“Liber scriptus proferutur, in quo totum continetur”: La metaforologia di Hans Blumenberg e la genetica…cultura

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“Liber scriptus proferutur, in quo totum continetur”: La metaforologia di Hans Blumenberg e la genetica

Pubblicato da su 27 settembre 2010

La metaforologia di Hans Blumenberg e la genetica

Il senso della ricerca metaforologica di Hans Blumenberg[1] ben si presta, a mio avviso, ad essere sintetizzato dall’affermazione di Borges, secondo cui “forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore”; dalla quale consegue poi che “forse è un errore supporre che le metafore possano essere inventate. Quelle vere, che formulano intimi legami tra due immagini, son sempre esistite; quelle che ancora possiamo inventare sono le false, che non vale la pena inventare”.[2]

Ripercorrere l’evoluzione delle grandi metafore della tradizione occidentale lungo le spesso plurivoche e non lineari ramificazioni di senso della loro irriducibile storicità, rappresenta infatti la specifica intenzione speculativa di Blumenberg, rispetto alla quale giova forse fare un’osservazione preliminare. Occorre infatti riconoscere che la fluidità e l’eleganza stilistica della scrittura blumenberghiana, al servizio di una pressoché sconfinata erudizione, hanno senz’altro giocato un ruolo non trascurabile nella fortuna delle sue opere, al punto che taluni hanno sollevato il dubbio che al notevole fascino esercitato dalle sue scorribande culturali nella storia delle metafore, non corrisponda sempre un’adeguata profondità teoretica, in quanto l’andamento rapsodico delle sue analisi metaforologiche, più che evidenziare direttrici di sviluppo ben definite, sembra procedere per accumulazione. Tuttavia tale mancanza di una struttura teoretica rigidamente organizzata non rappresenta affatto un limite speculativo ma una consapevole scelta teoretica di Blumenberg, che rinuncia programmaticamente alle eccessive pretese di verità del discorso filosofico di tipo definitorio-analitico, per lasciar posto a un pensiero itinerante, a cavallo tra storicismo ed ermeneutica, nel quale non è difficile scorgere frequenti richiami alla tematica fenomenologica della Lebenswelt. In tal senso, la metaforologia costituisce una dimensione di ricerca che, accantonando ogni tentazione metafisico-ontologizzante, si cala senza pregiudizi dentro l’universo simbolico del mondo umano, ripercorrendone le forme nel loro progressivo sviluppo.

Ciò che in queste mie note vorrei, però, sottolineare è la centralità, all’interno di tale orizzonte speculativo, della specifica famiglia metaforica fondata sull’equivalenza libro-mondo, che, indagata nell’opera del 1981 La leggibilità del mondo dal significativo sottotitolo Il libro come metafora della natura, riveste, a mio parere, un ruolo decisivo – oserei dire fondamentale – rispetto a tutte le altre famiglie metaforiche datesi storicamente e alla metaforologia stessa in quanto tale. Infatti, anche tralasciando la considerazione della natura, per così dire, “libresca” dell’intero pensiero occidentale e del suo intimo legame alla pratica della scrittura,[3] non si può non tener conto che qualsiasi ricerca metaforologica, in quanto presuppone l’analisi e il confronto dei testi tramandatici, è indissolubilmente legata allo strumento “libro”; il che fa sì che la metafora del mondo come libro sia, in un certo senso, sottesa a tutte le altre e ad esse irriducibile. L’intera tradizione metaforica pervenutaci è infatti contenuta in dei testi scritti che i ricercatori, ivi compreso il metaforologo Blumenberg, vanno a leggere con la più o meno inconfessata speranza di rintracciare in essi qualche spiraglio attraverso il quale far luce sulla realtà in cui viviamo e che ci vive, assicurando in tal modo le radici della nostra comprensione al terreno da cui germina il mondo, l’uomo e la storia. Interrogarsi preliminarmente circa il valore dei libri e di quanto in essi scritto è pertanto decisivo per comprendere in che modo essi abbiano potuto giungere ad essere considerati dei possibili custodi di verità e valori. L’indagine storica su come sia sorta, mutata e forse tramontata la potente e fondamentale metafora basata sulla corrispondenza di realtà e leggibilità, di mondo e libro, rappresenta in tal senso un compito ineludibile di ogni ricerca non soltanto metaforologica in senso stretto ma anche e soprattutto filosofica.

