“Uomo di grande e bello aspetto, di grosse e robuste membra, di forte animo e d’alti e nobili concetti” (secondo il suo biografo Filippo Baldinucci), Francesco Borromini nacque il 27 settembre 1599 a Bissone, sul lago di Lugano da Giovanni Domenico Castelli e da Anastasia Gravo.
Il cognome Borromini (Bromino, Borromino), adottato all’inizio della sua carriera da Francesco, probabilmente per distinguersi dai molti Castelli presenti tra le maestranze edili, deriva da Giovanni Pietro “Brumino” che aveva sposato in seconde nozze la nonna paterna (da cui anche il padre era spesso detto “Bormino”).
Seguendo la tradizione migratoria delle maestranze della propria terra specializzate nell’arte lapicida, Francesco si spostò a Milano in età molto giovane, tra i nove e i quindici anni secondo Baldinucci. A Milano lavorò come intagliatore di pietre e presumibilmente studiò l’arte del disegno di scultura, avendo modo di impiegarsi anche nella Fabbrica del Duomo. Inevitabilmente il suo approccio con l’architettura lombarda fu mediato dalla secolare tradizione costruttiva e linguistica rappresentata dalla grande Fabbrica nella quale si rispecchiava l’evoluzione dell’architettura lombarda dalla sua solida stratificazione romanica, agli sviluppi gotici, all’influenza “romana” del tardo cinquecento, fino al revival gotico del primo seicento. Tale contaminazione di linguaggi, riscontrabile anche in singoli suggestivi episodi monumentali, riverberò stimoli creativi sulla formazione di Borromini, già connotata da una chiara accezione empirica e da pragmatiche cognizioni tecniche.

L’arrivo a Roma e i primi lavori

Le prime testimonianze note della presenza a Roma di Francesco lo vedono impegnato nel 1619, con il doppio cognome Castelli “Bromino” in lavori per la basilica di San Pietro in Vaticano come scalpellino, ospite e collaboratore dello zio Leone Gravo, abitante nel vicolo dell’Agnello presso San Giovanni dei Fiorentini. Gravo, già attivo come capomastro scalpellino a Milano, dove aveva svolto un ruolo importante nella prima formazione di Borromini, occupava una posizione di un certo peso nella gerarchia delle maestranze romane, soprattutto da quando era entrato in parentela con Carlo Maderno, il celebre architetto dell’ampliamento della basilica di San Pietro, sposandone la nipote Cecilia nel 1610. Fu attraverso Gravo che Borromini entrò in contatto con Maderno, colui che per un giovane aspirante architetto rappresentava il maggior referente nel mondo dell’architettura romana al tempo di Paolo V Borghese. Cosicché quando, il capomastro morì cadendo dalle impalcature di San Pietro il 12 agosto 1620, Borromini, seppure in un ruolo sostanzialmente esecutivo, doveva già collaborare con il maestro. Non è infatti un caso che, il 2 novembre 1621, proprio nella residenza di Maderno, Borromini e altri due capomastri scalpellini provenienti dalla diocesi di Como costituissero una società di mestiere rilevando i materiali del defunto parente.

Il rapporto con Carlo Maderno

Nella nuova veste di imprenditore la carriera di Borromini proseguì sotto la protezione dell’illustre architetto conterraneo e parente acquisito. Il contatto con Maderno e con le innumerevoli occasioni di apprendimento rappresentate dalle sue opere accentuarono certamente la determinazione del giovane ad abbracciare la professione di architetto alimentandone l’innata creatività già temprata dall’esperienza milanese. Il fatto che anche il maestro avesse sperimentato in gioventù una simile parabola formativa presso lo zio Domenico Fontana, favorì certamente da parte di Borromini l’armonica fusione tra le acquisizioni della cultura lombarda e le conoscenze derivanti dallo studio diretto dei monumenti della Roma antica e moderna, tra cui in particolare il Pantheon, i monumenti della Villa Adriana e le opere di Michelangelo, che assieme alla tradizione gotica e ai disegni delle antichità, circolanti al tempo, avrebbero costituito i suoi riferimenti ideali. La grande cultura architettonica di Maderno e la percezione del suo fondamentale contributo nel passaggio dalla tradizione tardocinquecentesca a un linguaggio più innovativo sul piano della visione organica tra l’impianto planimetrico e il suo sviluppo spaziale, indirizzarono Borromini verso un’interpretazione sempre più critica e originale del processo ideativo, man mano che il suo ruolo presso lo studio del maestro evolveva da quello di mero esecutore di disegni, a quello di disegnatore e quindi a quello di collaboratore effettivo che rivestiva al momento della morte del maestro nel 1629.
Il rapporto di Borromini con Maderno in questi anni resta uno dei punti da sciogliere per quanto riguarda la definizione della sua maturità creativa e quindi della misura del suo apporto nell’ultima produzione del maestro, per quanto recentemente si tenda ad attribuire all’influenza del giovane allievo l’inedita fluidità di alcune soluzioni presenti in suoi disegni finora considerati derivanti da idee del Maderno.
Queste caratteristiche proprie di un giovane architetto si possono riscontrare nella sua attività presso il cantiere maderniano di Sant’Andrea della Valle, nel 1621; seppure le prime testimonianze documentarie finora note si riferiscano alla sua presenza nel cantiere di San Pietro, nel 1619, in ruoli di semplice scalpellino apparentemente non corrispondenti alla sua principale qualifica di disegnatore-scultore-intagliatore di marmi. Infatti sia il suo notevole apporto alla decorazione del lanternino della cupola di Sant’Andrea della Valle, sia l’influenza da lui esercitata nel disegno della decorazione di alcune parti interne e, secondo studi recenti, sul progetto per la facciata elaborato in più versioni da Maderno, riflettono una personale inventiva consona tanto alla rivalutazione critica in atto del suo apprendistato milanese, quanto agli sviluppi della carriera negli anni successivi al servizio di Maderno nel duplice ruolo di elaboratore di disegni e di capomastro scalpellino. Con queste mansioni Borromini appare nei cantieri maderniani per lavori nel Palazzo del Monte di Pietà, dal 1623, e per il restauro del portico del Pantheon, eseguendo, tra l’altro, i disegni dei rispettivi campanili, nel 1624 e nel 1626.
Al ruolo di scultore-intagliatore di marmi si riferiscono più specificatamente i molteplici lavori svolti da Borromini all’interno della basilica di San Pietro tra il 1624 e il 1629, sempre sotto l’egida di Maderno, tra i quali si possono segnalare quelli per la cappella provvisoria del Volto Santo (1624) e per la cappella del Coro: ornati della porta dell’organo vecchio (1625), piedistallo della Pietà di Michelangelo (1626), esecuzione del disegno e partecipazione alla realizzazione della cancellata bronzea verso la navata sinistra (1628-1629. Egli fu attivo anche nelle cappelle del Crocefisso, della presentazione della Vergine e del Battesimo collocate nel corpo longitudinale della basilica; alla cappella del Crocefisso, la prima della navata destra oggi dedicata alla Pietà, era destinato il progetto di Maderno del 1623 per la Porta Santa, per la cui decorazione Borromini ebbe un ruolo notevole, come per il progetto di sistemazione della Navicella di Giotto nel lunettone della parete d’ingresso della navata centrale. Sotto la direzione di Maderno egli fu impegnato anche in molti lavori nel palazzo del Quirinale di cui esistono pagamenti a partire dal 1626.

