La coscienza di Zeno pdf – rai sceneggiati Luigi Squarzina e RAI 1988 : Basaglia e Svevo (video)

PREFAZIONE

Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere.

Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso!Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante
verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!…
Dottor S.

La coscienza di Zeno – Letteratura Italiana

Fu il critico letterario Giacomo Debenedetti a parlare di trompe l’oeil per il modo di narrare di Svevo. E in effetti sono pochi i casi in cui paia altrettanto adeguato il paragone con questa tecnica per descrivere la costruzione del personaggio di Zeno: il procedimento (un “effetto speciale” tipico della pittura manierista e barocca) che simula il realismo al fine di ingannare la percezione di chi guarda.

Non solo il personaggio ricalca da vicino (ma con le più sottili e ambigue imprecisioni) la silhouette di chi lo ha concepito e la figura concreta di Italo Svevo; ma a sua volta, all’interno del gioco narrativo del romanzo, la parola di Zeno è resa ulteriormente ambigua e incerta dal fatto che, dall’inizio alla fine, si rivolge a un destinatario preciso, il “dottor S.”, che se ne fa portavoce e materiale editor del suo testo (la Coscienza appunto). Da un lato, dunque, Zeno scrive quello che immagina che “S.” voglia leggere. Ma dall’altro “S.” (iniziale dietro alla quale è impossibile a questo punto non immaginare, oltre magari che al deludente dottor Steckel, un’allusione di Svevo a se stesso – magari nell’anagrafe di Schmitz) ci trasmette, della parola del suo paziente, solo quello che vuole che noi leggiamo (e del resto nella Prefazione ci avverte che pubblica queste memorie “per vendetta”). È una costruzione a scatole cinesi, insomma, che moltiplica sino a renderla labirintica la condizione propria di tutte le narrazioni in prima persona: quella che lo studioso Wayne Booth (nel suo saggio Retorica della narrativa del 1961) ha definito del “narratore inattendibile”. In questo senso è suggestiva l’ipotesi che il nome del protagonista sia stato scelto pensando all’etimo greco, Xènos, “straniero”: intanto alludendo alla condizione linguisticamente e anagraficamente scissa che accomuna autore e personaggio; ma poi anche al suo statuto narrativo di “agente doppio”, simulatore e traditore, costantemente sul chi va là. Come sempre in stato di attenzione sospettosa, appunto, dobbiamo restare noi suoi lettori.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all’Università Roma Tre, dove insegna Letteratura Italiana Contemporanea e Letterature Comparate. Collabora con diverse riviste e quotidiani tra cui alfabeta2, il manifesto e La Stampa – Tuttolibri.

http://www.oilproject.org/lezione/prefazione-coscienza-di-zeno-analisi-critica-5629.html

