György Lukács : Lo scrittore e il critico

 

Lo scrittore e il critico

 

I.

Suona ovvio, o addirittura banale, ma occorre dirlo subito all’inizio: il tipo dominante di scrittore e di critico si è andato modificando nel corso della decadenza del capitalismo; perciò anche il rapporto tipico tra lo scrittore e il critico non poteva non diventare diverso.

Suona parimenti ovvio, o addirittura banale, ma occorre ripeterlo in ogni occasione, che la causa determinante di questa deformazione è la divisione capitalistica del lavoro. Essa ha trasformato sia gli scrittori che i critici in ristretti specialisti; ha tolto loro quella universalità e quella concretezza di interessi umani, sociali, politici e artistici che contraddistinsero la letteratura del Rinascimento, la letteratura dell’Illuminismo e la letteratura di tutti i periodi di preparazione delle rivoluzioni democratiche; ha spezzato sia per gli uni che per gli altri la mobile unità dei fenomeni della vita, sostituendola con «campi» circoscritti, isolati, discontinui (arte, politica, economia ecc.), che, di fronte alla coscienza, o si irrigidiscono nella loro separazione, o vengono collegati mediante pseudosintesi astratte e soggettive (razionalistiche o mistiche).

È infine ovvio che tutto ciò si riferisce alla principale corrente di sviluppo degli ultimi decenni. La lotta socialmente vana, nell’ambito del capitalismo reazionario, ma ideologicamente assai preziosa, che alcuni notevoli umanisti hanno intrapreso contro il complesso di questi fenomeni, non fa altro che sottolineare la necessità sociale dello sviluppo generale.

Sia gli scrittori che i critici divengono dunque degli specialisti sottoposti alla divisione del lavoro. Lo scrittore ha fatto della sua interiorità un mestiere. Anche se questo mestiere non conduce, come nella stragrande maggioranza degli scrittori, a un completo adattamento alle esigenze quotidiane del mercato librario, anche se il comportamento di essi rappresenta soggettivamente una tenace opposizione a questo mercato e alle sue esigenze, tuttavia il rapporto dello scrittore con la vita, e quindi necessariamente con l’arte, viene a immeschinirsi e a deformarsi.

Siccome lo scrittore (e proprio quello che, nella sua arte, è all’opposizione) fa della letteratura un fine a sé e mette polemicamente in primo piano la sua autonomia, passano in secondo piano quei grandi problemi compositivi che scaturiscono dall’esigenza di configurare in modo vasto e profondo i tratti universali e durevoli dell’evoluzione dell’umanità. Subentrano in vece loro le questioni concernenti l’immediata tecnica espositiva, il lavoro di laboratorio.

Quanto più si aggrava questo processo, e tanto più direttamente artigianali, tecniche e soggettive diventano tali questioni; tanto più esse distolgono dai grandi – in senso sociale come in senso estetico – problemi generali e oggettivi della letteratura. L’ostilità all’arte propria della realtà capitalistica annulla la chiara distinzione tra i generi; l’annulla soprattutto perché la natura del nuovo materiale offerto dalla vita è talmente ostica che soltanto gli scrittori più coscienti in fatto di questioni estetiche ne possono venire a capo; ma anche perché appresta una quantità di illecebre puramente esteriori cui possono resistere solo pochi ostinati. Terze pagine di giornale, regia teatrale, regia cinematografica, riviste moderne tipo rotocalco: tutto ciò contribuisce, più o meno consapevolmente, ad oscurare e mutilare tutti i concetti dell’arte vera. Scrittori che, con lo stesso spunto, fabbricano romanzi d’appendice, soggetti cinematografici, drammi e libretti d’opera, devono perdere per forza di cose ogni sensibilità per l’espressione autentica e per la rappresentazione adeguata; scrittori che abbandonano a registi teatrali e cinematografici l’elaborazione definitiva delle loro produzioni e che si abituano a fornir loro abbozzi lasciati a mezzo (giungendo magari fino a teorizzare questi usi artisticamente immorali), non possono certo conservare un intimo contatto con i veri problemi dell’arte.

L’ironia storica dell’evoluzione dell’arte nel capitalismo si manifesta nel fatto che parecchi scrittori i quali onestamente e lucidamente si oppongono al suo meccanismo stritolatore e soffocatore di ogni cultura, danno mano, in teoria o in pratica, alla sua azione di dissolvimento delle forme. Esprimendo la propria soggettività, le loro pure impressioni, i loro problemi puramente individuali, con profonda convinzione e paradossale spregiudicatezza, essi vogliono opporsi al brutale livellamento e alla crescente impoeticità della letteratura borghese. Ma ciò che essi ottengono, nella teoria e nella prassi oggettiva, è un ulteriore logoramento delle forme poetiche, un’anticipazione «profetica» di mode letterarie che regneranno qualche decennio o soltanto qualche anno più tardi, e cioè di un diverso livellamento e svuotamento delle opere letterarie.

Basterà addurre un esempio. Il notevole poeta lirico E. A. Poe non è soltanto il fondatore del moderno romanzo poliziesco, dell’arte di produrre la tensione attraverso la pura curiosità e le sorprese, ma è anche il primo propugnatore della posteriore decomposizione delle forme epiche e drammatiche in momenti lirici. Nel suo istruttivo saggio Il principio della poesia, Poe contesta la possibilità dell’esistenza di un lungo poema: «Sostengo che i lunghi poemi non esistono. Sostengo che l’espressione “lungo poema” non è altro che una banale contraddizione in termini». E nella Filosofia della composizione Poe illustra questa affermazione dicendo che ogni opera letteraria che non si può leggere «tutta in un fiato» non ha unità e tonalità poetica: «Ciò che chiamiamo un lungo poema è in realtà soltanto una serie di poemi brevi, cioè di brevi effetti poetici».

È a tutti chiaro come questa teoria di Poe rifletta intenti soggettivamente sinceri e ispirati a un alto concetto dell’arte: il ripudio, esteticamente più che legittimo, della piatta pseudoepica accademica e della produzione di romanzi in serie. Ma siccome questa protesta parte dal cantuccio soggettivistico dei puri problemi dell’impressione e dell’espressione e non si solleva al di sopra di un accurato esame delle sottigliezze tecniche (ignorando sia il reale rapporto del popolo con Parte vera che la relazione oggettiva intercorrente tra questa e la vita della società), Poe diviene qui soltanto il predecessore teorico di un impressionismo lirico, che, dopo aver raggiunto effetti brevi e sorprendenti, apprezzati per il loro sapore di novità, degenerò rapidamente in una routine non meno arida di quella letteratura contro cui Poe dirigeva i suoi paradossali e acuti strali.

Questo esempio ha per noi solo un’importanza sintomatica. Scrittori molto inferiori a Poe hanno enunciato in seguito teorie molto più banali, creando intorno ad esse un’effimera sensazione immediatamente seguita dal meritato oblio. Ciò che vi è di sintomatico nel nostro esempio, e su cui vorremmo attirare l’attenzione del lettore, è il punto di vista da laboratorio di alchimia verbale: l’impressione e l’espressione sono isolate dal contenuto e dai problemi che radicano la letteratura nella vita popolare e determinano l’efficacia e la popolarità secolare e millenaria delle grandi opere d’arte. É sintomatico che Poe illustri l’impossibilità di «lunghi poemi» proprio adducendo gli esempi di Omero e di Milton. Ora nessuno contesta che in scrittori notevoli, tra cui si annovera anche Poe, si riscontrino, nonostante il predominio del punto di vista da laboratorio, fini ed esatte notazioni che investono problemi estetici essenziali. In casi simili, lo scrittore oltrepassa istintivamente, inconsapevolmente, e contro le sue convinzioni generiche, la ristretta cerchia soggettivistica dei punti di vista da laboratorio. Con questo però non si toglie nulla all’intento fondamentale di questa concezione estetica. Anzi, quanto più acute sono le singole notazioni, e tanto più forte è la seduzione esercitata sui giovani scrittori e critici, sui migliori lettori dell’epoca, che finiscono per scorgere nel metodo da laboratorio l’essenziale, la via giusta per un’adeguata concezione dell’arte. Il moderno preconcetto per cui solo gli artisti sarebbero in grado di capire qualcosa dell’arte e solo l’approfondimento della psicologia del processo creativo individuale e l’analisi della tecnica personale dei singoli scrittori renderebbero possibile una giusta comprensione dell’arte, affonda le sue radici teoriche in questo immiserimento della concezione estetica provocato dalla polemica, soggettivamente legittima, di scrittori autentici e sinceri.

Né si creda che tale critica si appunti esclusivamente sulle tendenze apertamente favorevoli all’arte per l’arte; del resto, anche in questo caso, il suo campo di applicazione sarebbe assai vasto nell’arte moderna. Ma è sintomatico, per la decadenza, che solo pochissimi tra gli avversari dell’arte per l’arte possano elevarsi, sia nella teoria estetica che nella prassi artistica, al di sopra dei ristretti orizzonti di tale concezione.

