Son of Saul – IL FIGLIO DI SAUL di LÁSZLÓ NEMES, opera prima

 

Il figlio di Saul

di

Esordio al lungometraggio del regista ungherese László Nemes, Il figlio di Saul rilegge il dramma dei campi di sterminio con una fortissima idea di messa in scena, appesantita però da una soluzione narrativa poco azzeccata. Gran premio della giuria al Festival di Cannes.

Dio, perché mi hai abbandonato?

Ottobre 1944, Auschwitz-Birkenau. Saul Ausländer è un membro ungherese del Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei isolati dal campo e costretti ad assistere i nazisti nella loro mostruosa macchina di sterminio. Mentre lavora in uno dei crematori, Saul scopre il corpo di un bambino che prende per suo figlio. Vuole dargli una degna sepoltura. [sinossi]

Allievo di Béla Tarr, l’ungherese László Nemes sembra aver imparato alla perfezione la lezione del maestro, quantomeno sul piano della messa in scena. Con Il figlio di Saul, suo lungometraggio d’esordio presentato in concorso alla 68esima edizione del Festival di Cannes (ed era da quattro anni che un esordiente non riusciva a meritarsi la competizione cinematografica più ambita del mondo), Nemes realizza infatti una specie di miracolo registico, circoscritto però soprattutto ai primi minuti del film e infiacchito da una narrazione e da un’idea di racconto che solo nel finale riesce a dare appieno i suoi frutti.
Il miracolo sta nell’efficacia con cui in Il figlio di Saul viene mostrato l’aspetto forse più orribile dei campi di sterminio, il ruolo dei Sonderkommando, gruppo speciale istituito dai nazisti che sceglievano arbitrariamente dei prigionieri ebrei perché fossero d’aiuto nell’uccisione degli altri internati. Una soluzione, quella adottata dai tedeschi, che ha finito per alimentare per decenni un terribile senso di colpa in chi si è ritrovato a svolgere quel compito.
Senza sovrastrutture ideologiche o verbalizzazioni inutili, Nemes ci dice tutto visivamente. Seguendo o anticipando infatti il suo protagonista Saul con una macchina a mano stretta sul suo volto e sul suo corpo, il film ci illustra tecnicamente come il ruolo del Sonderkommando fosse quello, mostruoso, di ‘stare in mezzo’, né con i nazisti né con le vittime. La loro funzione di supporto logistico li portava a disumanizzarsi e a vedere senza guardare, ed ecco perché i corpi affastellati appaiono spesso fuori fuoco (dato che vediamo nitidamente solo il volto di Saul) ed ecco perché i nazisti sono inquadrati raramente e si sentono soprattutto le loro voci e le loro urla belluine. Quasi come un automa, Saul esegue i suoi compiti, come se si trovasse a fare da semplice addetto alle pulizie (lavando il sangue, svuotando le tasche delle giacche dei morti, accompagnando alla docce i prigionieri).
Saul dunque sa, ma ha deciso che non vuole – e non deve – vedere. Senonché ad un certo punto spunta fuori un bambino che è sopravvissuto per qualche minuto in più rispetto agli altri. Una stranezza, un segno del destino forse, ed ecco che Saul improvvisamente cambia e decide che quel bambino è suo figlio e merita perciò di essere seppellito secondo il rito ebraico e non bruciato insieme agli altri.

Da questo momento in poi, Il figlio di Saul cambia registro e si modifica anche nella costruzione della messa in scena (visto che, ad esempio, si torna a tratti a più normali campi/controcampi). Il problema è che questa forzatura narrativa interviene già pochi minuti dopo l’inizio del film, facendoci immediatamente rimpiangere i primi magnifici piani sequenza. Difatti, ci si domanda, cosa colpisce tanto profondamente Saul da fargli cambiare approccio rispetto all’orrore? Basta il fatto che si tratti di un bambino? E cosa ha questo bambino di diverso, forse il fatto di essere sopravvissuto per pochi minuti in più? Non ci sembra comunque abbastanza e non ci sembra che la questione venga debitamente sottolineata.
Entrato in una dimensione più classica, con un tema da sviluppare – dare sepoltura al bambino significa seppellire la nuova generazione, togliere ogni speranza al futuro, ma anche ridare dignità alla morte – Il figlio di Saul incappa anche in una serie di “ingolfamenti”, dilungandosi per esempio oltremisura nella ricerca del rabbino che possa pregare durante l’improvvisato rito funebre.