Svevo Italo

La coscienza di Zeno

Ven, 30/06/2006 – 22:42 — AngelaMigliore

Svevo Italo

“La coscienza di Zeno” appare 25 anni dopo “Senilità” e differisce totalmente dai precedenti due romanzi di Svevo (“Una vita” e appunto “Senilità”). Il quadro storico in cui matura l’opera, infatti, risulta particolarmente mutato dal cataclisma della guerra mondiale che chiude effettivamente un’epoca aprendo le porte a nuove concezioni filosofiche che superano definitivamente il Positivismo sostituito dall’esplosione delle avanguardie e dall’affacciarsi della teoria della relatività. Appare evidente, dunque, che il romanzo di Svevo non potesse non risentire di questa diversa atmosfera, cambiando, per questo, prospettive e soluzioni narrative ed arricchendosi di nuovi temi e risonanze. L’autore abbandona il modulo ottocentesco di matrice naturalistica del romanzo narrato da una voce anonima ed estranea al piano della vicenda e adotta l’espediente del memoriale. Svevo, infatti, finge che il manoscritto prodotto da Zeno su invito del suo psicanalista, venga pubblicato dallo stesso dottor S per vendicarsi del paziente che si è sottratto alla sua cura frodandolo del frutto dell’analisi. Al memoriale si aggiunge, poi, una sorta di diario di Zeno in cui questi spiega il suo abbandono della terapia e si dichiara guarito. L’opera, pertanto, risulta avere un impianto autodiegetico in cui assume notevole importanza il trattamento del tempo che lo scrittore chiama “tempo misto” proprio per la caratteristica del racconto che non presenta gli avvenimenti nella loro successione cronologica lineare, ma inseriti in un tempo tutto soggettivo che mescola piani e distanze, un tempo in cui il passato riaffiora continuamente e si intreccia con infiniti fili al presente in un movimento incessante, in quanto resta presente nella coscienza del personaggio narrante.
All’interno del memoriale, del resto, l’autobiografia appare un gigantesco tentativo di autogiustificazione da parte dell’inetto Zeno che vuole dimostrarsi innocente da ogni colpa nei rapporti con il padre, con la moglie, con l’amante e con il rivale Guido, anche se comunque traspaiono ad ogni pagina i suoi impulsi reali che sono regolarmente ostili ed aggressivi, alle volte addirittura omicidi. Per tutto il romanzo, infatti, ogni suo gesto, ogni sua affermazione rivela un groviglio complesso di motivazioni ambigue, sempre diverse, spesso finanche opposte rispetto a quelle dichiarate consapevolmente. Motivo, quest’ultimo, che avvalora la tesi secondo la quale, nel gioco ambiguo tra conscio ed inconscio, la “coscienza” di Zeno appare in primo luogo come una cattiva coscienza, una coscienza falsa, tanto da rendere plausibile un’accezione antifrastica del titolo del romanzo stesso, che può venir letto come “L’incoscienza di Zeno”. L’opera di Svevo, tuttavia, non è soltanto un’implacabile operazione di smascheramento di una falsa coscienza e dei suoi autoinganni. Zeno non è solo oggetto, ma anche soggetto di critiche, non vi è solo l’ironia oggettiva che pesa sul narratore protagonista, il romanzo risulta anche percorso dal distacco ironico con cui Zeno guarda il mondo che lo circonda e che sottopone a critica presentandone alcuni limiti. La sua diversità funziona, dunque, da strumento straniante nei confronti dell’universo di cui egli stesso fa parte, ma soprattutto nei confronti dei cosiddetti “sani, “normali”. In quest’ottica la malattia che impedisce a Zeno di coincidere interamente con la sua parte di borghese porta alla luce l’inconsistenza della pretesa “sanità” degli altri che in quella parte vivono perfettamente soddisfatti, incrollabili nelle loro certezze. Mentre i sani, infatti, sono cristallizzati in una forma rigida, immutabile, Zeno nella sua imperfezione di inetto è aperto alla trasformazione, disponibile a sperimentare la più varie forme dell’esistenza e ad esplorarne l’affascinante originalità ponendo, quindi, questa sua mobilità come unico antidoto a quella malattia che è la vita in quanto tale. In altre parole Zeno è un personaggio a più facce, fortemente problematico, negativo per un verso, in quanto perfetto campione di falsa coscienza borghese, ma anche positivo come strumento di straniamento e di coscienza. Ne deriva, pertanto, un’accezione del tutto nuova del concetto di inettitudine, essa infatti non viene più considerata un marchio di inferiorità che condanni ad un’irrimediabile inadattabilità al mondo e ad un’inevitabile sconfitta esistenziale, ma una condizione aperta, disponibile ad ogni forma di sviluppo, che si può considerare anche positivamente come lo stesso Svevo asserisce nel saggio incompiuto dal titolo “L’uomo e la teoria darwiniana”. Risulta evidente, quindi, il totale distacco dell’autore dai suoi due romanzi precedenti, sia per quanto concerne il piano della visione del mondo, sia per quello della tecnica narrativa, duplice e profonda trasformazione, quest’ultima, che fa apparire completamente privo di fondamento il luogo comune secondo cui Svevo con “Una vita”, “Senilità” e “La coscienza di Zeno” avesse scritto un’unica opera. Abbastanza infondate si dimostrano, poi, anche le teorie tendenti ad assimilare “La coscienza di Zeno” con l’Ulisse di Joyce. Le due opere, infatti, sono profondamente diverse, incomparabili non solo negli aspetti contenutistici, ma proprio nelle strutture e nelle tecniche narrative. Il monologo interiore Joyciano non ha nulla a che vedere, nel suo impianto, col monologo di Zeno. Nell’Ulisse, del resto, troviamo la registrazione diretta dei contenuti della mente di un personaggio, al presente. Si tratta, in effetti, di un vero e proprio flusso di coscienza, i pensieri sono colti nel loro farsi immediato attraverso associazioni libere, casuali e disordinate che si determinano per passivi automatismi e da cui restano escluse la coscienza e la volontà. In pratica nel capolavoro dell’autore irlandese non vi è alcun intervento di una voce narrante che selezioni i materiali e dia loro un ordine. Nella coscienza di Zeno, invece, il protagonista attraverso il suo monologo ricostruisce aspetti della sua esistenza passata, racconta fatti, dà vita a sequenze narrative ordinate e consequenziali introducendo pure analisi psicologiche e commenti. Quelle di Bloom nell’Ulisse, dunque, sono associazioni libere, non sottoposte ad alcun controllo e ad alcuna censura, Zeno, invece, anche perché spinto dall’esigenza di dover mettere per iscritto il suo monologo, opera una vera e propria selezione, distorce secondo i suoi fini, erige solide barriere che filtrano l’affiorare spontaneo dei contenuti della psiche. Risulta, quindi, evidente la profonda distanza tra le due opere accomunate unicamente dalla tecnica del monologo interiore. In definitiva, pertanto, si può constatare la completa “autonomia” de “La coscienza di Zeno”, romanzo cardine della narrativa del Novecento, benché riconosciuto tale soltanto dopo l’iniziale disinteresse della critica che però non ha potuto poi in seguito evitare di rilevare l’assoluto valore di quest’opera alla quale va sicuramente attribuito il grande merito di aver detto una parola nuova sull’oscuro male del secolo collocandosi in una dimensione culturale decisamente europea. 

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Italo Svevo (pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861. Fu il primo scrittore italiano ad interessarsi alle teorie psicoanalitiche di Freud che proprio allora cominciavano a diffondersi in Europa. Fu grande amico di Joyce, che lo fece conoscere a livello internazionale, e di Montale che in Italia ne intuì per primo le eccezionali doti di narratore.

Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”, Einaudi, Torino 1990.

http://www.lankelot.eu/letteratura/la-coscienza-di-zeno-di-italo-svevo.html

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