Nel campo di questi avversari si trovano, grosso modo, due posizioni estreme. Gli uni respingono insieme all’arte per l’arte tutte le preoccupazioni strettamente artistiche, mettendo direttamente la letteratura al servizio di una propaganda politico-sociale. Gli altri aspirano a conservare e a sviluppare tutte le «conquiste» della nuova letteratura, associando quindi in modo soggettivamente originale, ma esteticamente disorganico, la moderna dissoluzione delle forme letterarie e un intento sociale e politico spesso valido. Ottengono cosi una certa considerazione nei circoli letterari di «avanguardia», ma non possono penetrare nelle vaste masse, benché intendano esercitare una larga azione sociale, più di quel che non vi penetri la letteratura apolitica affine alla loro. Upton Sinclair rappresenta efficacemente la prima tendenza, Dos Passos la seconda.

La fatale scissione della letteratura moderna in due tronconi, il resoconto estraneo all’arte, che fa effetto solo grazie al nudo contenuto o a una tensione puramente esteriore, e una sfera estranea al popolo di esperimenti artistici da laboratorio, non può dunque essere superata da una simile introduzione di elementi politici: e non possono indicare la via d’uscita né l’astratta impersonalità di effetti meramente contenutistici, né la non meno astratta soggettività di un artigianato formalistico collegato in modo inorganico a un contenuto non elaborato artisticamente.

E fin qui ci siamo occupati soltanto di un piccolo settore della letteratura moderna, che per di più si eleva assai al di sopra della media dal punto di vista morale e sociale, e quindi anche nella purezza umana del concetto dell’arte che gli è proprio. La scomparsa dei problemi estetici oggettivi, che determinano, come vedremo in seguito, il punto d’intersezione tra l’approfondimento e la chiarificazione estetica da una parte e le radici sociali dell’arte dall’altra, immette necessariamente nella vita letteraria uno spirito di piccineria personale.

Che lo scrittore facchino al servizio del capitalismo che lo sfrutta, o il filibustiere letterario che approfitta dell’avversione capitalistica all’arte, conoscano soltanto i meschini interessi dell’arrivismo personale e del bellum omnium cantra omnes proprio del capitalismo, è fatto ovvio che non ha bisogno di commento. Più paradossale e più difficile da comprendere è l’atmosfera di piccina litigiosità che regna tra i migliori e più onesti scrittori del nostro tempo. Ma non bisogna perdere di vista il fatto che l’eccessivo peso accordato alle qualità personali tecnico-artigianali e alla novità, pure tecnica e individuale, dei mezzi espressivi e della scelta del soggetto, fa ripiegare lo scrittore su se stesso, per un’intima necessità. Perciò la propria personalità, le sue caratteristiche individuali, le particolarità soggettive del processo creativo nelle sue difficoltà e nei suoi risultati, la peculiarità individuale di piccole raffinatezze stilistiche, acquistano un peso che non hanno, oggettivamente, né per la società né per lo sviluppo dell’arte: un peso che non hanno mai avuto per gli scrittori di epoche artisticamente più fortunate.

È questa la situazione che produce la meschina ipersensibilità propria anche di scrittori valenti, capaci e totalmente dediti all’arte. La loro solitudine nella vita della società capitalistica, che riescono a superare, nel migliore dei casi, in quanto enunciano certe idee, ma non nella ricerca artistica, è la causa sociale di questi umori, da cui scaturiscono i momenti di piccineria della vita letteraria moderna (soggettivismo esagerato, vanità di «inventore», ostilità alla «concorrenza», incapacità di sopportare la critica, per non parlare degli intrighi e dei pettegolezzi). Isolamento sociale; coltivazione in serra di un manierismo personale; incertezza sulle questioni ideologiche fondamentali, aggravata dal consapevole soggettivismo che è già presente nella loro impostazione e che ingenera necessariamente un razionalismo troppo spinto e un misticismo fumogeno; riduzione dei problemi dell’arte vera e propria a quelli della tecnica dello scriver bene: ecco le cause essenziali che rendono «anormale» l’atteggiamento dello scrittore verso il critico nel capitalismo odierno.

II.

Le considerazioni sin qui svolte dovevano, per ragioni di chiarezza espositiva, essere unilaterali. Il giusto rapporto può essere trovato solo dopo aver seguito le metamorfosi che dovette subire, nello stesso periodo e per le stesse ragioni sociali, il tipo del critico. Allora soltanto si potrà mostrare come 1’«anormalità» da noi esaminata sia il necessario prodotto dell’azione reciproca delle trasformazioni di ambedue i tipi.

La riduzione della critica letteraria a mestiere comincia assai presto, in fondo già con l’apparizione delle recensioni di rivista, e il recensore di mestiere fu, sin dall’inizio, tenuto in scarsa considerazione letteraria. In netto contrasto, però, con i veri critici, per cui questa attività era un’intima vocazione e non una – poco redditizia – fonte di guadagno.

Lo sviluppo capitalistico, che livella tutto, ha lavorato per bene anche nel campo della critica. I fatti essenziali sono universalmente noti: innanzitutto la subordinazione di quasi tutta la stampa al potere dei grandi complessi capitalistici, per cui la gran massa dei critici è sempre più divenuta una parte dell’apparato di propaganda di questi gruppi finanziari. Solo poche riviste, per lo più a scarsa tiratura e con pochi mezzi, possono opporre resistenza e difendere la libertà di espressione della critica. E anche la loro reale indipendenza diviene sempre più problematica. Da quando il capitale ha pian piano scoperto che anche l’arte di opposizione può costituire un proficuo oggetto di speculazione, questi movimenti trovano anch’essi i loro «mecenati» e subiscono tutto l’equivoco materiale e morale di un appoggio da parte del capitale.

Sorge cosi, nella gran massa della produzione critica, una prostituzione delle opinioni simile alla prostituzione delle esperienze vissute che ha luogo in letteratura. La pericolosa equivocità di tale situazione viene ulteriormente aggravata dall’apparenza di libertà e di indipendenza accuratamente elargita dalle «alte sfere».

Questa apparenza è dovuta all’intersecarsi di varie tendenze. Da una parte ci sono sempre, anche nel capitalismo contemporaneo, critici valenti, colti e incorruttibili. D’altra parte, l’interessamento dei capitalisti a giornali e riviste è di indole assai varia, e non è affatto detto che comporti sempre un’influenza brutale e diretta sulle singole opinioni dei critici. Ci sono state e ci sono, per esempio, riviste la cui cerchia di lettori è costituita principalmente da intellettuali; esse hanno bisogno — anche dal punto di vista commerciale proprio dei loro finanziatori – di critici di vaglia, che possano liberamente esprimere le loro idee sull’arte e la letteratura e che possano eventualmente impegnare tra di loro fervidi dibattiti sulle questioni di loro competenza. La circostanza già ricordata, che certi capitalisti sono interessati a singoli indirizzi dell’arte e della letteratura moderna, fa inoltre in modo che tali periodici cerchino e trovino dei critici che si impegnano per profondo convincimento estetico in favore di un dato indirizzo. Quanto più alto è il livello di sincerità, di intelligenza e di cultura proprio di codesti critici, e tanto meglio essi servono gli interessi di quei capitalisti.

Avanza cosi, anche nel periodo del capitalismo monopolistico, un certo libero margine per l’indipendenza delle opinioni estetiche. Ma per comprendere la vera situazione della critica, e la trasformazione del tipo del critico che ha luogo in questo periodo, dobbiamo rivolgere la nostra attenzione alla reale natura di questo margine di libertà.

Perciò non vogliamo qui tener conto dei critici a un tanto al rigo, più o meno consapevolmente corrotti, esaminando soltanto – come abbiamo fatto per gli scrittori – i rappresentanti sinceri e valenti del nuovo tipo. Tuttavia – qui come là – la massa dei pennivendoli scadenti e corrotti crea lo sfondo, imprescindibile, degli oggetti delle nostre considerazioni. Poiché, né la posizione del critico di vocazione verso la letteratura contemporanea, né la posizione del vero scrittore verso la critica contemporanea, possono restare immuni dagli influssi esercitati da questo sfondo: esso determina, che essi ne abbiano coscienza o no, l’atmosfera della reciproca valutazione complessiva, tanto più che, da quanto abbiamo detto, risulta chiaramente che il contrasto tra i due estremi è bensì chiaramente visibile, ma la linea di demarcazione è necessariamente incerta e sfumata.

Il carattere decisivo di questo margine di libertà è la sua limitazione a questioni puramente estetiche. La fisionomia sociale e politica dei giornali e delle riviste borghesi è rigidamente definita; perché i giudizi sulla letteratura e sull’arte vengano lasciati liberi, occorre che queste siano considerate come isolate a priori dalla società e dall’esistenza delle lotte di classe.