L’originaria dimensione religiosa della metafora del mondo come libro è palesata da Blumenberg già nella citazione dal Dies Irae, riportata sul frontespizio del succitato La leggibilità del mondo, quasi a fungere da premessa e sintesi dell’intera opera: “Liber scriptus proferetur, In quo totum continetur. Unde mundus judicetur”. Il potenziale di senso implicito in tale metafora presenta infatti un marcato carattere teologico-sacrale, che permane sullo sfondo delle svariate accezioni e sfumature da essa assunte nel corso dei secoli, tanto da ripresentarsi ai giorni nostri nell’estrema metamorfosi dell’immagine del codice genetico, racchiuso nella doppia elica del DNA, quale testo della Vita.[4]

Affermazione fondamentale dell’analisi di Blumenberg è che il concetto di “leggibilità” del mondo non è affatto equivalente od omologo a quelli di “interpretabilità” o “visibilità” di esso. Presso i Greci, ad esempio, domina la “visibilità”, mentre la metafora della “leggibilità” non riesce ad attecchire, nonostante la presenza di spunti che avrebbero potuto inclinare verso di essa, quali il noto paragone di Democrito fra atomi e lettere dell’alfabeto. L’ontologia greca, il cui paradigma è rappresentato in tal senso da Platone, è infatti tutta incentrata sulla visibilità eidetica delle strutture del reale, che rende possibile l’universalità del sapere: se l’essere degli enti è visibile, sia pure dopo un lungo apprendistato e una severa educazione dello sguardo, esso è in linea di principio accessibile integralmente e senza residui alla conoscenza umana e dunque ogni uomo è in grado, almeno potenzialmente, di attingere la verità con le sole sue forze.

Al contrario, affermare che il mondo è “leggibile” rinvia quale suo nucleo metaforico alla nozione di libro, cioè a un testo scritto che funge da “medium”, da strumento con cui qualcuno comunica qualcosa. Ciò implica però una differenza essenziale tra il testo e il suo autore, poiché, lungi dall’esaurire in se stesso il significato autorale che lo pone in atto, un testo dice proprio in quanto anche non dice, in quanto rivela e nasconde ad un tempo. In quanto “leggibili” gli enti finiscono col diventare “invisibili”, perché la loro verità non aderisce più ad essi né rimanda a strutture fondative ontologicamente omogenee, ma li oltrepassa, intendendoli alla stregua di semplici lettere e cifre di un testo, il cui significato è altro dall’ente e giace “al di là”, incommensurabile, se non estraneo. In tal senso, non sorprende dunque il fatto che la metafora del mondo come libro acquisti particolare pregnanza e vigore nel Giudaismo. Presso gli Ebrei, che non a caso si autodefiniscono il “popolo del Libro”, infatti, l’autore per eccellenza del testo è Dio, nella sua essenza irraggiungibile, distante e enigmatico, che nelle Scritture comunica agli uomini soltanto ciò che la sua insondabile volontà ha deciso loro di rivelare: il Libro sacro è insieme la Verità e la Legge.

Di pari passo con l’affermarsi di tale metafora, osserva Blumenberg, si consolidano la pretesa di apoditticità e definitività della scrittura e il principio di autorità in essa implicito; quegli stessi caratteri cioè che avevano già suscitato la diffidenza verso il testo scritto del Platone del Fedro e della VII lettera. Per accostarsi al testo del Libro, che è Legge di Dio, sorge infatti una apposita classe professionale: i sacerdoti, che, detenendo il monopolio ermeneutico del testo sacro, divengono gli esclusivi gestori del potere che da esso promana.

La storia dell’Occidente, nota Blumenberg, è percorsa da un processo con il quale il libro tende a sovrapporsi e infine ad assorbire in sé il mondo: “Tra i libri e la realtà è posta un’antica inimicizia. Lo scritto si è sostituito alla realtà allo scopo di renderla – in quanto definitivamente inventariata e accettata – superflua”.[5] Ad ogni svolta dell’evoluzione della civiltà riemerge tale conflitto, che finisce solitamente per risolversi, come avvenne esemplarmente al sorgere della scienza moderna, in una ribellione all’autorità del testo scritto. Tuttavia la forza di inerzia concettuale della metafora del libro è tale per cui ad ogni rifiuto di una delle sue forme tiene dietro la ricaduta in una nuova rielaborata versione di essa, che, pur mutandone il senso esplicito, ne conserva la struttura metaforologica fondamentale; in particolare il motivo, mutuato dall’idea del Libro divino, della leggibilità del mondo quale garanzia di un accesso al senso riposto di esso, ad una verità nascosta dietro il mutevole apparire degli enti.