Attività tra Maderno e Bernini

Nel grande cantiere di Palazzo Barberini, destinato da Urbano VIII a residenza dei propri nipoti Francesco e Taddeo, l’apporto di Borromini non è facilmente distinguibile nell’ambito della situazione, ancora poco chiara, dei diversi architetti che, a vario livello, si succedettero nella progettazione e nella conduzione dei lavori, oltre al Maderno, al quale è da attribuire il progetto iniziale, e a Gian Lorenzo Bernini, responsabile della prosecuzione e del completamento della fabbrica, nonché della modifica del progetto maderniano. La testimonianza di Bernardo Castelli, nipote di Borromini (una lunga nota biografica scritta per la “Vita” di Baldinucci), secondo il quale lo zio “faceva tutti i disegni di detta fabbrica” e Maderno “lasciò tutta la cura del detto palazzo et delli altri lavori di San Pietro al Borromino”, seppure da un punto di vista molto parziale, tende ad accreditare un ruolo maggiore di quello generalmente attribuitogli (scala a chiocciola ai lati della facciata verso il giardino, le porte del salone e alcune finestre). Tale ruolo comunque dovette riguardare la definizione finale dei progetti, in particolare per quanto riguarda il disegno della facciata principale, anche se la fabbrica del palazzo fu condotta quasi interamente sotto la piena responsabilità di Bernini.
I cantieri della basilica di San Pietro e del Palazzo Barberini dove, oltre che nei Palazzi del Quirinale e del Vaticano, il giovane Borromini si trovò a lavorare alle dipendenze di Bernini, già artista celebrato, nonostante fosse di un solo anno più anziano, furono occasioni di un confronto determinante per gli sviluppi del forte dualismo che connotò la successiva produzione architettonica di entrambi e consentirono a Borromini di misurare finalmente il grado della sua maturità artistica e soprattutto di inquadrare meglio la propria personalità di architetto nel generale contesto romano. La disinvolta genialità di Bernini espressa nella scultura e nella pittura, prima ancora che nell’architettura, in un concetto unitario delle arti visive, ne faceva un protagonista della corte opulenta di Urbano VIII Barberini, al quale era legato da affinità elettive. L’ostinata ricerca formale nell’architettura ancora inespressa su grandi scenari e un carattere meditativo indirizzava decisamente Borromini verso ribalte più dimesse. Sul piano caratteriale sono molti gli episodi che testimoniano l’esuberanza del giovane Bernini rivolta a una visione edonistica della vita, mentre altrettanto nota è la propensione di Borromini alla solitudine e alla morigeratezza dei costumi, riflessa perfino nell’abbigliamento all’antica di foggia spagnola perennemente nero (secondo il biografo Giambattista Passeri) e sperimentata nella modestia del vivere quotidiano della lunga coabitazione con la famiglia dell’ottonaio Evangelista Aristotile in una casa presso San Giovanni dei Fiorentini.
Già alla metà degli anni Venti, Borromini era decisamente indirizzato verso una concezione aulica della professione di architetto, mediante la progressiva acquisizione di una grande cultura teorica, tanto da permettersi, anche dopo la morte di Maderno di eludere le mansioni secondarie della professione che vedevano impegnati molti architetti coetanei, grazie probabilmente a una certa indipendenza economica derivante dai proventi della sua attività imprenditoriale.
Questa maturità creativa doveva essere ben conosciuta dal Bernini che, secondo la sua ben nota abilità nella gestione degli aiuti, pensò di avvalersi stabilmente di lui proseguendo il rapporto di collaborazione sia nei lavori di Palazzo Barberini, sia in quelli della basilica di San Pietro di cui aveva assunto la direzione nel febbraio 1629, succedendo a Maderno come architetto della Fabbrica. Già nel 1624 Bernini era stato incaricato della realizzazione del baldacchino, a dispetto di Maderno, suscitando nel vecchio maestro forti sentimenti di umiliazione e risentimento, che presumibilmente influenzarono anche l’iniziale collaborazione di Borromini con lo scultore, insieme alla rigida subordinazione da lui impostagli. La presenza di Borromini nei lavori per il baldacchino, documentata dal 1627 in aspetti esecutivi, riguardò il contributo alla definizione di alcuni aspetti decorativi soprattutto dei capitelli e della trabeazione del coronamento. Il contatto con Bernini contribuì alla maturazione del linguaggio plastico di Borromini apprezzabile nelle altre sue opere all’interno della basilica vaticana ascrivibili alla direzione dello scultore, come l’inferriata della cappella del Sacramento (1629-1630) e le decorazioni dell’altare di San Leone Magno. Influenze berniniane, d’altra parte, sono riscontrabili anche nella fontana delle Api in Vaticano, posta presso l’attuale ingresso di Sant’Anna, realizzata da Borromini nel 1625-1626, quando il ruolo di Bernini come regista del gusto del papato di Urbano VIII era già dominante.
Borromini, pur di essere attivo in opere di primo piano come quelle del Vaticano e di Palazzo Barberini, sopportava una condizione subalterna di fatto, non corrispondente al suo effettivo ruolo e alle conseguenti retribuzioni. In questo quadro si colloca il manoscritto di Bernardo Castelli secondo la quale Bernini “se lo attirò con grandi promesse et per l’architettura lasciava fare tutte le fatiche al Boromino” ma “tirate che furono le fabbriche di quel pontificato il Bernini tirò li stipendi et salarii tanto della fabbrica di San Pietro come del Palazzo Barberini et anche li denari delle misure e mai diede cosa alcuna per le fatiche di tanti anni al Boromino ma solamente bone parole”. Quanto ciò fosse vicino al vero è attestato dal pagamento di 25 scudi pagati a Borromini come “aiutante dell’architetto” per i lavori in Palazzo Barberini “per intero pagamento di quanto possa pretendere per diversi disegni e modelli fatti da lui per servizio di detta fabbrica”; quando sappiamo che Bernini percepiva quasi la stessa somma per una sola mensilità del suo stipendio di architetto della Fabbrica di San Pietro.
La rottura dei rapporti tra i due risale ai primi del 1633, quando il baldacchino di San Pietro appariva già ultimato, è perciò presumibile che le ragioni risiedessero soprattutto nella vicenda progettuale di Palazzo Barberini, rispetto alla quale, sempre secondo Bernardo Castelli, Borromini soleva dire: “Non mi dispiacie che abbia auto li denarij, ma mi dispiacie che gode l’onor delle mie fatiche” chiarendo le origini del risentimento che provò in seguito per Bernini.