Questo requisito, per lo più non enunciato apertamente, indispensabile alla pubblicazione di una critica, incontra in generale, da parte dei critici, una resistenza minore di quanto ci si aspetterebbe: lo sviluppo generale della critica e della teoria e della storia letteraria viene ampiamente incontro a tale esigenza. La «purificazione» della critica da punti di vista sociali e politici si compie spontaneamente, per intima coerenza, in forza della sua propria evoluzione e indipendentemente da ogni diretta pressione capitalistica.

La protesta estetica, a noi già nota, contro l’ostilità della vita capitalistica all’arte, trova nella teoria letteraria dell’epoca della decadenza ideologica un’espressione, se possibile, ancor più intensa e pregnante che nella letteratura. Ciò riesce facilmente comprensibile, ove si pensi che, nella teoria, cadono, o almeno esercitano un’azione assai più debole, quelle remore 0 correzioni apportate dalla vita stessa, le quali, nei casi più favorevoli, conducono, contro gli intenti dello scrittore, alla «vittoria del realismo». Già nel campo della letteratura creativa si constata che proprio gli scrittori più notevoli di questo periodo sono – nelle loro enunciazioni teoriche – radicati al terreno dell’arte per l’arte più saldamente che non nella loro prassi di scrittori. Nei puri teorici e critici letterari questa tendenza si esercita ancora più intensamente.

Si tratta qui di una corrente assai più vasta di quella circoscritta da un’aperta professione di fede nell’arte per l’arte. L’interpretazione teorica dei fenomeni letterari che prende le mosse dalla letteratura medesima, dalle correnti di sviluppo ad essa immanenti, dall’influsso esercitato da singoli scrittori, opere, tendenze, su altri scrittori, opere e tendenze; l’indagine dei temi, dei motivi e delle espressioni letterarie come se si muovessero ed evolvessero su un piano di autonomia; l’analisi delle circostanze biografiche e delle peculiarità personali del processo della creazione letteraria, nonché dei «modelli» immediati di questa, considerati come la vera chiave dell’approfondimento dei problemi letterari: queste ed altrettali tendenze sono tutti indizi del fatto che teorici e storici letterari hanno perso il contatto con la vita sociale del popolo. Calcando un po’ la mano, si può dire che essi offrono un riflesso caricaturale di certi fenomeni superficiali della divisione capitalistica del lavoro, trattando la letteratura come un territorio in sé conchiuso, completamente autonomo, da cui si può uscire, per trovare un contatto con la vita, solo attraverso la porta troppo angusta della biografia psicologica dei singoli scrittori.

Naturalmente, anche l’epoca di decadenza annovera tentativi di derivare la letteratura dalla vita della società e di spiegarla con essa. Ma anche qui notiamo fenomeni paralleli a quelli osservati più sopra a proposito dei contenuti sociali della narrativa di questo periodo, e anche qui constatiamo come errori e travisamenti si manifestino più facilmente nella critica che non nella narrativa stessa.

Occorre infatti brevemente ricordare che cosa fosse la sociologia di questo periodo, cioè la sociologia volgare. Di tale fenomeno si dà per lo più un’interpretazione troppo ristretta, considerandolo come una tendenza a trivializzare e deformare il marxismo. In realtà, la sociologia volgare è l’indirizzo predominante nelle scienze sociali della decadenza borghese. Marx ha chiaramente provato, a suo tempo, come, dopo la decomposizione della scuola ricardiana, all’economia classica sia subentrata l’economia volgare. La moderna sociologia borghese sorge nella stessa epoca e ne è l’immediata conseguenza. Essa implica l’isolamento «specialistico» della sociologia in senso stretto, la sua «emancipazione» dai vincoli che la univano alla storia e all’economia, il suo spostarsi verso astrazioni esangui ed estranee alla realtà. L’applicazione astratta e immediata delle generalizzazioni schematiche cosi acquisite (e che altro non sono se non luoghi comuni gonfiati con mezzi rettoria) ai fenomeni sociali, costituisce l’indirizzo fondamentale della sociologia borghese da Comte a Pareto.

E la scienza letteraria «sociologica» è per lo più contraddistinta dal fatto che in essa le nozioni sociologiche hanno un livello assai basso, e vengono quindi schematizzate in modo ancor più astratto che nella sociologia generale, e che i fenomeni letterari in oggetto sono trattati da un punto di vista non meno astrattamente formale ed estetizzante di quello della critica non sociologica. L’affinità spesso constatata tra sociologia volgare e formalismo estetico non è una specialità dei deformatori del marxismo. Anzi, è dalla critica letteraria della decadenza borghese che essa è penetrata nel movimento operaio. Già nei «classici» di tale sociologia, in Taine, Guyau e Nietzsche, si può riscontrare, in pieno rigoglio, questa commistione immediata e inorganica di generalizzazioni sociologiche astratte e schematiche e di considerazioni sulle opere letterarie improntate a un estremo soggettivismo.

L’indagine sociologica della letteratura non può dunque indicare, nemmeno alla critica, una via d’uscita dall’angusto soggettivismo estetizzante; che anzi la trascina sempre più nella morta gora. L’irrequieto oscillare tra un modo astrattamente contenutistico (sociale o politico) e un modo soggettivistico e formalistico di considerare la letteratura, è un moto apparente, e non già una feconda evoluzione. La mancanza di principi nel campo della critica ne viene anzi aggravata, poiché le due tendenze estreme aprono le porte all’indiretto e raffinato addomesticamento della critica stessa ad opera dei finanziatori capitalistici della stampa.

In primo luogo, critici onesti e fermi nei propri convincimenti possono in tal modo – attraverso coincidenze politiche superficiali, perché astratte – essere attirati al servizio di consorzi capitalistici.

In secondo luogo, tali astratte opinioni sociali e politiche non rivelano un’effettiva capacità di resistenza in tempi di grandi crisi della vita sociale (si pensi all’affare Dreyfus o alla guerra).

In terzo luogo – e questo è ciò che più importa ai fini del problema che stiamo trattando – una siffatta concezione sociale non è in grado di offrire al critico una norma oggettiva per giudicare il valore estetico dei fenomeni letterari.

Il critico può infatti valutare la letteratura semplicemente alla stregua del suo contenuto politico, trascurando la sua essenza artistica. Questo tipo di critica, che ciecamente identifica i principi politici degli autori con la loro importanza letteraria, ha gravemente e soprattutto ostacolato il progresso artistico della letteratura radical-democratica e rivoluzionario-proletaria nel periodo imperialistico, distogliendola da ogni approfondimento estetico ed ideologico e coltivando in essa un compiacimento settario per il livello d’arte e di pensiero, spesso molto basso, raggiunto in precedenza.

Oppure abbiamo un dualismo di punti di vista (che in concreto si presenta in forme assai varie): il contenuto politico e il valore estetico vengono rigidamente separati. Si ottengono giudizi di questo tipo: «libro senza contenuto politico; libro politicamente reazionario; ma di una straordinaria bravura…»; «opera artisticamente mancata, ma il contenuto e le idee politiche le conferiscono una grandissima importanza…» Si giunge cosi a un giudizio privo di principi estetici che si conforma esclusivamente alla congiuntura politica, nonché a una cieca sopravvalutazione (o sottovalutazione) di certi fenomeni della letteratura contemporanea. Non si individuano, né si criticano, quei momenti ideologici reazionari che hanno subito una trasfigurazione estetica; i quali possono quindi penetrare nella concezione e nell’arte progressista senza essere riconosciuti come tali dalla critica (e non importa che questa dia una valutazione politicamente esatta del contenuto). Si ha cosi una capitolazione estetica di fronte alle correnti di moda nel capitalismo in declino, nonché – come rovescio della medaglia — la sottovalutazione di figure notevoli appunto perché non presentano questo dualismo «interessante» e «d’avanguardia» tra contenuto politico e forma letteraria.

Quando taluni critici in cerca di coerenza fanno il tentativo di superare, nei presupposti teorici, questo dualismo, sorge per lo più una specie di eclettismo: i canoni tecnici di certe correnti alla moda vengono collegati, con brillante superficialità, a qualche frammento della filosofia in auge in quel momento, e aspetti effimeri della tecnica letteraria vengono assunti a principi fondamentali dell’arte.

Con ciò siamo arrivati a un peccato capitale della critica borghese moderna: essa è priva di storicismo, e poco importa che tale deficienza si manifesti in forma di un antistoricismo apertamente professato o di un lambiccato pseudostoricismo.

Abbiamo or ora mostrato come questa tendenza si riveli nella critica «d’avanguardia». Si tratta ora di vedere quanto le basi sociali, ideologiche ed estetiche degli avversi campi in lotta sul terreno dell’estetica — e parliamo sempre dei critici onesti e valenti! – siano in realtà strettamente affini.

Alludiamo alla sopravvalutazione astratta, isolata, unilaterale, della novità nello sviluppo dell’arte. Non c’è dubbio che la lotta del nuovo contro il vecchio è un momento decisivo del moto dialettico della realtà; è giusto pertanto che la storia e la critica letteraria dedichino la massima attenzione all’analisi di questa lotta e ai caratteri essenziali che contraddistinguono il nuovo che sta sorgendo. Ma i momenti essenziali di ciò che è realmente nuovo e progressivo possono essere individuati solo nella conoscenza del movimento d’insieme e delle tendenze reali ad esso immanenti. Nella realtà delle cose si intersecano continuamente gli indirizzi e i fenomeni più diversi, la cui novità essenziale non può in alcun modo essere intesa sulla scorta di caratteri esteriori che danno nel vistoso o nello stupefacente.