La nascita della scienza moderna segna un punto di svolta decisivo nella storia di tale metafora: all’obsoleto Libro di Dio Galilei sostituisce il Libro della Natura, purgando la metafora da quel carattere di ritrosia e indicibilità del vero connesso all’idea biblica di una volontà divina che, pur parlando all’uomo, non dice tutto, o meglio il Tutto, ma soltanto ciò che imperscrutabilmente vuole; la Natura è ora un testo leggibile iuxtra propria principia e dunque integralmente accessibile all’umano conoscere. Della precedente forma della metafora viene conservato il tratto fondamentale dell’equivalenza Libro-Verità, che viene ora intesa in maniera pienamente adeguata: la verità racchiusa nel libro della Natura non presenta alcun margine di inconoscibilità, destinato per sua essenza a rimanere occulto, ma è pubblica e accessibile nella sua interezza a tutti coloro in grado di apprendere la lingua in cui esso è scritto: la matematica, lingua certo difficile e non immediata ma tutt’altro che misteriosa o esoterica.

Blumenberg continua poi a seguire la proteiforme evoluzione della metafora del libro fino alle soglie dell’epoca attuale, mostrando come la “leggibilità” finisca con l’investire sfere sempre più vaste e varie del reale: l’uomo, la storia, i sogni. Ma più che ripercorrere tale minuziosa analisi, ciò che vorrei evidenziare è il motivo teoretico che ne fa da filo conduttore e a cui già accennano le primissime pagine di La leggibilità del mondo, laddove si afferma che al giorno d’oggi “il disagio della civiltà è dominato da una delusione, per la quale nessuno è in grado di indicare quali erano state le aspettative che sono andate deluse. […] La delusione, proprio per quello che è risultato il sapere di cui siamo stati capaci, rende necessario chiedersi: «Cos’era che volevamo sapere?»”[6] Le aspettative che l’uomo occidentale nutriva riguardo se stesso, il mondo, il senso ultimo della vita muovevano da congetture ingiustificate, da “pregiudizi” inconfessati, che vengono ora alla luce: “Nei rapporti che nel mondo della vita intrattiene con la realtà, da sempre l’esperienza ha i suoi ideali segreti; ma di fronte a superiorità e successi posteriori e d’altra natura essi incorrono nel sospetto di essere obsoleti, oscuri, ridicoli”.[7] Dal fondo precategoriale, spesso doloroso e angoscioso, della vita brancolano verso il reale congetture e supposizioni il cui fine ultimo è quello di rendere in qualche modo noto l’ignoto, di togliere l’insostenibile alterità dell’altro, “umanizzandola” e facendone qualcosa di familiare: in ciò consiste la funzione dell’attività poietico-metaforizzante. Col progredire dell’elaborazione scientifico-teoretica, osserva Blumenberg, tali indimostrate aspettative e congetture vengono “giustamente” messe da parte, ma la loro intrinseca potenza metaforica è tale che esse finiscono immancabilmente per ripresentarsi “sotto ogni sorta di travestimenti e con ogni genere di nomi”, conservando intatta “l’affinità che esse hanno, e che esprimono, con le aspettative clandestine dell’uomo di fronte alla realtà”; infatti “la rigorosa soppressione di quei ‘pregiudizi’ ha soltanto spostato la competenza delle fiduciose attese, ma le grandi sentenze non le hanno rese né più rare né più modeste”.[8] Tra tali “pregiudiziali” aspettative, quella della leggibilità del mondo ha avuto un ruolo fondamentale lungo tutta la storia dell’Occidente, tanto che è proprio il venir meno di essa ad aver provocato in larga misura quel senso di generale delusione e disagio culturale-spirituale che grava sulla coscienza dell’uomo contemporaneo. In tal senso, dunque, “il desiderio che il mondo si riveli altrimenti accessibile che nel modo della mera percezione e perfino della prevedibilità esatta dei fenomeni; che nello stato d’aggregazione della leggibilità possa schiudersi in un’elargizione di senso come una totalità di natura, di vita e di storia, […] è parte intrinseca della richiesta di senso della realtà, che è rivolta alla sua perfetta e non più violenta disponibilità”.[9]

E’ con il Romanticismo che l’intensità di tale pretesa raggiunse il suo apice, improntando di sé la coscienza culturale dell’epoca e postulando programmaticamente l’immediata coincidenza di libro (nella moderna forma del romanzo) e mondo. Paradigmatica, in tal senso, l’affermazione di Novalis, secondo la quale la natura è l’io stesso “geroglifizzato”. Tuttavia è proprio con il Romanticismo che la metafora della leggibilità, enfiata ipertroficamente fino al punto da perdere ogni significato, inizia a declinare; la sfrenata fantasia dei romantici, infatti, illudendosi di poter leggere il Tutto in tutto, finiva col leggere di tutto in ogni cosa e dunque col non leggervi di fatto più nulla di concreto (si ricordi la sferzante battuta hegeliana circa la notte grigia in cui tutte le vacche sono grigie).