Prima attività autonoma

Una importante testimonianza del ruolo di Borromini in palazzo Barberini è quella dello stesso cardinale Francesco raccolta nel 1657 da mons. Virgilio Spada, personaggio che rincontreremo spesso in seguito: “L’emminentissimo Barberino mi disse pochi giorni sono che la fabrica Barberina alle 4 Fontane fù in gran parte disegno del Borromino, e me l’haveva detto anche l’istesso Borromini mà gli l’havevo finto di credere”. L’atteggiamento benevolo di Francesco Barberini verso Borromini è dimostrato anche dal fatto che nel 1632 – quando i rapporti con Bernini dovevano essere già alterati – egli lo raccomandò come architetto della Sapienza, lo “Studium Urbis”, incarico che come vedremo produrrà una importante opera.
Contemporaneamente Borromini, desideroso di applicarsi in prima persona nella progettazione arrivava ad offrire gratuitamente le proprie prestazioni, come ad esempio fece nel1633 con il nuovo Sodalizio dei Piceni, protetto dal cardinale Antonio Barberini Junior, ottenendone l’assenso a occuparsi della chiesa della Santa Casa di Loreto, senza rilevanti esiti costruttivi.
Nello stesso anno, finalmente, i Trinitari Scalzi, ancora una volta con l’intermediazione del cardinale Francesco Barberini, attratti anch’essi dalla gratuità del suo ingaggio, gli affidarono l’incarico di realizzare la chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane e l’annesso convento. In questo cantiere che nella prima fase, dal 1634 al 1641 non riguardò la facciata della chiesa, (lavori minori sono documentati ancora nel 1648), Borromini ebbe modo di esprimere tutta la propria personalità artistica unita ad una straordinaria capacità di controllo di tutte le fasi operative. Quest’ultimo aspetto risalta nell’entusiastica cronaca dei lavori fatta dal trinitario fra’ Juan de San Bonaventura: “quel lavoro che doveva portare molte giornate le fa venire così facili anco che sia difficilissimo (…) perché detto sig. Francesco, lui medesimo governa al muratori la cuciara, driza el stuchator il cuciarino, al falegname la sega, et ‘l scalpello al scarpellino, al matonator la martinella et al ferraro la lima, di modo che il valor delle sue fabriche è grande ma non la spesa come censura suoi emuli”. Alla tradizionale interpretazione di questo brano come espressione del grande pragmatismo di Borromini, si affiancano le risultanze di un recente rilievo dell’opera che attestano l’adozione di inedite soluzioni costruttive, da cui si deduce la necessità di una presenza costante sul cantiere non essendo queste trasmissibili attraverso i soli disegni. Naturalmente questo comportamento era influenzato dall’ansia dell’architetto di esprimersi anche in un’opera di piccole dimensioni condotta con risparmio di materiali. Ma l’esito formale straordinario non sfuggi ai contemporanei, stupiti e ammirati dalla vibrante plasticità dello spazio sorto dalla progressiva articolazione della forma base rettangolare, in un ottagono e quindi in una combinazione di pianta ellittica e a croce, mentre la continua fluidità delle membrature e della volta ovale restituiva un ambiente raccolto impreziosito dall’uniforme luminosità del bianco, che rifletteva anche un articolato significato simbolico riferito al mistero trinitario, particolarmente nella declinazioni di schemi triangolari in pianta e in alzato.
“Non essendo mai raccomandato di Cardinale né principe alcuno, ma sì delle sue attioni et fatiche” (Juan de San Bonaventura) Borromini si guadagnò la seconda grande commessa partecipando a una consulta di architetti (più tardi spacciata da lui stesso, come concorso pubblico fra tutti gli architetti italiani) indetta nel 1636 dai padri Filippini per la definizione del complesso edilizio a fianco della chiesa di Santa Maria in Vallicella, già oggetto di un progetto, ritenuto insoddisfacente, di Paolo Maruscelli, architetto della Congregazione. L’incarico conferito ufficialmente a Borromini l’11 maggio 1637, prevedeva anche la facoltà da parte di Maruscelli di poter scegliere se affiancare Borromini o lasciare a lui solo la direzione del cantiere, cosa che in effetti avvenne. Comunque Borromini già alla fine del 1636 era attivo per i Filippini nell’esecuzione di “disegni e modelli” per la cappella di San Filippo Neri nella Sagrestia di Santa Maria in Vallicella, e in particolare nel progetto dell’altare maggiore. Il progetto rivoluzionario del nuovo Oratorio, la cui costruzione era stata deliberata nel gennaio 1637, e la