Cose che non esistono racconto di Marco Prato

Cose che non esistono

di pubblicato mercoledì, 28 gennaio 2015 · 3 Commenti

Questo racconto di Marco Prato fa parte del secondo volume di effe – Periodico di Altre Narratività, ideato da Flanerí in collaborazione con il service editoriale 42Linee, con l’intento di creare una zona franca per scrittori emergenti e giovani illustratori, nonché un passaggio collaudato per autori già noti. Racconti di Vincenzo Cappella, Marco Prato, Gianni Agostinelli, Mario Sammarone, Marco Vaccher, Francesco Vannutelli, Riccardo Gazzaniga, illustrati dal collettivo di Studio Pilar.

di Marco Prato

Illustrazione di Patrizio Anastasi

Mio nonno cominciò a vedere cose che non esistevano verso i novant’anni. Fino al giorno prima era sempre stato lucido: memoria di ferro e tutto quanto. Poi una mattina andai da lui per mettergli a posto l’antenna della televisione e lo trovai arrampicato sulla scala mentre stava smontando le tapparelle.

«Che cosa stai facendo lassù?», gli domandai.

«Sto guardando dove si è nascosto quel figlio di puttana», mi rispose.

Non capivo di chi stesse parlando. Mia nonna lo osservava dalla porta del soggiorno.

«Che cosa è successo?», le chiesi.

«Ah, non so», mi rispose, «sono affari suoi, lui traffica sempre con le cose di casa».

Le spiegai, qualora non se ne fosse accorta, che suo marito stava cercando una persona nel vano delle tapparelle.

«Non mi sembra che stia facendo del semplice bricolage», le feci notare.

Mia nonna non sembrava turbata, disse che per lei quelli erano solo pasticci.

«Questa notte un uomo è entrato dalle tapparelle. Ha fatto il giro del muro e poi è sparito qui», disse mio nonno indicando un punto preciso nel vano delle tapparelle. Non capivo se stesse scherzando o cosa.

«Proprio qui», disse, «era tutto nero e lungo, un uomo ombra, ecco cos’era».

Un uomo ombra, sicuro. Guardai mia nonna.

«Cos’è questa storia dell’uomo ombra?», le chiesi.

«Non so, saranno i suoi soliti pasticci», mi rispose.

«La vuoi finire con questa storia dei pasticci?», mi stavo arrabbiando, «Il nonno ha visto dei cazzo di uomini ombra entrare dentro casa e tu li chiami pasticci?»

Mia nonna scrollò le spalle e si grattò la testa.

Il cervello di mia nonna aveva cominciato a perdere colpi qualche anno prima. Lo capimmo quando cominciò ad andare in bagno con la porta aperta. La prima volta fui io ad accorgermene: era seduta sul gabinetto con la gonna e le mutande tirate giù.

«Oh Cristo, nonna!», dissi voltandomi di scatto. Aveva la pelle delle gambe tutta secca e grinzosa.

Lei si giustificò dicendo che non c’era nulla di male ad andare al cesso con la porta aperta, e dopo quella volta cominciò a girare per casa mezza svestita.

Il fatto che mia nonna avesse scoperto il nudismo a quasi ottant’anni non turbava più di tanto mio nonno.

«Non puoi fare qualcosa?», gli dicevo.

«Sta diventando matta, non si può fare niente», mi rispondeva.

Dopo il nudismo mia nonna si mise a parlare con la Madonna. Era il suo nuovo potere, ma limitato esclusivamente alla Madonna di Lourdes.

«Non mi ci trovo con le altre», mi disse un giorno, come se stesse parlando di un gruppo di amiche.

Almeno tre volte alla settimana andava alla chiesa della Madonna di Lourdes, in Corso Francia. In realtà quella della Madonna di Lourdes era una chiesa come un’altra, solo che con la cartapesta avevano tirato su una specie di grotta in una cappella laterale, messo due luci, quattro o cinque statuine, Bernadette e via. Nel giro di pochi anni la chiesa era diventata un vero must per tutti i patiti di Lourdes, e mia nonna ci andava regolarmente a parlare, diceva lei, con la Madonna.

«Ma come ci parli?», le chiedevo, «Con la bocca o con il pensiero?»

«Sottovoce», mi rispondeva lei.

«Sottovoce…», dicevo, «E la Madonna ti risponde?»

«Sì, muove leggermente la bocca e mi risponde».

«La statua muove la bocca?»

«Sì, ma poco poco».

Se solo il parroco della chiesa avesse scoperto che mia nonna era così culo e camicia con la Madonna, non credo che avrebbe aspettato un secondo di più per pompare l’evento. La Lourdes-mania, quando scoppia, è irrefrenabile.

Invece mia nonna si tenne per sé questa sua particolarità, e, a parte le loro lunghe conversazioni sottovoce in mezzo alla cartapesta, di miracoli, dalla Madonna, non ne vide nemmeno l’ombra.