L’idea del Libro assoluto del mondo come libro assolutamente vuoto, composto soltanto da fogli bianchi, già accennata da Flaubert e poi esplicitata da Mallarmé, non fa altro, che radicalizzare, portandolo alle sue estreme conseguenze logiche, proprio il tratto fondamentale del Romanticismo, prendendo atto dell’autodissoluzione della metafora della leggibilità. “L’illusione lasciata in eredità dal romanticismo consiste in questo: che esso credeva di poter avere la cosa stessa, la ‘cosa in sé’; in piena immediatezza la cosa stessa – e contemporaneamente di poter tenere in mano e mantenere un libro, nel caso estremo un unico libro, che gli si sarebbe trasformato nella cosa stessa. Che nell’imbarazzo su ciò che vi potrebbe o dovrebbe stare, alla fine il libro non contenga nulla oppure qualcosa su nulla, vuol dire semplicemente aver reso visibile questa aporia. […] La ‘leggibilità’ del mondo continuava a sussistere solo grazie al potere della negazione. Più ancora: il libro su niente è il libro senz’altro autarchico; non ha bisogno di altro che di sé. E’ nudo significato”.[10] Si può dire in tal senso che la metafora della leggibilità incorre nel principio dell’entropia dell’informazione; infatti il libro vuoto dalle pagine bianche costituisce un sistema ad altissima entropia che realizza una condizione di informazione massima, perché fino a quando su di essa non viene di fatto scritto qualcosa, una pagina bianca contiene in potenza ogni possibile testo. Il mondo è sì un libro, ma proprio perciò è illeggibile. Il Nulla finisce con l’assorbire il Tutto, di cui è la potenza originaria: una sorta di Assoluto negativo al quale si giunge attraverso la nullificazione dell’entità degli enti, tramite la progressiva soppressione delle peculiarità ontiche di essi fino alla più radicale indifferenziazione ontologica.

In tale esito dello sviluppo della metafora del mondo come libro, osserva d’altro canto Blumenberg, si può ancora scorgere all’opera l’originario carattere teologico di essa: “se il mondo era stato una comunicazione del creatore alle proprie creature, la perdita di questa funzione doveva lasciare il posto al vuoto gesto del significato, il mondo come libro su niente”.[11] La pregnanza della metafora sembrava in tal modo esaurita: Galilei aveva aperto il libro della Natura con la convinzione che, sia pure attraverso lo sforzo di molte generazioni, si potesse infine arrivare a rischiarare definitivamente l’oscuro senso del Tutto; quanto più si è tentato di leggere in quelle pagine, tanto più esse si sono invece logorate e sbiadite, diventando indecifrabili, così che mani troppo stanche o troppo impazienti hanno infine richiuso quel libro ormai polveroso. Quella promessa di senso, che ha accompagnato costantemente il cammino dell’uomo moderno, ha progressivamente mostrato di non poter essere mantenuta, ingenerando una delusione proporzionale alla grandezza di quell’aspettativa.

Quello delle metafore sembra essere, per così dire, un destino “tragico”: il loro darsi sembra doversi necessariamente concludersi con il loro sottrarsi, in quanto l’affidarsi ad esse è altrettanto necessario dell’abbandonarle. Vi sono periodi della storia nei quali il corso degli eventi sembra accelerare lungo direttrici impreviste che preludono a svolte radicali della civiltà, quando il nuovo irrompe con forza, minacciando di destabilizzare le consolidate strutture del reale: è in tali periodi che la forza vitale delle metafore ha modo di dispiegarsi in tutta la sua pregnanza, offrendo una sorta di argine contro il ribollire tumultuoso del fiume della storia, un ponte di fortuna sul quale reggersi in piedi alla ricerca di un precario equilibrio nel mentre che ci si protende verso il nuovo. L’inquieto dirompere di ciò che non ha ancora un nome viene, per così dire, imbrigliato per mezzo di una sorta di meccanismo proiettivo, che tende ad assimilarlo e tradurlo entro i termini di quei campi metaforici già durevolmente intrecciati al tessuto culturale e spirituale di un’epoca; in tal modo vengono attenuate la radicalità e la carica sovvertitrice del nuovo e avviato il più lento, ma proprio per questo più fruttuoso, processo di rielaborazione dell’assetto esistente.[12]