sua esecuzione sottoposta ad un estenuante controllo da parte dei committenti, videro uno strenuo estimatore e difensore nel padre Virgilio Spada, dilettante di architettura e priore della Congregazione, che nonostante alcune modifiche garantì il rispetto sostanziale del progetto e che da allora fu il suo più grande sostenitore, consigliere e amico. Fu proprio Spada a comporre nel 1646-47 un testo intitolato “Piena Relatione” (poi come vedremo utilizzato da Sebastiano Giannini nell’ “Opus Architectonicum”) nel quale si descrivono analiticamente le fasi progettuali e costruttive del complesso, fornendo un eccezionale documentazione sul processo creativo e sul metodo di lavoro di Borromini. Quest’ultimo, nel 1651, per le ennesime intromissioni dei Filippini nella gestione del cantiere, lo abbandonò polemicamente, venendo poi sostituito da Camillo Arcucci, che intorno al 1665 concluse la fabbrica apportandovi alcune alterazioni.
Nonostante le modifiche imposte dalla committenza, il carattere dell’opera borrominiana riflette pienamente gli intenti dell’autore, in primo luogo, come affermato nella “Piena Relatione”, quello di abbracciare “ogn’uno che entri” attraverso la concavità della facciata che, nonostante la complessa articolazione plastica, riesce a rimanere subordinata gerarchicamente a quella in travertino della chiesa contigua, grazie anche al sobrio rivestimento in laterizio e all’impiego di alcuni elementi tipici dell’edilizia civile, pur in un contesto che rimanda continuamente ad etimi michelangioleschi, filtrati dal Maderno.
All’eredità del Maderno può essere ricondotta l’attività di Borromini per le monache di Santa Lucia in Selci: nella chiesa, con la decorazione della Cappella della Trinità, l’altare maggiore e altri lavori di decorazione (1636-39) e nel monastero, con vari lavori svolti nel periodo 1637-43. Nel 1638 predispose degli ambiziosi progetti per il Palazzo del conte Ambrogio Carpegna, riecheggiati solo nel loggiato al pianterreno, nella rampa elicoidale e nell’arco d’ingresso antistante nella realizzazione che, dopo la morte del conte nel 1643, fu proseguita e compiuta a scala più modesta intorno al 1647dal fratello cardinale Ulderico, per il quale nello stesso periodo avrebbe realizzato la sistemazione della tribuna della chiesa di Sant’Anastasia. Intorno al 1639 egli disegna e realizza a Roma l’altare per la cappella dell’Annunziata che fu messo in opera nella chiesa dei Santi Apostoli a Napoli, commessogli già nel1665 da Ascanio Filomarino, arcivescovo di Napoli dal 1641, ancora una volta su indicazione del cardinale Francesco Barberini, di cui andrebbe evidenziato maggiormente il ruolo svolto come sostenitore di Borromini. In questo contesto si colloca anche la coeva sistemazione del casino a Monte Mario da destinare a romitorio del cardinale Antonio Barberini detto cardinale di Sant’Onofrio, fratello di Urbano VIII, e soprattutto l’inizio del cantiere della chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, all’interno dello Studium Urbis di cui era rettore il cardinale Antonio Barberini Juniore, e di cui Borromini fino ad allora aveva svolto il ruolo di architetto in modo pressoché nominale affiancato da Gaspare De Vecchi nelle mansioni ordinarie.
La fabbrica della chiesa fu avviata nel 1643 all’interno del complesso del Palazzo della Sapienza, secondo un progetto che doveva tenere conto dei limiti fisici dell’esedra posta al termine del preesistente cortile porticato rettangolare. L’esedra nel progetto di Giacomo della Porta, autore della configurazione del vasto complesso edilizio, doveva contenere una chiesa a pianta circolare. Borromini accolse svariate influenze linguistiche e iconologiche, legate al fatto che il palazzo era identificato come luogo deputato della Sapienza come sede dell’Università di Roma. Tali influenze sono identificabili a partire dallo schema planimetrico costituito da un esagono che alterna lati concavi e convessi, determinato geometricamente da matrici triangolari, assimilabile alla morfologia dell’ape, simbolo della famiglia papale dei Barberini, nonché in ogni altro aspetto decorativo e strutturale della chiesa (completata strutturalmente nel 1648), in particolare gli alzati che le conferiscono una netta connotazione ascendente con la cupola ripartita in spicchi e la celebre lanterna a spirale che riflette significati biblici e sapienziali, completata nel 1652 (la decorazione interna della chiesa lo sarà solo dopo il 1660).