Il revisionismo della socialdemocrazia prebellica si presentò con la pretesa di introdurre delle novità nel tronco «invecchiato» del marxismo; ma in realtà era l’attaccamento al marxismo «ortodosso» che rappresentava il principio veramente progressivo di fronte alle «innovazioni» neokantiane e machiane (nonché pragmatistico-bergsoniane nel sindacalismo). Una vera novità si ebbe solo allorché Lenin, sul fondamento del «vecchio» marxismo, indagò i nuovi momenti economici, politici e culturali della nuova fase imperialistica del capitalismo, deducendo da essi i nuovi aspetti del movimento operaio rivoluzionario e dello sviluppo della rivoluzione democratica e proletaria.

E anche nei problemi letterari è solo la concretezza storicistica a offrire un sicuro appoggio per individuare i fatti veramente nuovi e progressivi. Ma questa concretezza storicistica manca sia alla storiografia letteraria accademica che alla critica «d’avanguardia». L’estetismo e la sociologia volgare (nella più vasta accezione definita più sopra) contribuiscono in egual misura a scavarle la fossa. L’accademismo tratta la letteratura classica misconoscendone il carattere popolare e progressivo, la connessione tra i problemi estetici che le sono propri e le più profonde questioni della vita sociale, del passato, del presente e del futuro della nazione. Trasforma quindi i classici in pallide larve, isolando gli elementi esteriori del loro stile (come la purezza formale) nonché le astratte componenti del loro contenuto («arte pura», «capacità di librarsi» al di sopra della società, «conservatorismo»), e facendone in tal modo degli spauracchi per scoraggiare ogni progresso in arte.

Per quanto legittima sia la protesta contro questa deformazione caricaturale dei classici e contro l’ermetico appartarsi di fronte ad ogni novità, tuttavia i critici «d’avanguardia» non possono sostanzialmente elevarsi al di sopra del metodo astratto e antistoricistico della cultura accademica. Essi operano una deformazione della storia altrettanto astratta, ma coi segni invertiti: come la storia letteraria accademica faceva un feticcio del cadavere mummificato dei classici, cosi fanno le teorie «d’avanguardia» nei confronti del nuovo. Come quella ignora il presente e il futuro dell’arte, cosi queste ne ignorano il passato. Si parla sempre di uno «sconvolgimento», di una «rivoluzione in letteratura», che avviene proprio oggi, con gli ultimi ritrovati della tecnica letteraria, mentre tutto ciò che è «invecchiato» deve esser relegato in soffitta.

Il carattere antistorico di ambedue le opposte tendenze risulta particolarmente chiaro proprio là dove esse motivano «storicamente» le loro concezioni. L’affinità metodologica dei due accaniti antagonisti è qui estremamente istruttiva.

In primo luogo, la letteratura viene sempre isolata dallo sviluppo generale della società o riallacciata ad esso, nel migliore dei casi, mediante categorie astratte e antistoriche (dall’ambiente e dal clima fino alle concezioni della classe e della nazione proprie della sociologia volgare).

In secondo luogo, si interrompe la continuità (che è certo contraddittoria e piena di «salti») dello sviluppo generale; dal punto di vista metodologico è perfettamente lo stesso dire: «Con la morte di Goethe è finita l’arte vera», oppure: «Col naturalismo (o con l’impressionismo, o con l’espressionismo, o col surrealismo) s’inizia un’arte assolutamente nuova». Quando si sottolinea, in modo astratto e unilaterale, soltanto l’originalità, l’elemento distintivo, di una nuova fase evolutiva, affermando che «è qualcosa di interamente diverso dalla precedente», senza tener conto della viva dialettica della lotta tra nuovo e vecchio nelle forme molteplici che assume tale trapasso, si finisce sempre per trascurare la novità essenziale, storicamente decisiva, per erigere a categorie centrali caratteristiche esteriori (tecniche, psicologiche).

In terzo luogo, il carattere antistorico e asociale di ambedue le tendenze estreme si manifesta in ciò, che le loro «categorie» centrali sono per lo più qualità biologico-psicologiche, debitamente stiracchiate e gonfiate, che vengono bensì generalizzate ad astrazioni formali, ma nel loro contenuto si rifanno a fenomeni superficiali, accolti acriticamente, del capitalismo in declino. Questo carattere ingenuamente antropologico appare nell’accademismo come «invecchiamento», «stanchezza», «esaurimento», mentre la critica «d’avanguardia» opera per lo più con categorie come «diritti dei giovani» e necessità di «nuovi stimoli». Questo (è vero) per lo più, e non sempre, poiché molti teorici del «radicalmente nuovo» attingono i loro argomenti anche dalla vecchiezza della civiltà contemporanea, mistificata in forme biologico-psicologiche. Basti ricordare, oltre alle teorie di Spengler, ancor oggi assai diffuse, quelle di Worringer, il filosofo dell’espressionismo, sulla «paura del mondo» come fondamento dell’arte «astratta» in opposizione all’Einfühlung.

Se si esamina questo psicologismo mistificato, non nella sua intrinseca falsità, ma alla luce dei motivi che gli danno origine, il comune fondamento metodologico di ambedue le opposte tendenze emerge ancor più chiaramente. Ottusità e sovreccitazione, annoiata apatia e inquieto andare in caccia di nuove sensazioni, vuota assuefazione alla monotonia quotidiana e timor panico delle forze, incontrollate e imprevedibili, dell’economia: questi, ed altri consimili atteggiamenti, scaturiscono dallo stesso terreno, quello del capitalismo monopolistico, e si fanno strada, contemporaneamente o alternativamente, negli stessi uomini. Le varianti, apparentemente illimitate, di questi fenomeni tipici essenzialmente uniformi, sono unicamente un’espressione del fatto che la complessità della stratificazione sociale e i rapidi mutamenti nelle vicende della lotta di classe fanno si che, in individui diversamente costituiti, tali indirizzi fondamentali si presentino in forme assai diverse le une dalle altre.

Tutto ciò indica chiaramente che la resistenza ideologica dei critici e degli storici letterari del tempo nostro di fronte alle istanze della politica d’insieme propria della loro classe dev’essere in generale, anche con la massima buona volontà, assai debole ed esitante. Il continuo intensificarsi della pressione su di essi esercitata, e il fatto che essi stessi si precludano la possibilità di valutare oggettivamente la letteratura, se non altro sul piano estetico, devono necessariamente dare origine a un’anarchia di opinioni, a una lotta di tutti contro tutti, a un caos ideologico la cui causa prima — non lo si ripeterà mai abbastanza – è il generalizzarsi della corruzione capitalistica nella gran massa degli scrittori e dei critici.

Come è possibile, in tali circostanze sociali e ideologiche, che i rapporti tra scrittore e critico siano rapporti normali? Entrambi considereranno i membri dell’altro campo (salvo qualche eccezione motivata da ragioni personali) come avversari da non tenere in nessun conto. Per lo scrittore una critica «buona» è, in generale, quella che lo loda oppure stronca i suoi rivali, mentre è «cattiva» quella che lo biasima oppure è favorevole ai suoi rivali. Per il critico la gran massa della produzione letteraria diventa un fastidioso penso quotidiano che egli deve sorbirsi a gran fatica. Il disorientamento teorico; la pressione politica e commerciale dei finanziatori capitalistici; l’adagiarsi nella routine e la caccia alle sensazioni; l’implacabile concorrenza che minaccia quotidianamente ognuno di rovina economica e morale: tutto ciò conduce alla formazione di consorterie prive di principi, il cui livello estetico e morale è, per lo più a buon diritto, considerato assai basso da tutti – quando si tratta degli altri. (Le poche eccezioni, sia tra gli scrittori che tra i critici, non possono modificare questo quadro generale). Come si presentano dunque i rapporti reciproci tra scrittori e critici nell’attuale mondo capitalistico? Heine, senza pensare precisamente a scrittori e critici, li ha definiti, con intuizione profetica, molto tempo fa:

Selten habt ihr mich verstanden,
Selten auch verstand ich euch,
Nur wenn wir im Kot uns fanden,
Da verstanden wir uns gleich. [1]

III.

Consideriamo ora il tipo dello scrittore di vaglia quale appare prima dell’incontrastato dominio della divisione capitalistica del lavoro. La prima cosa che salta agli occhi è che la stragrande maggioranza di quegli scrittori occupa al contempo un posto importante nella storia dell’estetica e della critica. Per il momento non vogliamo parlare di casi notori come Diderot o Lessing, Goethe o Schiller, Puškin o Gor’kij.