E’ a questa valenza storicamente feconda, produttrice di senso, che Blumenberg, memore della grande lezione di Vico, intende alludere quando afferma che “la propria potenza metaforica dà all’uomo la possibilità di fare di una natura estranea un mondo suo”.[13] La poderosa intuizione del grande filosofo napoletano del principio di convertibilità di vero e fatto, secondo Blumenberg, coglie infatti l’intima natura e la funzione vitale delle metafore e sembra quasi anticipare la nozione kantiana di trascendentalità: “noi comprendiamo solo ciò che abbiamo fatto e il resto che non abbiamo fatto lo comprendiamo appunto passando attraverso ciò che abbiamo fatto. In forza del suo carattere ‘artificioso’ la metafora, dovunque presa, è questa deviazione attraverso ciò che noi stessi abbiamo fatto. In questo essa è anche, con tutta la necessaria cautela di fronte ai ‘precorrimenti’ dell’idealismo, un elemento ‘trascendentale’. Perché essa crea esperienza senza derivare dall’esperienza”.[14]

Altrettanto connaturata alla dinamica storica delle metafore è, tuttavia, un elemento regressivo: una sorta di effetto di inerzia culturale che porta allo sclerotizzarsi di apparati metaforici ormai superati e ingenera comportamenti conformistici di attaccamento alla tradizione. Una metafora ormai saldamente innervata entro la forma spirituale di un’epoca, infatti, tende inevitabilmente a resistere al dispiegarsi della nuda chiarezza definitoria perseguita dalla teoresi pura, continuando a proiettare sulla vivente concretezza del reale invecchiate modalità interpretative, che a tale realtà sono ormai incommensurabili.

E’ questa la “tragicità” del destino storico delle metafore cui si accennava sopra: da un lato esse costituiscono l’indispensabile supporto all’introduzione del nuovo, il filtro provvisorio tra ciò che già si conosce e ciò che appena si comincia a intravedere; dall’altro, rappresentano l’inevitabile scoria culturale che la teoria, una volta che si sia saldamente impossessata di quel nuovo, deve necessariamente lasciare cadere, per costituirsi e progredire autonomamente. Il voler mantenere a tutti i costi in piedi una metaforica ormai in stridente contrasto con i risultati della razionalità scientifico-formale è altrettanto inutile e fuorviante, se non dannoso, che tentare di tradurre in greco arcaico un testo di cibernetica.

A tale valenza deteriore delle metafore Blumenberg accenna soprattutto nel capitolo finale di La leggibilità del mondo, dedicato a “il codice genetico e i suoi lettori”. Dopo che con il Positivismo era sembrata ormai definitivamente tramontata, la metafora della leggibilità del mondo ha infatti conosciuto nel Novecento una nuova inaspettata fortuna ad opera del rivoluzionario sviluppo delle scienze biologiche. La fondamentale scoperta del meccanismo di trasmissione dell’ereditarietà ad opera del DNA, che si avvale di un sistema di codificazione dell’informazione genetica basato sulla combinazione di un numero estremamente ridotto di elementi variabili, i nucleotidi, sembra infatti aver portato la metafora della leggibilità a coincidere con la segreta legge della Vita stessa. Il nucleo metaforologico fondamentale della leggibilità del mondo, cioè la convinzione che gli enti naturali siano omologhi alle lettere dell’alfabeto e che le leggi che li governano corrispondano a una segreta sintassi, ha finito di fatto col corrispondere, almeno per quanto riguarda i fenomeni biologici, alla struttura ultima della realtà: “Per questa prima ed unica volta il procedimento dello scrivere trovò nella natura una corrispondenza precisa: rappresentare una molteplicità pressoché illimitata di variazioni di significato con un piccolo corredo di elementi, facendo della rappresentazione la ‘causa’ soltanto indiretta della realizzazione”.[15] In tal senso, gli organismi viventi non sarebbero dunque altro che dei testi scritti dalla mano invisibile dell’evoluzione.