Anzi, un giorno mentre andava in chiesa, cadde dal tram di faccia e si spaccò tutti i denti. Aveva la dentiera, ma comunque non fu piacevole, immagino. Raccolse i denti caduti sul marciapiede e se li infilò nel portamonete. La cosa fece arrabbiare parecchio mio nonno che da quel giorno non le permise più di andare in chiesa di continuo.

«Se vuoi parlare con la Madonna», le disse, «le parli da casa. Riceve per caso solo in Corso Francia la tua Madonna?»

Mia nonna piangeva. Si costruì allora un altarino sul comò vicino al letto. Prese tre santini della Madonna di Lourdes, una statuina della Vergine, una boccetta a forma di statua riempita con acqua di Lourdes del 1983, un santino della Madonna del perpetuo soccorso (che nella sua hit parade di Madonne si collocava al secondo posto, subito dopo l’imbattibile Lourdes) e incollò tutto quanto insieme con lo scotch, fino a creare un santissimo combo, da tenere sempre a portata di mano. Ecco perché mia nonna non si stupiva più di tanto degli uomini ombra del marito.

Dopo aver cercato di calmare il nonno, lo feci scendere dalla scala. Si sedette sul divano. Lo guardavo cercando di capire che cosa gli fosse successo nella testa dal giorno prima. Ci pensai su per un po’, poi immaginai che probabilmente la causa di quelle allucinazioni era dovuta al terribile caldo che da qualche settimana stava sfiancando la città. Guardai il termometro appeso alla parete del soggiorno: trentatré gradi in casa. Poi guardai mia nonna. Indossava un maglione di lana, quella lana spessa che ti fa sudare solo a guardarla.

«Ma non hai caldo con quella roba?», le chiesi.

«No, sto bene».

Dentro la testa le doveva essere saltato anche l’impianto di termoregolazione.

Dissi a mio nonno di stare tranquillo e seduto, di non sforzarsi troppo. A questo punto forse era meglio far venire un infermiere a casa per controllarlo e per fare il punto della situazione.

«Col cazzo che qua dentro viene un infermiere», disse, «io sto benissimo».

Cercai di convincerlo che quella era la cosa giusta da fare, ma lui si era impuntato, mise in off l’apparecchio acustico per dispetto e si isolò completamente. Lo faceva ogni volta che si discuteva con lui: la dialettica non era il suo forte.

«Bisogna trovare un modo per fargli accettare un infermiere per la notte», disse mia madre, «non mi fido a lasciarlo da solo in queste condizioni».

Mio nonno intanto era di là in cucina. Stava prendendo a bastonate la credenza: diceva che c’erano degli gnomi che stavano rubando le fette biscottate.

«Be’, comunque non è da solo», dissi, «c’è sempre la nonna».

Guardai mia nonna: era di nuovo in bagno con la porta aperta e ora stava buttando nel water un intero rotolo di carta assorbente. Corsi a fermarla.

«Così otturi il cesso!», le gridai.

«Questa è casa mia e faccio quello che mi pare», rispose lei.

«E allora se ti ritrovi la merda di tutto il palazzo dentro casa poi te la pulisci te!», urlò mia madre dal corridoio.

«Cosa vuole quella?», chiese mia nonna, facendo un cenno con la testa.

La situazione era particolarmente calda. Ma poi mi venne un’idea.

«Non diciamogli che è un infermiere», proposi, «potremmo presentarlo come un acchiappafantasmi».

«Mi sembra una stronzata», disse mia madre.

Provammo lo stesso a parlargliene e lui sembrò entusiasta. Disse che insieme, lui e l’acchiappafantasmi, avrebbero sconfitto gli uomini neri e gli gnomi.

«Bene, bravo», disse mia madre guardandomi con aria preoccupata.

Chiamammo l’infermiere per la notte. In realtà si trattava di un amico di amici, e a dirla tutta non faceva neanche l’infermiere veramente ma lavorava all’obitorio. Spostava cadaveri e cose del genere. Ma così su due piedi non ci venne in mente niente di meglio.

L’infermiere, che si chiamava Claudio, arrivò verso le otto di sera. Aveva accettato senza problemi di prestarsi a quella sceneggiata, forse entrando fin troppo nella parte che gli era stata data. Si presentò infatti con un aspirapolvere e altre stronzate, tutti strumenti, come spiegò lui stesso a mio nonno, per risucchiare gli spiriti maligni e altre fesserie del genere. Mio nonno sembrò rimanere soddisfatto davanti a tutta quella professionalità.

«Era necessario arrivare con tutta questa roba?», gli chiese mia madre, prendendolo da parte.

«Mi lasci fare signora», disse Claudio, «io un po’ di psicologia la mastico».

Io e mia madre ci guardammo pensando che forse, di quel passo, le cose sarebbero potute solamente peggiorare.