Il successo

Alla morte di Urbano VIII, Borromini, superati gli ostacoli iniziali si era conquistata abbastanza rapidamente una fortunata carriera e un profondo rispetto nella categoria degli architetti romani, avendo ottenuto alcune tra le maggiori commissioni di quel periodo. Questo era avvenuto nonostante egli non fosse integrato nel sistema degli incarichi ufficiali che garantiva agli architetti pubblici, a cominciare da Bernini, oltre all’esecuzione dei grandi lavori ad essi direttamente connessi, il controllo indiretto della notevole attività edilizia innescata dalle commesse di famiglie private e di enti religiosi. Di tale attività comunque Borromini era stato partecipe non secondario nel 1642, con l’esecuzione del monumento Merlini in Santa Maria Maggiore e nel 1643, subentrando con un nuovo progetto nel cantiere della chiesa di Santa Maria dei Sette Dolori iniziata l’anno prima per volere della duchessa Camilla Virginia Savelli, secondo un progetto che mostrava eruditi richiami all’antichità classica e a villa Adriana in particolare.
Nel 1644 salì al trono il papa Innocenzo X Pamphili, deciso a smantellare l’ancora persistente potere dei Barberini – che opportunamente espatriarono in Francia – in ogni aspetto, compreso la posizione dominante degli artisti già da loro protetti. Di questa situazione fece le spese principalmente Bernini, che ebbe un notevole calo di commesse, inversamente proporzionale alla crescita della fortuna di Borromini, che entrò nelle grazie del nuovo pontefice grazie all’appoggio di monsignor Spada, suo consigliere, nominato nel 1645 Elemosiniere Segreto.
Durante i primi anni di pontificato di Innocenzo X, Borromini seppe conquistarsi la completa fiducia del papa, vivendo un periodo di intensa attività: continuò, seppure lentamente, il cantiere della Sapienza, quello di Santa Maria dei Sette Dolori, dove si affidò alla collaborazione di Antonio Del Grande, fino ad abbandonare la fabbrica nel 1646 (proseguita nel 1648 e ultimata contemporaneamente alla costruzione del convento tra il 1658 e il 1667; condotta almeno dal 1662 da Giovanni Battista Contini); progettò il vestibolo e lo scalone del Palazzo di Spagna, senza però seguirne l’esecuzione (1645-48) affidata ad Antonio Del Grande; restaurò il Palazzo Falconieri in via Giulia ampliandone sia la facciata principale, rendendola simmetrica, sia la parte verso il Tevere con una loggia belvedere ispirata alla Basilica Palladiana di Vicenza (1646-49); disegnò la memoria tombale del cardinale Ceva nel battistero di San Giovanni in Laterano (1650); condusse lavori di trasformazione nel palazzo del principe Andrea Giustiniani, in via della Dogana Vecchia (1650-52); inoltre eseguì un progetto per la cappella familiare del marchese di Castel Rodrigo a Lisbona, ricordato dallo stesso Borromini nel 1647 (la cappella risultava incompiuta ancora nel 1669), e un altro per la sistemazione del presbiterio della chiesa di Santa Maria a Cappella Nuova a Napoli ancora una volta su commissione del cardinale Francesco Barberini (1651c.); per il cardinale Bernardino Spada, fratello di Virgilio, nel 1652-1653 realizzò la Galleria prospettica del Palazzo Spada a Capodiferro, dando prova di grandi capacità nel dominare le leggi ottiche, negli stessi anni fu impegnato nella ristrutturazione della zona orientale del piano nobile e nella sistemazione della piazza antistante realizzando sulla parete che fronteggia il palazzo una meridiana e una fontana, non più esistente, che risultava compiuta nel 1658; partecipò ai piani di sistemazione urbanistica del borgo di San Martino al Cimino (1646-1657), sede del principato Pamphili, progettando la porta romana, e probabilmente la cinta urbana, e realizzando la scala a lumaca nel palazzo Doria.
In questo periodo soprattutto Borromini acquisì incarichi di diretta committenza papale che lo connotarono per un certo tempo come il nuovo architetto di corte, sopravanzando Pietro da Cortona e soprattutto Bernini, già da lui messo in difficoltà nel 1645 con il parere tecnico negativo circa le deficienze statiche del progetto dei campanili di San Pietro. Tra il 1644 e il 1647 infatti egli fu chiamato da Innocenzo X a presentare progetti per un casino nella villa familiare di San Pancrazio, per il palazzo di famiglia e per il collocamento di una fontana con obelisco in Piazza Navona, e per il rinnovamento della basilica di San Giovanni in Laterano. Mentre rimase allo stato di abbozzo il progetto di una cappella di famiglia circolare accanto alla chiesa di Santa Maria in Vallicella.
Del progetto del Casino nella villa Pamphili rimane una puntigliosa relazione sul significato allegorico ed astrologico dello schema generale e di ogni elemento architettonico, in un contesto creativo ai limiti dell’utopia che non ebbe esiti. Anche i progetti elaborati da Borromini per il Palazzo Pamphili e per la fontana in piazza Navona non furono attuati. Per il palazzo, iniziato nel 1646 su progetto di Girolamo Rainaldi, egli svolse solo un ruolo di supervisore, intervenendo direttamente (1650c.) per la sistemazione della copertura del salone centrale posto tra i due cortili, la realizzazione di una scalinata a spirale e la decorazione della Galleria Grande che attraversa l’intero spessore del lotto, con la finestra a serliana verso piazza Navona. Per la fontana con obelisco commissionatagli nel 1647 egli elaborò un progetto molto sobrio che non incontrò il gradimento del papa che preferì affidare l’incarico al Bernini, il quale attuò il suo scenografico progetto rappresentante i Quattro Fiumi tra il 1648 e il 1651.