Blumenberg individua in Friedrich Miescher, il grande scopritore dell’acido nucleico, il pioniere della metafora dell’alfabetismo biochimico;[16] rilevando come il biologo procedesse nella sua ricerca senza avere ancora la piena consapevolezza dell’effettiva analogia tra la leggibilità e la dinamica dei processi genetici, ma facendo uso di essa alla stregua di una “metaforica sottintesa, che gli serve d’orientamento mentre, a tentoni, s’addentra in regioni ancora inaccessibili”.[17] In tal senso, al suo primo apparire sulla scena della genetica, la metafora della leggibilità svolse una funzione indubbiamente positiva, in linea cioè con quel carattere di offerta di senso cui si accennava sopra. Tuttavia è proprio riguardo al campo della genetica che oggi si fa sentire più marcatamente la valenza regressiva di quell’effetto di inerzia culturale che, come si è visto, ogni metafora alberga in sé; al punto che la frequentazione della metafora della leggibilità pare avere suscitato alla fine più timori che speranze. Gli straordinari progressi della genetica, che hanno messo a disposizione dell’uomo il potere di manipolare a proprio piacimento il corredo cromosomico degli organismi viventi, sono stati infatti sempre più accompagnati da anatemi, fondate paure e meno fondati isterismi. I diffusi timori di arbìtrî mostruosi da parte degli “immorali” ingegneri della vita e, in ultima istanza, lo spettro di progetti di eugenetica sull’animale “uomo”, sono amplificati in maniera talvolta acritica sia dalle organizzazioni religiose e parareligiose tradizionali, sia dai vari “umanitarismi”, “ambientalismi” e altri consimili “ismi”, che di quelle hanno ereditato i concetti di colpa e di peccato, riscrivendoli e ricolorandoli ma conservandoli essenzialmente immutati. E’ dunque quanto mai opportuna l’esortazione di Blumenberg a riflettere con spassionata lucidità su ciò che realmente significa e sottintende il “visionarismo blasfemo-apocalittico” che vede l’uomo impegnato nell’estrema ubriV del riscrivere di proprio pugno il segreto testo della natura. Afferma infatti il metaforologo: “Ciò che lo scettico ha in mente di fronte ai successi della genetica, non lo si può comprendere nell’intensità del suo sospetto e del suo timore se non si volge lo sguardo indietro all’antico libro della natura, considerato come il testo della creazione che Dio ha scritto in sacrosanta definitività. Perciò anche l’estrapolare alla tentazione di voler riscrivere il testo non mira affatto ai rischi che ciò potrebbe avere per il vivere ed il sopravvivere dell’umanità, ma alla rivalità di tecnica e natura. Mira allo scandalo di una concorrenza con l’autore unico del mondo, che tanto aveva fatto per nascondere alla vista il segreto della sua opera. Alla fine senza successo. Infatti, l’uomo avrebbe ora decifrato lo scritto e quindi si sarebbe procurato la possibilità di scriverlo […]; egli stesso prenderebbe in mano la propria evoluzione. Sostanza del sospetto è che si tratti di creare il superuomo”.[18]

Dopo aver esortato a “distinguere tra sacrilegio e sobria ponderazione delle opportunità e dei rischi”, Blumenberg invita dunque a far tesoro della lezione di Jonas e del suo “principio-responsabilità”,[19] quale principio antiutopico, perché se c’è un dovere etico fondamentale dell’umanità è quello di “esitare di fronte ad opzioni che promettono felicità, nella misura in cui queste comportino rischi assoluti”.[20] Ciò di cui davvero occorre avere paura sono infatti i cosiddetti “grandi benefattori dell’umanità”, i “buoni e giusti” di ogni fede o ideologia, che in perfetta quanto pericolosa buonafede “sognano di rimuovere le deficienze dell’essere sociale uomo e di pianificarne sul lungo periodo il rinnovamento, per renderlo finalmente e definitivamente capace di raggiungere la propria felicità”.[21]

Ciò che però dal punto di vista strettamente teoretico a Blumenberg, in quanto metaforologo, preme soprattutto capire è “se la metaforica della leggibilità abbia stimolato, se non addirittura legittimato, l’impulso fatale al potere biochimico”.[22] La conclusione cui egli giunge è la seguente: “Può anche darsi che la genetica sia realmente il dramma centrale nel crepuscolo degli dei della scienza, dopo che la fisica, che a prima vista vi sembrava predestinata, non lo è divenuta. Io ritengo però che annodare questa fosca prospettiva sull’arbitrio genetico all’antropomorfismo della metafora, sia una trovata puramente letteraria”.[23] A quanti con religioso tremore paventano terrificanti nemesi più o meno divine e proclamano l’inviolabilità del codice genetico degli organismi viventi, Blumenberg ricorda che “tutto ciò che sappiamo del meccanismo dell’evoluzione ci rende difficile percepire e rispettare il decreto, professare una morale dell’integrità del testo della natura”,[24] dal momento che l’evoluzione è proceduta sul suo cammino proprio violando costantemente ogni presunta normatività genetica, per mezzo di innumerevoli deviazioni e mutazioni rispetto alle forme precedentemente raggiunte.