Mio nonno fece sedere l’infermiere in salotto e cominciò a spiegargli come la sua casa fosse stata presa di mira da bande di gnomi e uomini ombra pronti a rubargli la pensione. L’infermiere annotava tutto quanto su un bloc-notes e faceva segno di sì con la testa.

«Devono esserci delle bande particolarmente agguerrite in giro di questi tempi», disse Claudio alla fine della spiegazione, «non è la prima volta che mi ritrovo davanti a casi simili. Una cosa del genere mi è successa anche una settimana fa. Solo che invece di gnomi si trattava di demoni».

Prima di lasciarli per la notte mia madre volle ancora parlare da sola con l’infermiere.

«Guardi che quello che ci serve», disse, «è solo qualcuno che lo controlli e che non gli faccia fare pazzie. Non c’è nessun bisogno di mettergli in testa altre idiozie come quella dei demoni».

«Signora», disse Claudio, «si fidi, so quello che faccio».

La notte filò tranquilla, almeno per noi. Il telefono non aveva squillato, quindi pensammo che tutto fosse andato per il meglio. La mattina dopo tornammo a vedere com’era la situazione. Ci aprì la porta la nonna. Aveva un’aria sbattuta, assonnata.

«Che hai?», le chiesi.

«Questa notte non ho dormito », disse, «quei due sono stati alzati tutto il tempo a fare baccano».

Andammo di là in salotto. Mio nonno e l’infermiere sonnecchiavano seduti sul divano. Mia madre li svegliò facendo rumore con una sedia.

«Buongiorno signora», disse Claudio.

«Che è successo qua?», chiese mia madre.

«Abbiamo dato la caccia agli gnomi tutta la notte», disse, «erano in tanti, brutti e cattivi», poi diventando improvvisamente triste aggiunse, «ma non siamo riusciti a prenderne nemmeno uno».

Mio nonno aveva la bocca impastata dal sonno, ma annuiva con la testa.

«Avete visto?», diceva, «Voi che non mi credevate».

L’infermiere non tornò più. E la seconda notte dovetti rimanere io a fare la guardia a mio nonno. Il giorno dopo sarebbe venuto il medico a visitarlo. Bisognava tenerlo buono ancora per una sera.

Il nonno mi costrinse a portare la telecamera digitale, per filmare gli gnomi, come prova del fatto che esistevano sul serio e che non era lui a essere pazzo.

Durante il giorno rimase abbastanza tranquillo e quando arrivai da loro per la notte, li misi a letto che erano le dieci e mezza. E degli gnomi non s’era ancora vista l’ombra.

«Forse se ne sono andati via», disse mio nonno.

Ma durante la notte fui svegliato da un urlo. Corsi nella camera da letto e accesi la luce. Mia nonna aveva un profondo taglio sul labbro e stava perdendo molto sangue.

«Era lì, l’ho visto, era sulla sua faccia», gridava il nonno.

«Ma cosa hai visto? Cosa?», piagnucolava mia nonna. Il labbro le si stava gonfiando a vista d’occhio.

«Gli gnomi!», strillava lui, «Ho cercato di colpirli ma quelli si scansavano».

Doveva averle tirato una gragnola di pugni sul muso perché, guardando da vicino, le stavano comparendo dei lividi anche in altri punti della faccia.

«Cazzo», dissi.

Aiutai mia nonna a medicarsi e poi la rimisi a letto. Mio nonno invece era su di giri, non aveva nessuna intenzione di dormire.

«Tira fuori la telecamera», disse.

Obbedii. Aspettammo in salotto per un quarto d’ora. Poi mio nonno puntò il dito e cacciò un urlo.

«Filma! Filma! È lì, non vedi?», gridava.

Io non vedevo nulla e filmavo il davanzale vuoto, come al solito.

«Vedi? Adesso mi credi?», strillava con gli occhi di fuori.

Passammo tutta la notte così. Poi la mattina presto arrivò il medico e disse che forse era meglio portarlo via.

Lui non voleva andare, non voleva abbandonare casa sua, lasciarla in mano agli gnomi. Tentò anche di prenderci a bastonate, ma un infermiere dell’ambulanza lo immobilizzò e gli strappò via il bastone. Lui gridava. Gli preparammo la valigia, gli mettemmo dentro le ciabatte, la biancheria, una vestaglia, alcuni abiti e il bicchiere per la dentiera. Mia nonna guardava suo marito steso sulla barella come se nulla di strano stesse accadendo. Fu solo dopo che le luci dell’ambulanza sparirono dalla nostra vista che si portò le mani al volto. Si toccò il labbro superiore gonfio che le pendeva tutto da un lato e ci guardò con aria stupita: «Che cosa mi è successo alla bocca?»

Marco Prato è nato a Torino nel 1980. Alcuni suoi racconti sono comparsi nelle raccolte Hollywood party (Zandegù) e Giovani cosmetici (Sartorio). Nel 2008 è stato finalista al Premio Calvino.

http://www.minimaetmoralia.it/wp/cose-che-non-esistono/

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