Pensiamo invece a grandi poeti che non hanno mai fatto della critica in senso stretto. Ma che cosa sono, ad esempio, i colloqui di Amleto con i commedianti e il successivo monologo su Ecuba (salva restando la loro importanza drammatica e poetica) se non un contributo estremamente profondo, di una portata teorica fondamentale, all’estetica del dramma? Anzi, nella loro generale formulazione, un contributo allo studio dei rapporti tra arte e realtà? E possiamo rifarci ancor pili indietro nella storia: la scena della disputa tra Eschilo ed Euripide nelle Rane di Aristofane non contiene forse (sempre salvo restando il suo immediato effetto di comicità) una sagace analisi di tutte le cause sociali, morali ed estetiche dell’autodissoluzione della tragedia greca, della fine dell’epoca tragica?

Siffatti esempi di critica letteraria configurata poeticamente si potrebbero moltiplicare a piacere. Dai colloqui del Wilhelm Meister goethiano intorno all’Amleto passando per Balzac e giungendo fino a Tolstoj e a Gor’kij, è un’interrotta catena di tali vette di unità organica tra efficacia letteraria e profondità teorica. Su di ciò non si insisterà mai abbastanza, ove si voglia veramente comprendere il «vecchio» tipo di scrittore. La grandezza poetica di questi giganti della letteratura dipende strettamente dall’elevatezza della loro concezione del mondo. È soltanto perché meditarono a fondo e in modo indipendente tutti i grandi problemi della civiltà del loro tempo, che essi poterono rispecchiare integralmente la realtà e comprendere e raffigurare la propria epoca in tutti i suoi aspetti.

Da questo punto di vista, un originale e profondo ripensamento dei problemi letterari e artistici è solo una parte di questa comprensione integrale della realtà, un indispensabile presupposto della sua verace e adeguata riproduzione. L’impoverimento della vita vissuta riscontrabile negli scrittori posteriori, sottoposti alla divisione del lavoro, e il conseguente esaurirsi e immeschinirsi del travaglio speculativo e della vasta, direttamente conquistata, concezione del mondo di una volta, si manifestano direttamente nel livello artistico dei personaggi letterari. Paul Lafargue ha sottolineato questa tendenza in un confronto tra Balzac e Zola; e occorre tener presente che Zola, sia come pensatore che come scrittore, è un colosso rispetto alla maggioranza dei suoi successori dell’epoca imperialistica. Letteratura e arte sono fenomeni sociali estremamente importanti, e come tali furono indagate, nel loro mutuo rapporto con l’esistenza sociale e morale dell’uomo, dai grandi scrittori del passato. L’approfondimento di tali conoscenze è una delle basi indispensabili a una vasta raffigurazione dell’uomo, ed esse, nella letteratura del passato, non vengono mai acquisite ad hoc. L’uso per cui uno scrittore si mette a studiare un campo determinato perché ha bisogno di questo tipo di conoscenze per l’opera che si accinge a scrivere, è una «conquista» dei tempi nostri. Lo scrittore del passato attingeva la sua materia dal vasto serbatoio d’esperienze che offre una ricca vita; studi preliminari in vista di determinate opere servivano soltanto all’aggiunta di particolari.

Ma ciò significa che l’orientamento, e quindi il contenuto e l’estensione delle conoscenze acquisite, erano fondamentalmente diversi. L’interesse degli scrittori del passato si concentrava sull’indagine degli oggetti stessi; donde la propensione all’ampiezza, vastità e profondità delle conoscenze. Mentre scrittori che si orientano verso un dato campo del sapere per scriverci subito sopra, e i cui interessi si rivolgono solo a quei momenti che stanno in rapporto immediato col soggetto che si sono prefissi, già per questo sono indotti ad accontentarsi di conoscenze unilaterali, incomplete e superficiali.

Nelle considerazioni svolte finora, non abbiamo ancora posto l’accento sulla letteratura in quanto oggetto particolare dell’impulso di ricerca degli scrittori del passato. Ciò che abbiamo constatato in essi è l’elevatezza del livello generale della loro concezione del mondo. Ma dovevamo cominciare di qui, perché proprio questo punto rivela chiaramente come la conoscenza seria e oggettiva dei problemi estetici da parte dei grandi scrittori sia necessariamente e organicamente collegata alla vastità di respiro dell’opera loro. Personaggi quali Amleto o Wilhelm Meister possono attingere un’autentica universalità e profondità poetica, solo perché i loro creatori dominano essi stessi completamente tutti i problemi che li agitano e sono in grado di delineare con chiari e delicati profili non solo la loro fisionomia biologica, fisiologica, sociale e morale, ma anche la loro fisionomia intellettuale. Descrivendo Frenhofer o Gambara, Balzac padroneggia i problemi dell’arte cosi a fondo come padroneggia quelli della finanza parlando dei Gobseck o dei Nucingen. Per il contenuto delle opere, per il rilievo dei personaggi, l’unione del grande scrittore e del grande critico nella stessa persona è dunque soltanto un problema parziale: un momento parziale dell’alto livello della concezione generale del mondo.

Questo rapporto si ripercuote tuttavia anche in tutti gli aspetti dell’attività critica in senso stretto, come la ritroviamo nelle opere di Diderot o di Lessing, di Goethe o di Schiller. Anche qui, ciò che colpisce è anzitutto il fondamento universalistico e l’appassionata aspirazione all’oggettività. Sul primo non abbiamo bisogno di insistere. Diderot e Schiller furono pensatori che hanno avuto una parte importante nella storia della filosofia; la parte svolta da Goethe come predecessore di Darwin e da Lessing come predecessore della moderna critica scientifica della Bibbia, è pure nota. Questi grandi scrittori-critici non furono mai, in nessun momento della loro vita, puri specialisti della letteratura. Questa era sempre, ai loro occhi, in relazione con tutti i problemi decisivi della vita sociale e della civiltà della loro epoca. È da questo quadro che essi ricavavano l’impostazione da dare ai particolari problemi estetici che li interessavano, mirando sempre a indagare l’essenza dell’arte e dei suoi momenti particolari, concreti, specifici, nel contesto delle questioni più urgenti e più decisive in cui era impegnata in quel momento la vita sociale e culturale del loro popolo.

Più difficile a intendere è, per la mentalità odierna, l’aspirazione all’oggettività. Per cogliere tutta la risolutezza e la portata di tale aspirazione sarà forse utile soffermarsi dapprima sui rappresentanti di questo tipo che non hanno scritto critiche in senso stretto e le cui notazioni su argomenti letterari sono scaturite dall’intento di difendere la propria opera e di chiarire di fronte a se stessi il proprio modo di scrivere. Possiamo considerare da questo punto di vista le prefazioni e i trattati di Corneille, Racine o Alfieri, oppure il manifesto di Manzoni contro la tragédie classique, le osservazioni sparse nei romanzi di Fielding, i pensieri di Puškin, o anche – per parlare di scrittori dell’epoca di trapasso – i diari di Hebbel, le lettere di Gottfried Keller e gli studi epici e drammatici di Otto Ludwig.

Lo spunto è, naturalmente, sempre l’opera propria; il che è comprensibile ed è anche una fortuna, perché l’estrema dimestichezza coi problemi più intimi dell’attività letteraria conferisce a queste considerazioni una ricchezza di impostazioni e soluzioni concrete che non avrebbe potuto esser raggiunta su altra base. Ma la propria attività creativa è soltanto il punto di partenza, un ampio fondamento di esperienze e conoscenze artistiche. Eppure tutti questi scritti (per quanto diversi tra loro, per quanto in violenta polemica l’uno contro l’altro) si orientano sempre nel senso dell’oggettività. Diverso è il loro contenuto, diversa la tendenza ideologica, diverso il metodo, ma in essi si chiede sempre: nel mio travaglio d’artista, che cosa c’è di oggettivamente valido? Come può, ciò che desidero intensamente raggiungere in quanto scrittore, inserirsi nel mondo oggettivo delle norme che reggono le forme artistiche? Come posso conciliare la mia soggettività, la mia individualità di scrittore, con le istanze oggettive dell’arte e con le correnti sociali oggettive che vivono sotterranee nel popolo e chiedono di essere espresse?

Questa tendenza verso l’oggettività, imbevuta della linfa di una vita e di un’arte ricche di esperienze, distingue nettamente l’attività critica dei più notevoli scrittori a seconda che non sono ancora o sono già succubi della divisione capitalistica del lavoro. Sia Manzoni che Flaubert (per nominare colui che è il pensatore più profondo e lo scrittore più importante del nuovo indirizzo) prendono le mosse dalle questioni specifiche inerenti alla loro attività letteraria. Per entrambi si tratta di comprendere quali sono i problemi particolari che la nuova situazione mondiale, in cui essi vivono e operano, pone alla loro attività creativa; e come, individualmente, essi possano prepararsi a risolverli adeguatamente col pensiero e con la creazione letteraria.