La commessa più importante del pontefice fu quella, affidatagli nel 1646, del rifacimento della basilica di San Giovanni in Laterano per la ricorrenza del Giubileo del 1650. L’istanza principale che Borromini doveva assolvere in questa occasione fu quella di conservare il più possibile la forma originaria dell’antica basilica costantiniana. Ciò lo spinse a un intervento sostanzialmente epidermico dello spazio interno, prevedendo anche una nuova facciata a portico e un ampio “teatro antistante” che non vennero realizzati. Non fu attuata neanche la prevista nuova volta della grande navata centrale che avrebbe dovuto ricomporne l’unità proseguendo i partiti decorativi dell’ordine gigante che ripartisce le pareti, per la ferma decisione del pontefice di mantenere il soffitto ligneo a cassettoni cinquecentesco. Cosicché la spazialità originariamente progettata da Borromini rimane avvertibile pienamente solo nelle navate laterali, caratterizzate da una decorazione posta in un costante dialogo con gli effetti di illuminazione. Un elemento fondamentale in questo senso è la controfacciata che costituisce una vera e propria macchina di luce della navata principale che ne esalta le proporzioni auliche, solo attenuate dalla poco rilevata trabeazione, tali da far pensare a un consapevole contrappunto con l’antistante fronte dell’altare maggiore.
Il cantiere lateranense condotto a tappe forzate, nonostante alcuni dissidi tra le maestranze, venne funestato nel dicembre 1649 dalla morte del chierico Marco Antonio Bussoni deceduto a seguito di percosse infertegli dagli operai trasgredendo all’ordine dato da Borromini di legarlo solamente per punirlo del danneggiamento di ornamenti marmorei. Con una supplica al pontefice Borromini riuscì ad evitare il processo, a condizione di scontare un confino di tre anni ad Orvieto, poi molto ridotto, durante il quale forse si occupò dei citati progetti per San Martino al Cimino.
Per ottenere la speciale grazia pontificia Borromini pose sulla bilancia oltre all’opera prestata nella basilica lateranense, il suo zelo e la sua moralità. Tali doti erano universalmente riconosciute all’architetto come testimonia anche Baldinucci: “Fu sobrio nel cibarsi e visse castamente. Stimò molto l’arte sua, per amor della quale non perdonò a fatica”. Parallelamente la sua figura cominciava ad essere avvolta da un alone di mistero, alimentato dalla tendenza all’isolamento, che si accentuò a partire dal 1650, quando per la prima volta andò ad abitare da solo in una casa in via Orbitelli (di cui rimane solo la facciata) presa in affitto dall’Arciconfraternita della Pietà dei Fiorentini, riattandola secondo il suo gusto. La bizzarria degli oggetti contenuti nella sua casa tra cui alcuni curiosamente affini alle soluzioni architettoniche delle sue opere, come la chiocciola più volte riferita alla cupola di Sant’Ivo, e un gran numero di libri di legge, di filosofia e naturalmente di architettura, riflettono una personalità assai più complessa di quanto l’approccio pragmatico al cantiere può far supporre. Nutrita di svariati interessi teorici, attenta tanto al mondo sperimentale quanto all’universo teologico, la sua cultura si apriva intimamente a pochi personaggi, come monsignor Spada e il padre gesuita Athanasius Kircher, ma come riporta il biografo Giambattista Passeri: “chi intende perfettamente l’ha sempre confessato per un huomo erudito, intelligente, et assicurato in un perfetto sapere”.
Intanto la fama di Borromini aveva varcato i confini romani come dimostra la sua consultazione nel 1651, assieme a Bernini e a Pietro da Cortona, per un parere sul progetto di Girolamo Rainaldi e Bartolomeo Avanzini per il palazzo Ducale di Modena, sollecitata dallo stesso Avanzini. L’anno seguente egli ebbe uno dei pochi momenti di aperta popolarità, quando durante una cerimonia in San Pietro il papa gli conferì la croce dell’Ordine di Cristo, in base al quale poté fregiarsi del titolo di Cavaliere.
Tuttavia il crescente successo non contribuì ad agevolare i suoi rapporti con i committenti e soprattutto con i colleghi architetti. Infatti benché Baldinucci sottolinei che “non fu mai possibile il farlo disegnare a concorrenza di alcun altro artefice”, l’intransigenza mostrata con i committenti si riverberava anche nei rapporti con i colleghi, anche a costo di dolorose rinunce. Comunque anche i più grandi concorrenti riconoscevano la sua profonda conoscenza dell’architettura, come disse padre Virgilio Spada nel 1657, riferendosi a Cortona e Bernini; in particolare quest’ultimo, alcuni anni prima, gli avrebbe detto “avanti l’altare di San Pietro, che il solo Borromino intendeva questa professione, mà che non si contentava mai, e che voleva dentro una cosa cavare un’altra, e nell’altra l’altra senza finire mai”.
Il caso più eclatante al riguardo è la vicenda del cantiere della chiesa di Sant’Agnese in Agone a piazza Navona, nel quale Borromini, per volere di Innocenzo X, subentrò nel 1653 a Girolamo e Carlo Rainaldi, la cui scelta era stata approvata dal pontefice un anno prima, al momento dell’affidamento della sovrintendenza dell’opera al nipote Camillo Pamphili, parimenti estromesso dal cantiere. Borromini demolì completamente l’impianto predisposto dai Rainaldi, modificando radicalmente il rapporto del nucleo centrale concavo della facciata rispetto alla piazza.
Alla morte del papa nel 1655 il rapporto con Camillo Pamphili che riprese la conduzione della fabbrica, già incrinato, si deteriorò definitivamente, per dissensi nella sequenza delle fasi di cantiere certamente alimentati dai Rainaldi, tanto che Borromini lasciò il cantiere nel 1657. La chiesa venne proseguita modificando il suo disegno riguardo la conformazione della facciata, in particolare con la trasformazione del cupolino, il soprelevamento delle torri campanarie e l’accentuazione dell’attico, mentre l’interno manteneva le linee generali del progetto borrominiano impostato su una pianta a croce greca.