E’ dunque proprio in rapporto alla complessa problematica sollevata dai potenziali sviluppi “sacrileghi” della moderna genetica, che si palesa la valenza regressiva della metafora della leggibilità e viene contemporaneamente in chiaro la dimensione etico-pratica dell’indagine metaforologica. Compito del metaforologo, infatti, non è soltanto quello di elaborare una sempre più attenta Begriffsgeschichte, ma anche quello di sorvegliare con spirito critico il destino delle grandi metafore della tradizione occidentale nel loro fattivo intrecciarsi allo sviluppo della civiltà contemporanea, segnalandone la loro possibile perniciosità. “Metafore sono elementi retorici che nell’ambiente di tese problematicità possono acquisire virulenza. Mentre l’argomento sufficiente in un contesto teorico è un po’ come disciplina coagulata, l’elemento retorico ha bisogno di problematizzazione proprio nella misura della sua potenzialità: ci aiuta a passare oltre gli imbarazzi della mancanza di senso oppure ci spinge avanti a condensare infondate pseudoevidenze. Metaforologia è un procedimento per vagliare gli azzardi necessari dalle suggestioni irresponsabili. Nella biochimica e nella genetica si può osservare come il progresso della teoria smantella continuamente i ponteggi delle metafore, dei quali con tanto successo si è servito. […] Appena è progredita analiticamente e funzionalmente, la teoria smantella dietro di sé i ponteggi delle illustrazioni, quali che siano i servizi che le hanno reso per formare i modelli”.[25]

Giovanni Silvestre


[1] I principali testi di Hans Blumenberg tradotti in italiano sono: Paradigmi di una metaforologia, trad. it. M. V. Serra, Bologna, 1969 [Paradigmen zu einer Metaphorologie, Bonn, 1960]; La caduta del protofilosofo o la comicità della teoria pura. Storia di una ricezione, trad. it. P. Pavarini, Parma, 1983 [Der Sturz der Protophilosophen. Zur Komik der reinen Theorie, anhand einer Rezeptionsgeschichte der Tales-Anekdote, in “Poetik und Hermeneutic”, VII, 1976, pp. 11-64]; La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, a cura e con introduzione di R. Bodei, trad. it. B. Argenton, Bologna, 1984 [Die Lesbarkeit der Welt, Frankfurt, 1981]; Naufragio con spettatore, trad. it. F. Rigotti, Bologna, 1985 [Schiffbruch mit Zuschauer. Paradigma einer Daseinmetapher, Frankfurt, 1979]; Le realtà in cui viviamo, trad. it. M. Cometa, Milano, 1987 [Die Wirklichkeiten in denen wir leben, Stuttgart, 1981]; Il riso della donna di Tracia, trad. it. B. Argenton, Bologna, 1988 [Das Lachen der Thräkerin. Eine Urgeschichte der Theorie, Frankfurt, 1987]; L’ansia si specchia sul fondo, trad. it. B. Argenton, Bologna, 1989 [Die Sorge geht über den Flüss, Frankfurt, 1987]; Elaborazione del mito, trad. it. B. Argenton, Bologna, 1991 [Arbeit am Mythos, Frankfurt, 1979]; Passione secondo Matteo, trad. it. C. Gentili, Bologna, 1992 [Matthäuspassion, Frankfurt, 1988]; La legittimità dell’epoca moderna, trad. it. C. Marelli, Genova, 1992 [Die Legitimität der Neuzeit, Frankfurt, 1966]. Sulla “fortuna” del pensiero di Blumenberg in Italia cfr. M. Russo, La ricezione di Hans Blumenberg in Italia, in “Il pensiero”, XXXIII, 1993, pp. 177-190. Per una bibliografia delle opere di Blumenberg (fino al 1990) cfr. “Zeitschrift für philosophische Forschung”, XLIV, 1990, 4, pp. 650-661; cfr. anche M. Meier, Figuren der Lebenswelt. Bücher von Hans Blumenberg, in “Merkur”, XXXVI, 1982. Per una prima ricognizione della letteratura critica cfr. F. Fellmann, Gelebte Philosophie in Deutschland. Denkformen der Lebensweltphänomenologie und der kritischen Theorie, Freiburg-München, 1983, pp. 250-261; R. Faber, Der Prometheus-Komplex: zur Kritik der Politotheologie Eric Voegelins und Hans Blumenbergs, Wurzburg, 1984; W. Sparn, Blumenbergs Herausforderung der Theologie, in “Theologische Rundschau”, XLIX, 1984, pp. 170-207; J. Willwock, Die Bilder der unbegriffenen Wahrheit. Zu Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, in “Germanisch-Romanische Monatsschrift”, XXXVI, 1986, pp. 83-91; R. Bodei, Navigatio vitae. Riflessioni su Hans Blumenberg, Modena, 1987; J. Kirsch-Hänert, Zeitgeist-Die Vermittlung des Geistes mit der Zeit. Eine wissenssoziologische Untersuchung zur Geschichtsphilosophie Hans Blumenbergs, Frankfurt, 1988; “Akzente”, XXXVII, 1990 (fascicolo monografico su Blumenberg); F. J. Wetz, Hans Blumenberg. Zur Einführung, Hamburg, 1993.