Ma in Manzoni, da questa impostazione soggettiva, che rampolla immediatamente dalle difficoltà individuali incontrate nella propria attività, si passa subito al grande problema oggettivo, che è il seguente: le esigenze ideologiche del periodo posteriore alla Rivoluzione francese e a Napoleone hanno ridestato il senso della storia, hanno suscitato un impulso ad accogliere nella letteratura elementi storici; l’aspirazione del popolo italiano all’unità nazionale, sorta impetuosa in quest’epoca, esige che il dramma configuri le grandi e tragiche svolte cruciali del passato della nazione, per comprendere nella loro dialettica le più profonde cause sociali ed umane del particolarismo statale, nonché per attingere dai tragici insegnamenti del passato la lucidità e la forza onde combattere per l’avvenire d’Italia.

Ora Manzoni avverte che la forma drammatica che si è andata sviluppando nei popoli neolatini, da Corneille fino all’Alfieri, è troppo schematica e astratta per poter degnamente configurare questo nuovo spirito storicistico in autentiche vicende umane. Perciò egli dichiara guerra alle teorie della tragédie classique. Il problema formale scaturisce, come abbiamo visto, dal travaglio individuale di Manzoni, ma assume nel corso delle sue indagini un significato oggettivo sia sul piano sociale che su quello estetico. Poiché è chiaro che la critica che egli muove ai personaggi, all’intreccio e all’elemento storico della tragédie classique ha lo scopo di vagliare i risultati da questa ottenuti alla stregua dell’ideale oggettivo di una tragedia vasta, profonda, popolare, che inciti a sentimenti patriottici.

Le riflessioni estetiche di Flaubert prendono una direzione completamente opposta. Esse sono confessioni soggettive, tragiche e profonde sia esteticamente che socialmente, intorno alla lotta di un notevole scrittore alle prese con una società – la società capitalistica – che è sfavorevole all’arte; intorno alla bruttezza estetica e morale della vita borghese; intorno al necessario isolamento dell’artista indipendente e onesto in seno al capitalismo trionfante. Non vogliamo neanche lontanamente sottovalutare l’importanza di queste confessioni. Se si vuol realmente comprendere la problematica sociale, psicologica, morale ed estetica dell’artista moderno, non si può trovare testimonianza migliore di queste confessioni epistolari di Flaubert. Le quali ridondano altresì di osservazioni e notazioni finissime su singoli momenti del processo creativo, sulle difficoltà di certi problemi di tecnica della composizione, sul linguaggio, sul ritmo della prosa, sulle immagini, sullo stile di singoli scrittori. Ma l’indirizzo e il metodo restano tuttavia fondamentalmente soggettivistici, e nel modo più appariscente proprio là dove Flaubert tocca le grandi questioni oggettive che determinano la sua attività creativa. Da un punto di vista sociale, le sue confessioni rimangono allo stadio di lamenti amaramente ironici sulla solitudine dello scrittore nel capitalismo moderno: lamenti che possono innalzarsi soltanto al livello di intelligenti paradossi anarchici. E ogni attento lettore di queste lettere cosi dense e interessanti deve esser colpito dal fatto che non vi si trova una sola riflessione estetica che giunga a toccare le questioni fondamentali della letteratura. Quali modificazioni subiscono la trama, i personaggi, la struttura e il contenuto del romanzo moderno, nella lotta con l’inclemenza della nuova materia vitale e delle nuove possibilità d’azione? Quali problemi ne derivano per l’arte narrativa? E i tentativi di soluzione cui ricorre Flaubert, come modificano i canoni della narrativa precedente? E fino a che punto restano tentativi soggettivi o tracciano nuovi indirizzi oggettivi per l’arte narrativa? Nelle lettere di Flaubert non troviamo nessuna risposta a tutti questi interrogativi; anzi, nemmeno il tentativo di impostare chiaramente la risposta. È sintomatico che la pubblicazione di Salammbô abbia provocato una polemica tra Flaubert e Sainte-Beuve, in cui il critico, che non era certo particolarmente profondo nelle questioni fondamentali dell’estetica, impostò i problemi del romanzo storico molto più a fondo del grande romanziere, la cui risposta si esaurì in osservazioni di «mestiere», tecniche e soggettivistiche.

Anche lo spunto dello studio schilleriano Poesia ingenua e poesia sentimentale è soggettivo, anzi biografico. Nella storia della letteratura tedesca ricorre sempre questo luogo comune: la contrapposizione dei due tipi trova le sue radici nel contrasto tra le personalità poetiche di Schiller e di Goethe, e Schiller ha scritto questo saggio apposta per dare una legittimazione teorica del suo modo di scrivere accanto a quello, cosi diverso, di Goethe. Ma dove conduce questa impostazione, che nasce dalle profondità più intime della personalità di Schiller? Essa si risolve in una teoria dell’essenza dell’arte moderna in contrasto con l’antica: teoria che riesce a definire in termini estetici le differenze più importanti che distinguono, nelle questioni stilistiche decisive, l’arte moderna dall’antica; e riesce anche a qualche cosa di più: a spiegare questi contrasti estetici con il contrasto tra la società antica e la moderna e col divario, che ne consegue, tra l’atteggiamento assunto dall’uomo antico e da quello moderno verso i propri problemi vitali. Lo spunto di Schiller era dunque un quesito concernente la sua vita personale, mentre la risposta a questo quesito fu un compendio di filosofia della storia dell’arte che diede una nuova piega all’estetica e precorse la grande impresa storico-sistematica di Hegel.

È caratteristica, nelle opere critiche di questi grandi scrittori – per diverse che possano essere l’una dall’altra -, questa intima unione, sia dell’impulso sociale verso l’arte con i più alti problemi formali, sia della concretezza in tutte le questioni artistiche particolari con le norme universali della forma letteraria. Non può perciò destar meraviglia che la maggior parte delle riflessioni critiche di tali critici-scrittori si aggiri intorno ai problemi dei generi letterari. La teoria dei generi è infatti in qualche modo una zona intermedia – e al contempo una zona di mediazione concettuale – tra le formulazioni filosofiche generali dei problemi ultimi dell’estetica e gli sforzi soggettivi degli scrittori per giungere a dar forma perfetta alle loro singole opere. La teoria dei generi è la zona dell’oggettività, dei criteri oggettivi per le opere singole e per il processo creativo individuale di ogni singolo scrittore.

Perciò è tanto significativo l’atteggiamento assunto verso questo complesso di problemi dallo scrittore che medita sulla propria arte. La capitolazione ideologica di fronte all’avversione del capitalismo per l’arte si rispecchia nel nichilismo nella questione dei generi. Il caos della vita nei fenomeni superficiali del capitalismo; la feticizzazione delle relazioni umane; la scomparsa dell’influsso determinante esercitato dalla recettività sociale sulle forme della produzione letteraria: tutte tendenze contro cui la maggioranza degli scrittori moderni ha cessato di battersi; che accetta anzi (magari digrignando i denti) cosi come immediatamente si presentano. Alcuni giungono fino a considerare certi nuovi aspetti dell’aggravamento della barbarie nella vita capitalistica come

«stimoli originali» che possono servire di base a un’arte «radicalmente nuova». Cosi facendo essi precipitano, chi consapevolmente e chi meno, la dissoluzione delle forme letterarie e la confusione dei generi.

Si rivela qui chiaramente come il moderno scrittore borghese sia estraneo al popolo e disprezzi il lettore che ne fa parte. Anche qui i due comportamenti estremi sono, dal punto di vista sociale, in stretta dipendenza reciproca. Difatti, o lo scrittore non si dà pensiero dell’espressione artistica dei suoi contenuti e conta soltanto sull’effetto di questi, speculando magari sulla possibilità di suscitare le più basse sensazioni; oppure concentra la sua attenzione sulle minime sfumature stilistiche, sulle innovazioni tecniche. In entrambi questi atteggiamenti, che sembrano a prima vista diametralmente opposti, si manifesta lo stesso nichilismo sociale ed artistico di fronte al discernimento estetico del popolo. Questo nichilismo si presenta naturalmente nelle più varie guise: da un ascetismo letterario fanatico e predicatorio si passa alle più ciniche speculazioni per arrivare allo scetticismo dell’esteta, che non accorda nemmeno ai cosiddetti competenti (per non parlare del popolo) la capacità di intendere i raffinatissimi prodotti distillati nel suo laboratorio.

In netta antitesi a tutto questo, l’estrema attenzione dedicata dai grandi critici-scrittori ai problemi concernenti i generi letterari presuppone la fiducia nella durevole efficacia che la grande arte può esercitare sul popolo. Ne consegue il rispetto per il lettore intelligente, contemporaneo o postero, nonché lo sforzo di trovare per ogni soggetto la forma che meglio gli si adegua.