L’isolamento professionale

Se la successione ai Rainaldi nella fabbrica di Sant’Agnese coincideva con il massimo potere professionale di Borromini che doveva costringere i suoi operai a lavorare a tappe forzate spostandosi da un cantiere all’altro causando malumori tra i committenti, il suo allontanamento aprì il periodo più tormentato della sua carriera, giacché l’avvento del nuovo papa Alessandro VII, preannunciava il grande ritorno di Bernini nel ruolo di architetto di corte che, seppure contraddittoriamente, era stato rivestito da lui per un decennio. Eppure tale mutamento non fu immediatamente avvertibile per Borromini giacché agli esordi del pontificato egli fu impegnato nel grande cantiere del Palazzo del Collegio di Propaganda Fide, iniziato nel 1654, ancora sotto gli auspici di Innocenzo X e dei Gesuiti, grazie ai quali aveva acquisito la carica di architetto del Collegio fin dal 1646.
Il primo nucleo del Collegio era un piccolo palazzo posto nella piazza di Spagna, ampliato nel 1639 da Gaspare De Vecchi nel quale nel 1638 Bernini aveva ricavato una cappella ovale. Borromini fu impegnato in un complesso intervento che comportò la ricomposizione di diversi ambienti in un organismo articolato in base a criteri estremamente funzionali e il raggiungimento di alti livelli creativi nella Cappella dei Re Magi, costruita nel 1660-64 dopo la demolizione di quella berniniana, e della nuova facciata sull’attuale via di Propaganda Fide, finita nel 1662 e completata con un attico tra il 1665 e il 1667. La cappella risolve lo schema planimetrico del rettangolo ad angoli smussati, sviluppandolo coerentemente anche nelle linee dell’apparato decorativo in continuità tra superfici verticali e orizzontali. Nella redazione finale della facciata l’ordine unico di lesene è disposto su una parete ripartita plasticamente che riflette la pressione tangente dello spazio esterno della strada.
Risale ancora allo scorcio del pontificato di Innocenzo X l’incarico del completamento della chiesa dei Minimi Paolotti di Sant’Andrea delle Fratte nel 1653 conferitogli dal patrono il marchese Paolo del Bufalo. All’interno realizzò il transetto, l’abside e la cupola e decorò la cappella Accoramboni. All’esterno l’opera non fu portata a compimento essendo il tiburio che racchiudeva la cupola rimasto interrotta all’altezza del cornicione e privo di intonaco. Tuttavia proprio la rusticità dei quattro contrafforti a croce di Sant’Andrea, conferisce al comparto architettonico una eccezionale intensità plastica e cinetica, particolarmente apprezzabile dal confronto con l’alto grado di definizione decorativa del campanile rivestito di stucco bianco.
Dopo il restauro esterno del Battistero di San Giovanni eseguito nel 1657, all’inizio degli anni sessanta oltre che nei grandi cantieri ancora in corso della Sapienza e di Propaganda Fide, Borromini fu impegnato nell’ampliamento del convento annesso alla chiesa di Sant’Agostino (1659-62), nella copertura del tempietto di San Giovanni in Oleo a Porta Latina (1662) e in alcune commesse riferibili al suo protettore Virgilio Spada: la cappella familiare in San Girolamo della Carità (1660c.), la scala d’onore del palazzo Spada a Capodiferro realizzata prima del 1661, quando morì Bernardino Spada, il palazzo a Monte Giordano, originariamente destinato dallo Spada ad ospitare il Banco di Santo Spirito (1661-62), nel quale accolse alcuni suggerimenti progettuali del committente, e la sistemazione, voluta da Alessandro VII, dei monumenti funebri nelle navate di San Giovanni in Laterano.