[2] J. L. Borges, Altre inquisizioni, trad. it. F. Tentori Montalto, Milano, 1986, pp. 15, 53.

[3] A tal proposito cfr. ad esempio E. A. Havelock, La Musa impara a scrivere. Riflessioni sull’oralità e l’alfabetismo dall’antichità al giorno d’oggi, Roma-Bari, 19952; C. Sini, Filosofia e scrittura, Roma-Bari, 1994.

[4] Anticipando le conclusioni cui a tale proposito perviene Blumenberg, vorrei sottolineare come dunque non sia un caso, che da più parti oggi si giudichi “sacrilego” alterare o violare l’intangibilità del codice gene­tico, e che i più intransigenti e a volte tetragoni difensori di essa siano proprio le istituzioni ecclesiastiche, allarmate dall’intollerabile prospettiva che la scienza sia infine riuscita a mettere le mani sul testo segreto della Vita, che è poi il testo divino stesso, alte­randolo e riscrivendolo a proprio piacimento. In ciò, del resto, sta pro­babilmente la ragione della sempre più marcata connotazione, per così dire, biolo­gico-naturalistica assunta dall’attuale etica religiosa in campo sessuale-procreativo, la quale finisce col contrapporre ai fatti biologici naturali non tanto una reale alterità di valore, quanto la mera ipostasi metafisico-assiologica della “Vita”, trasfigurando cioè in norma etica la fattuale empiricità dell’accadere biologico.

[5] H. Blumenberg, La leggibilità del mondo, cit., p. 11.

[6] Ivi, p. 3.

[7] Ivi, p. 4.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Ivi, p. 301.

[11] Ibidem.

[12] Circa lo statuto teoretico della metaforologia cfr. soprattutto Id., Paradigmi per una metaforologia, cit.; Approccio antropologico all’attualità della retorica, in “Il Verri”, XVI, 1971, poi in Le realtà in cui viviamo, cit., pp. 89-105.

[13] Id., La leggibilità del mondo, cit., p.170.

[14] Ivi, pp. 169-170.

[15] Ivi, p. 378.

[16] Cfr. soprattutto F. Miescher, Die Spermatozoen einiger Wirbelthiere, in Die histochemischen und physiologischen Arbeiten. Gesammelt und herausgegeben von seinen Freunden, Leipzig, 1897, vol. II, pp. 55-107.

[17] H. Blumenberg, op. cit., p. 390.

[18] Ivi, pp. 395-396.

[19] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, Torino, 1990 [Das Prinzip Verantwortung, 1979].

[20] H. Blumenberg, op. cit., p. 396.

[21] Ibidem.

[22] Ivi, p. 396.

[23] Ivi, p. 394.

[24] Ivi, p. 397.

[25] Ivi, pp. 402-405 (il corsivo è mio).

https://cielodicemento.wordpress.com/2010/09/27/liber-scriptus-proferetur-in-quo-totum-continetur%E2%80%9D-la-metaforologia-di-hans-blumenberg-e-la-genetica/

HANS BLUMENBERG

La leggibilità del mondo

“Affascinante libro” (Italo Calvino).

E’ possibile sillabare la realtà come fosse esposta in un libro? Oggetto del volume, che si presenta come un’elegante scorribanda all’interno di qualche millennio della cultura occidentale, è la storia di una famiglia di metafore connesse all’idea del mondo naturale come cosa da leggere, che Blumenberg traccia per episodi salienti a partire dal biblico “libro della natura” scritto da Dio per arrivare all’interpretazione dei sogni freudiana, al DNA come codice da decifrare, ai comportamenti simulativi dei politici, ai volti della fisiognomica. Raccontata letteralmente per immagini, per emblemi, quella che si disegna in queste pagine straordinarie è la storia della conoscenza e del rapporto fra l’uomo e il mondo.

Hans Blumenberg (1920-1996) è considerato tra i più significativi filosofi tedeschi del Novecento. La maggior parte della sua opera è stata proposta in Italia dal Mulino; ricordiamo: “Naufragio con spettatore” (1985), “Il riso della donna di Tracia” (1988), “L’ansia si specchia sul fondo” (1989), “Elaborazione del mito” (1991), “Passione secondo Matteo” (1992), “Tempo della vita e tempo del mondo” (1996).

 

https://www.mulino.it/isbn/9788815132994

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