Ma con ciò il fondamento ideologico e il significato estetico della questione dei generi sono ancor lungi dall’essere esauriti. Infatti, la ricerca di un’espressione adeguata può arrestarsi all’elaborazione dei particolari stilistici, cosi come può procedere alla chiarificazione delle grandi questioni fondamentali attinenti all’arte e al rapporto tra arte e vita. Questo è ciò che accade nei critici-scrittori classici. Essi comprendono che le varie forme d’espressione letteraria non sono affatto casuali o arbitrarie. Anzi, in tali forme si esprimono durevoli e ben determinate relazioni umane: durevoli situazioni della vita umana. Indagando le leggi di tali relazioni e situazioni ed esaminando come tutti i loro contenuti possano pienamente dispiegarsi, i grandi critici-scrittori vengono sospinti, lungo le direzioni più svariate – che però si incontrano tutte nella connessione tra arte e vita -verso il problema dell’oggettività.

Ciò che si oggettivizza è, anzitutto, il soggetto stesso tratto dalla vita. Lo scrittore profondo non lo prende semplicemente cosi come glielo fornisce immediatamente l’esperienza, la realtà. Egli esamina invece il contenuto oggettivo inerente a questa esperienza, a questa fetta di realtà, e le indagini ulteriori mirano quindi a trovare un intreccio in cui possano pienamente esplicarsi tutte le possibilità insite in quel particolare contenuto. Queste indagini vanno a urtare nelle norme dei generi letterari. Poiché un’approfondita riflessione estetica mostra che tra certi contenuti e certi generi vige un’attrazione o una repulsione reciproca; cosi la forma drammatica può portare a piena maturazione un dato contenuto, mentre per un altro costituisce un freno al suo libero sviluppo. Né si tratta di un caso, poiché lo studio delle leggi dei generi letterari non conduce all’oggettività soltanto in senso estetico (rivelando cioè quei rapporti tra contenuto e forma che determinano il successo o il fallimento, indipendentemente dalla coscienza dell’artista), ma anche in senso umano e sociale: quanto più profondamente si scava, tanto più nitide si profilano le premesse umane e sociali dei singoli generi letterari.

L’astrattezza di tali indagini è soltanto un’apparenza, eretta a preconcetto dal culto dell’immediatezza soggettivistica, oggi di moda. Proprio da queste indagini apparentemente astratte prende rilievo l’elemento storico concreto, l’«istanza del giorno» (Goethe). Si pensi al problema centrale della Drammaturgia amburghese. È universalmente noto che il fine ultimo delle battaglie estetiche di Lessing era il raggiungimento, per vie democratiche, dell’unità nazionale della Germania, e quindi la distruzione dell’ideologia assolutistica degli staterelli semifeudali. La spietata critica della tragédie classique; la corretta interpretazione della dottrina aristotelica contrapposta alle deformazioni che ne avevano dato i francesi del Sei e del Settecento; l’esaltazione dei Greci, di Shakespeare e di Diderot: tutto ciò era al servizio di quell’intento fondamentale.

Ma sul cammino che portava alla sua realizzazione Lessing andò scoprendo i più importanti canoni del dramma. L’arma principale di questa battaglia fu l’indagine della verità estetica oggettiva. E Lessing, il critico-poeta che, in quanto scrittore, muoveva alla ricerca di un dramma borghese che esprimesse i problemi tragici e comici della vita borghese con la stessa grandezza drammatica con cui Sofocle e Shakespeare avevano raffigurato le società del passato, e che salutava entusiasticamente i tentativi di Diderot, pur vedendo chiaro nella loro problematica drammatica: il critico-poeta Lessing, andando in cerca del punto d’intersezione di tutti questi tentativi teorici e pratici, pervenne al riconoscimento della profonda unità della tragedia come genere letterario, al di là di tutte le differenze, storicamente e socialmente necessarie, tra le sue varie forme. Il riconoscimento del fatto che la forma poetica centrale è sostanzialmente la stessa in Sofocle e in Shakespeare, costituisce una di quelle verità estetiche fondamentali di cui siamo debitori ai grandi critici-scrittori. È una constatazione altrettanto giusta e profonda quanto quella, fatta da Schiller, della differenza tra arte antica e moderna. Vediamo dunque che tutti questi quesiti e queste soluzioni nascono dai bisogni della prassi individuale degli scrittori, ma possono soddisfare questi bisogni solo a patto di uscire dal puro elemento individuale e soggettivo per cogliere l’oggettività dell’arte, sia in quanto arte, sia in quanto elemento di vita sociale. Si rivela qui come la capacità d’innalzarsi al di sopra della soggettività derivi proprio dalla robustezza e dall’intima ricchezza della personalità dello scrittore. L’odierna abitudine di sopravvalutare e di esagerare l’importanza della soggettività creatrice corrisponde invece alla debolezza, alla povertà dell’individualità degli scrittori: quanto più questi si distinguono solo mediante «peculiarità» puramente spontanee (quasi fisiologico-psicologi-che) oppure faticosamente coltivate in serra; quanto più il basso livello della concezione del mondo determina il pericolo che ogni tentativo di oltrepassare l’immediatezza soggettiva livelli completamente le «personalità»; e tanto maggiore è il peso che si ascrive alla pura soggettività immediata, che talvolta viene addirittura identificata col talento letterario.

Personalità, ingegno, erano – per i critici-scrittori -cose ovvie, su cui era superfluo spender parole, che la loro assenza poteva essere soltanto oggetto di scherno. Degno d’esame sembrava loro unicamente ciò che nasce dalla personalità e dall’ingegno attraverso un severo travaglio impegnato nei problemi dell’oggettività. Ciò che oggi si usa chiamare individualità letteraria, Goethe designava col termine «maniera», intendendo con esso quei connotati sempre ricorrenti e chiaramente discernibili di un’individualità, in cui sono bensì spesso latenti elementi di ingegno genuino, ma che non è ancora giunta al punto di permeare efficacemente l’oggetto, cosi che le sue tracce restano appiccicate all’opera solo in forma di caratteristiche esteriori. Il trapasso dell’individualità creatrice all’arte, alla vera rappresentazione letteraria, Goethe designava col termine «stile». È il momento in cui l’opera si distacca dalla mera soggettività del suo creatore e la realtà in essa configurata acquista una vita autonoma: in cui questa individualità puramente istintiva si discioglie nell’oggettività normativa dell’arte vera. E Goethe sapeva che l’apparente paradosso che qui si presenta è una vivente contraddizione dell’arte: solo mediante questo superamento della soggettività istintiva (e ancor più di quella artificialmente coltivata) può manifestarsi in modo adeguato la vera personalità dell’artista, sia come uomo, sia come artista.

IV.

Accanto a questa figura del critico-scrittore, la storia dell’estetica conosce solo un altro tipo che sia stato realmente fecondo e abbia prodotto novità reali: il critico filosofico.

Se vogliamo rettamente intendere questo tipo, dobbiamo allontanarci dalla realtà borghese degli ultimi decenni e metter da parte i suoi pregiudizi, non meno di quanto abbiamo fatto nell’esaminare il critico-scrittore. Nel capitalismo in declino anche il filosofo è diventato uno «specialista» sottoposto alla divisione del lavoro; per lo più specializzato in gnoseologia, altrimenti in logica, storia della filosofia, etica, estetica, o comunque si chiamino le parti della filosofia rigorosamente circoscritte e divenute campi di studio affatto indipendenti. Le nostre ricerche non si indirizzano certo verso questo tipo di filosofo. Nessun uomo dotato di discernimento andrà a pensare che un Husserl o un Rickert (anche se si chiama Dessoir ed è «specialista» di estetica) possa significare qualcosa per la teoria dell’arte. Se si vuol capire che cosa è un vero filosofo, bisogna risalire all’epoca che precede la subordinazione della cultura all’economia di mercato e alla divisione capitalistica del lavoro.

E allora ci si accorge che anche i veri filosofi furono sempre distantissimi da quella tepida e vile indifferenza di fronte ai problemi politici e sociali dell’epoca che è all’ordine del giorno tra i professori «specializzati»; e distantissimi anche dall’idoleggiamento apologetico delle correnti reazionarie del loro tempo. (Dietro l’apparente apartiticità, determinata da ragioni di tempo e di classe, propria di certi grandi filosofi come Epicuro e Spinoza, è facilmente individuabile la vera posizione universalistica nei confronti di tutti i problemi dell’epoca loro). Il critico filosofico è sempre al contempo un profondo conoscitore dei problemi sociali, ed è spesso pubblicista e uomo politico.

Non occorre pensare soltanto a Belinskij. Černyševskij e Dobroljubov per riconoscere questo tipo nei grandi pensatori cui la critica letteraria è debitrice di contributi essenziali. Entrambi i sommi pensatori della cultura presocialista, Aristotele ed Hegel, sono dei teorici sia della società che dell’estetica. L’importanza decisiva della loro opera speculativa nel campo dell’estetica dipende strettamente dalla loro universalità, che abbracciava la problematica della società, da essa prendendo le mosse, in essa sfociando.