L’ultimo periodo

I tanti progetti irrealizzati, quelli rimasti incompiuti e quelli vanamente idealizzati, come la realizzazione della volta di San Giovanni in Laterano, la lentezza con la quale progredivano per mancanza di fondi le fabbriche che aveva iniziato, nonché il progressivo distacco mostrato da Alessandro VII verso la sua architettura, costituirono per Borromini fonti di grande dolore, al quale sempre più a fatica riusciva a reagire applicandosi in maniera pressoché maniacale al lavoro. Tuttavia ciò non si rifletteva nell’acquisizione di nuovi committenti, anzi la sua irosa depressione lo allontanava anche dai vecchi, come i Filippini che nel 1657 decisero di non richiamarlo per lavori di completamento dell’Oratorio da lui stesso progettati.
Negli ultimi anni di vita lavora per altri vecchi committenti come i Falconieri, per i quali nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini portò avanti senza terminarla la cappella familiare, realizzò una cappella sotterranea, si interessò dei monumenti presso l’altare maggiore (1664) e trasformò la loro villa a Frascati (1665).
Sono noti inoltre altri progetti tra cui quello per la sistemazione della basilica di San Paolo Fuori le Mura, riferibile all’ultimo periodo del pontificato Pamphili, quello per la chiesa di Sant’Eustachio e quelli per la tribuna e il deambulatorio della chiesa di San Carlo al Corso. Tra il 1650 e il 1657 Borromini fornì al padre Virgilio Spada disegni per due altari che la sua famiglia faceva costruire in Emilia.. Per chiesa di San Paolo a Bologna, progettò la mensa antistante la monumentale tribuna del Facchetti. Per la chiesa di Santa Maria dell’Angelo, a Faenza, Borromini si limitò ad apportare qualche variazione a un progetto dello stesso Spada. Ancora grazie al patrocinio di quest’ultimo nel 1661 egli presentò ad Alessandro VII un progetto per la Sagrestia Vaticana, che prevedeva la costruzione di un nuovo monumentale edificio a pianta ovale al posto dell’esistente rotonda di Santa Maria della Febbre.
Il 1662, l’anno della morte di Spada, che lo privava di un grande sostegno, coincise con l’incarico di completare il complesso dei Trinitari al quadrivio delle Quattro Fontane con la facciata del convento sulla strada del Quirinale e quella della chiesa che, pur ultimata del tutto dopo la sua morte, emblematicamente chiudeva la parabola della propria carriera iniziata ad alti livelli trent’anni prima con quest’opera. Nello stesso anno, grazie all’intercessione del cardinale Ulderico Carpegna, il vescovo Alessandro Sperelli faceva realizzare, con il suo consenso, una esatta replica dell’interno del San Carlino nella nuova chiesa di Santa Maria del Prato a Gubbio, straordinaria testimonianza della fama raggiunta. Questa fama è riflessa anche nella descrizione delle sue opere contenuta nel manoscritto della “Roma ornata dall’architettura, pittura e scultura”, una guida della città scritta dall’amico Fioravante Martinelli – per il quale Borromini aveva realizzato una piccola casa – recante annotazioni e correzioni di sua stessa mano.
L’ultimo periodo di attività di Borromini, anche se meno legata ai cantieri, fu comunque ricchissima sotto l’aspetto creativo sfociando in una gran messe di progetti ideali, non connessi a reali commesse, destinati ad essere incisi e raccolti in una sorta di trattato che forse avrebbe fatto parte della serie di volumi illustrativi della sua opera, iniziata con quelli dedicati al complesso della Sapienza e all’Oratorio dei Filippini (pubblicati postumi dall’editore Sebastiano Giannini con il magniloquente titolo “Opus Architectonicum Equiti Francisci Borromini”, rispettivamente, nel 1720 e nel 1725). L’enorme valore che egli attribuiva ai disegni, prefigurandone tutta la potenzialità espressiva, tanto da fargli dire, secondo Baldinucci che “erano i suoi propri figlioli e non voler che egli andassero mendicando la lode per lo mondo, con pericolo di non averla, come talora vedeva a quei degli altri addivenire”, rende chiaro come questo tipo di manifestazione creativa assumesse per lui un valore almeno pari rispetto a quella edilizia, perché ci tenesse a fissarli in un trattato, e perché, infine, nella concitazione delle ultime ore di vita abbia preferito darli al fuoco piuttosto che esporli a manomissioni altrui. D’altra parte egli non si era mai curato di trasmettere il suo sapere ad allievi, preferendo avvalersi della collaborazione di semplici esecutori come ad esempio Francesco Righi e Francesco Massari, suo assistente nella fabbrica di San Carlino, nonché ospite della sua casa, mentre le doti del giovane nipote Bernardo Castelli non potevano fargli sperare niente più di una onesta pratica dell’architettura.
La concentrazione ossessiva sul lavoro teorico e l’amara consapevolezza della sua esclusività, dovuta alla progressiva perdita di contatti con l’esterno, accentuò i tratti più oscuri del suo carattere, come narra ancora Baldinucci: “Egli era solito di patir molto di umor malinconico, o, come dicevano alcuni dei suoi medesimi, d’ipocondria, a cagione della quale infermità, congiunta alla continua speculazione nelle cose dell’arte sua, in processo di tempo egli si trovò si sprofondato e fisso in un continuo pensare, che fuggiva al possibile la conversazione degli uomini stando solo in casa, in null’altro occupato che nel continuo giro dei torbidi pensieri”.
Questo atteggiamento, al quale non dovette giovare neanche quel viaggio nostalgico in patria ipotizzato da alcuni, fu all’origine nella notte del 2 agosto del “caso stravagante e lacrimevole” – usando le parole del diarista Cartari Febei – di Francesco Borromini che “caduto da alcuni giorni in pieno umore hipocondriaco, con una spada, appoggiata col pomo in terra e con la punta verso il proprio corpo si ammazzò”. In realtà la morte non seguì immediatamente l’autoferimento, frutto di una sua spropositata reazione al mancato adempimento di Massari ad un suo ordine di avere luce per scrivere, ma sopraggiunse “alle dieci hore dell’alba” consentendogli di confessarsi e di fare testamento dettando lucidamente a un notaio le circostanze e le ragioni dell’accaduto, beneficiando di gran parte dei suoi averi il nipote Bernardo, e stabilendo infine di farsi seppellire nella tomba dell’amato maestro Carlo Maderno nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini, senza alcuna indicazione del proprio nome.

Testo tratto dal CD-ROM INTERATTIVO FRANCESCO BORROMINI OPERE WORKS -Cf. http: //cd.borromini.at-)
http://www.sancarlino.eu/chiesa/borromini.asp


 

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