Per fortuna però, Nemes dimostra proprio in extremis, con un finale bellissimo, di avere talento anche nel ribaltare le prospettive concettuali, nel rimettere in gioco il discorso portato avanti fin là. E allora non si può negare che Il figlio di Saul possa apparire come il degno esordio di un regista destinato probabilmente a fare grandi film.

http://quinlan.it/2015/05/15/le-fils-de-saul/

La storia inizia con Saul che vede un bambino che appena dopo essere passato per il supplizio della camera a gas ha ancora miracolosamente un flebile respiro. Uno dei medici del campo lo vede, lo mette su una barella e ammazza il bambino soffocandolo con le proprie mani. Saul è sconvolto e decide di sottrarre il corpo dalla camera a gas per dargli una degna sepoltura. Ma organizzare un funerale in un campo non è cosa semplice: bisogna nascondere il corpo, trovare un rabbino che si prenda cura della cerimonia, trovare delle persone che lo aiutino nella sepoltura. C’è bisogno insomma di rischiare la propria vita per dare dignità a una vita che invece non c’è già più. Molti degli altri prigionieri del campo – che stanno nel frattempo organizzando una rivolta – non capiscono perché Saul si ostini così testardamente in questo progetto che più passa il tempo più sembra diventare nient’altro che una sua ossessione personale. «Ti occupi dei morti e ti disinteressi dei vivi» gli dicono. Ma la domanda che il desiderio di Saul pone è sconcertante e angosciosa: che cosa vuol dire mantenere la propria dignità all’interno di un campo di sterminio? E le convinzioni religiose di Saul, che non vengono scalfite nemmeno dalla brutale quotidianità della sua vita da Sonderkommando, non finiscono forse per mantenere un velo di distanza nella disumanizzazione del campo? E quindi paradossalmente per finire in un certo senso per accettarlo? (Saul non parteciperà per nulla alla rivolta, se non per trarre dei vantaggi per la sepoltura del “suo” bambino)

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Per ironia della sorte anche l’altro grande film visto in questi giorni sulla croisette – Saul Fia di László Nemes è assolutamente e pienamente europeo. Ungherese, girato (e proiettato!) in pellicola in formato 1.33:1 dall’esordiente László Nemes (classe 1977 e già assistente del grande Béla Tarr) è un racconto stupefacente e a tratti davvero geniale su un prigioniero del campo di Auschwitz- Birkenau nell’ottobre del 1944. Saul Ausländer è uno dei membri dei Sonderkommando, il gruppo di prigionieri ebrei che deve aiutare i nazisti nello sbrigare le pratiche dello sterminio: gestire le camere a gas; raccogliere i vestiti dei prigionieri; pulire la macchie di sangue delle camere a gas dopo che sono state utilizzate; mettere il carbone nei forni; trasportare i corpi; spalare la cenere etc. Saul Fia ci fa vedere Auschwitz come una grande fabbrica dopo si lavora e si lavora forsennatamente senza avere un attimo di tregua.

Nemes scarta completamente la questione della rappresentabilità dei campi di sterminio e tutto il problema della pornografia anestetizzante della sofferenza a cui molte rappresentazioni cinematografiche dell’Olocausto ci hanno abituato. Il film è infatti girato tutto tramite lunghi piani sequenza dove la macchina da presa sta appiccicata al volto del protagonista: tutto ciò che accade ad Auschwitz è lasciato fuori campo o al limite sfuocato ai margini del campo visivo. Il film ci fa trascorrere due ore dentro a un campo di sterminio ma dei corpi morti dei prigionieri non vediamo nulla, al più qualche piccolo dettaglio in qualche angolo del quadro. Il fuori campo è presente, è anzi enormemente presente (sentiamo le urla, i rumori, gli ordini impartiti nelle diverse lingue di quella babele di provenienze che è un campo di sterminio) è tuttavia niente è immediatamente visibile. Perché vedere cinematograficamente un campo di sterminio non può essere un’esperienza immediata, ma semmai costruirsi solo tramite il processo di mediazione e costruzione che è sia formale sia intellettuale.

Nemes fa con Saul Fia un’opera prima davvero stupefacente: uno dei film più belli e intelligenti che siano mai stati fatti sull’Olocausto di recente memoria. Non soltanto il dispositivo formale non è gratuito e fine a se stesso, ma scaturisce da una riflessione di incredibile maturità su un problema così complesso e intellettualmente scivoloso come la rappresentabilità dell’Olocausto. Il giovane regista ungherese mette insieme Primo Levi e il Didi-Huberman delle Images malgré tout, il Lanzmann di Sobibor – 14 Ottobre 1943, ore 16.00 e Robert Antelme in un racconto di grande intensità che nello stesso tempo non lascia alcuno spazio alla visceralità o alla sensazione fine a se stessa. La cosa che ci colpisce di più è la dimostrata consapevolezza di Nemes di quanta attenzione sia necessaria per approcciarsi cinematograficamente a un oggetto dello sguardo così complesso; e quanta riflessione e intelligenza nell’utilizzo del dispositivo formale sia necessaria. Siamo solo al terzo giorno di Festival ma non è difficile prevedere (e augurarsi) che questo film andrà a raccogliere qualche premio sabato prossimo.

http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/cannes-lamerica-e-noi



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