Già i nomi finora citati indicano che tra i teorici dell’arte veramente fecondi possiamo individuare solo nei casi estremi la presenza dei due tipi puri (critico-scrittore e critico-filosofo); già l’universalità riscontrata in entrambi i tipi rende possibile e inevitabile un’intera serie di momenti intermedi, senza soluzione di continuità. Certo, se consideriamo Aristotele o Hegel da una parte, Puškin dall’altra, allora la contrapposizione dei due tipi emerge in piena luce. Ma stabiliamo invece una lista in quest’ordine: Platone – Shaftesbury – Herder – Černyševskij – Diderot – Lessing – Schiller – Goethe; e vediamo che è difficile precisare dove cominci uno dei due tipi e dove finisca l’altro. Il tentativo di operare una distinzione integrale e assoluta sarebbe una sofisticheria metafisica.

Ciò nonostante, sussistono tra un tipo e l’altro importanti distinzioni oggettive, dovute al diverso cammino e al diverso metodo con cui ciascuno dei due si accosta ai fenomeni. Il critico-scrittore, per vasti che siano i suoi interessi umani e sociali, per profondo e originale che sia il suo pensiero teorico, accosterà i problemi generali dell’estetica partendo dalle questioni concrete della propria attività creativa; e nel trarre le conclusioni – anche se esse si fonderanno su tutta la problematica del tempo e dell’arte contemporanea – alla propria attività creativa ritornerà: non senza però aver innalzato, come abbiamo visto, le proprie difficoltà e i propri travagli soggettivi al livello di un’oggettività storica, sociale ed estetica. Per il critico-filosofo è questa oggettività — che comprende anche la partiticità – il punto di partenza. Per lui l’arte si trova sempre in un rapporto sistematico (storico-sistematico nei pensatori dell’ultima fioritura filosofica) con tutti gli altri fenomeni del reale. E poiché l’arte è un prodotto dell’attività sociale dell’uomo e i grandi pensatori hanno sempre rivolto le loro indagini in prima linea ai fatti sociali, essa viene collocata sin da principio nel quadro di questa sua origine ed azione sociale. Il pensiero estetico di Platone e di Aristotele dà una chiara immagine del mondo in cui un grande filosofo affronta i problemi dell’arte.

Ma se si vuole esattamente comprendere la reale differenza (e la reale connessione) tra il critico-filosofo e il critico-scrittore, occorre scartare a priori tutte le astratte categorie metafisiche in uso nella moderna filosofia borghese. Non è quindi lecito – per scegliere un esempio che viene qui spontaneo – rappresentarsi questa differenza come se il filosofo assumesse un atteggiamento «deduttivo» o «analitico» e lo scrittore un atteggiamento «induttivo» o «sintetico» di fronte al proprio oggetto. In realtà, non c’è nessuna seria riflessione intorno a un oggetto qualsiasi che non sia tanto analitica quanto sintetica, e ciò naturalmente in egual misura nel poeta e nel filosofo.

Si tratta in entrambi i casi dell’indagine del rapporto, oggettivamente sussistente, tra arte e realtà (soprattutto realtà sociale). Questo rapporto è il punto di partenza e il traguardo di entrambi i tipi di critica feconda – cosi come lo è nella realtà stessa. Ma per il critico-scrittore questo rapporto è un dato a priori; è la vita stessa nell’infinita e inesausta complessità della sua ricchezza di fenomeni e determinazioni. La sua aspirazione, che è in prima linea letteraria, è quella di configurare questa inesauribilità, nel suo ordine sociale e nella sua contraddittoria mobilità, nel microcosmo delle singole opere d’arte. La tendenza della sua teoria è appunto perciò (se cosi si può dire) intensivo-microcosmica: le leggi generali della realtà intera (dell’intero sviluppo storico) formano solo l’orizzonte, spesso vago e incerto, che fa da sfondo alla «zona intermedia» (questa, invece, chiaramente percepita) dei generi letterari. La giusta intuizione di tali leggi generali, che poggia su una ricca esperienza vissuta e su un profondo ripensamento dei più importanti problemi della vita, è qui la premessa, il fondamento, lo strumento, ma non la meta e l’oggetto della conoscenza stessa. Nel critico filosofico si verifica l’inverso. Il suo impulso conoscitivo è rivolto alla totalità dei fenomeni, alle leggi universali che li regolano. Ma dato che la vera conoscenza universale è sempre concreta e non mai astratta – per astratta che sia la terminologia con cui la si enuncia, come accade in Hegel —, il suo ripensamento porta necessariamente all’analisi concreta delle «zone intermedie» e perfino dei fenomeni singoli. Solo che questi non sono mai concepiti come microcosmi in sé conchiusi, bensì come parti o momenti dello sviluppo generale.

Si tratta dunque di due indirizzi di pensiero che finiscono per completarsi a vicenda: la relativa autonomia delle «zone intermedie» e delle opere singole è per l’arte un fatto fondamentale della realtà non meno della loro dipendenza col tutto. Anche qui, e soprattutto qui, l’infinità oggettiva della vita si lascia esaurire solo approssimativamente dalla conoscenza umana. Ogni fenomeno è, come ben dice Hegel, un’unità dell’unità e della diversità. E poiché i due grandi tipi di critici affrontano questa inesauribile ricchezza da due lati diversi – dal lato dell’unità o dal lato della diversità -, ma uno cerca di scrutare l’unità nella diversità e l’altro la diversità nell’unità, dalla loro feconda interazione scaturisce il vero approfondimento della conoscenza dell’arte: cioè quella teoria dell’arte che promuove e facilita il progredire dell’arte stessa. Tale è il rapporto normale tra scrittore e critico.

Goethe e Hegel, due grandi rappresentanti di questi due tipi che si integrano reciprocamente, hanno chiaramente inteso questa loro necessaria funzione complementare. Goethe ha indicato a più riprese quale sia l’impulso dato dai grandi filosofi, da Kant a Hegel, alla sua produzione scientifica e letteraria. Hegel, per parte sua, mostra la massima stima per i contributi teorici di Goethe e dà un accurato e amoroso apprezzamento del loro particolare carattere metodologico, che rampolla organicamente dall’attività poetica di Goethe. Tale carattere si manifesta in tutta la produzione teorica goethiana e ha ricevuto la migliore precisazione nella categoria del «fenomeno archetipo» (Urphänomen). Con questa espressione Goethe intendeva la tangibile presenza di un universale concreto nel fenomeno stesso, cioè un fenomeno afferrato mediante un’astrazione concettuale – che tuttavia non si distacca mai radicalmente dal particolare – e spogliato di ogni accidentalità. Nel linguaggio della dialettica idealistica allora imperante si direbbe: il modello ideale della particolarità del fenomeno.

Goethe si serve dell’espressione «fenomeno archetipo» soprattutto nei suoi scritti di filosofia della natura. In una notazione autobiografica a proposito di questi scritti, egli rileva tuttavia che le Elegie romane, il saggio di estetica Semplice imitazione della natura, maniera e stile e la Metamorfosi delle piante sono stati concepiti contemporaneamente e coi medesimi intenti: tutti e tre questi scritti «mostrano che cosa accadeva nel mio intimo e quale posizione avevo assunto nei confronti di quelle tre grandi regioni cosmiche» (arte, estetica e scienze naturali). Si è dunque autorizzati a scorgere nel «fenomeno archetipo» un’affinità metodologica con la teoria goethiana dei generi letterari.

Questo metodo, che domina tutta la produzione teorico-estetica di Goethe e culmina sempre necessariamente nella teoria dei generi, risulta particolarmente evidente nel saggio, breve ma straordinariamente denso, Sulla poesia epica e drammatica. Il quale è la sintesi di una lunga discussione, epistolare e orale, tra Goethe e Schiller su vari problemi concreti dell’attività di entrambi; il dibattito si innalzò, come sempre nei grandi scrittori del passato, a indagare le norme oggettive del genere epico e drammatico.

Qui vogliamo esaminare soltanto la metodologia di Goethe. Per distinguere l’epica e la drammatica in modo concettualmente chiaro e al contempo artisticamente concreto; per non trascurare, nonostante la nettezza della distinzione, i momenti comuni ad entrambi questi generi universali, abbraccianti la totalità del processo, Goethe prende l’avvio dalle figure del mimo e del rapsodo. Identificando in esse, con esatta e feconda astrazione, il dicitore o esecutore con l’autore, egli definisce il tipo dell’atteggiamento epico e dell’atteggiamento drammatico verso la realtà e verso il contenuto rappresentato, nonché le reazioni tipiche dell’ascoltatore di fronte alla dizione epica e all’esecuzione drammatica. Una volta fissati con chiarezza questi comportamenti tipici, normativi, se ne possono facilmente dedurre le leggi dell’epica e della drammatica.

Esistono in realtà questi mimi e rapsodi goethiani? Si e no. Goethe ha desunto dalla realtà ogni singola pennellata del suo quadro, ma l’insieme che ne risulta va assai oltre ogni realtà empirica, principalmente perché ogni lineamento illustra con evidenza immediata un rapporto normativo, un elemento della situazione, e nulla, nell’intero quadro, rimane soltanto individuale o accidentale. Questo mimo e questo rapsodo sono altrettanto reali e irreali quanto la «pianta-archetipo» di Goethe. Nella teoria dei generi Goethe opera col «fenomeno archetipo» cosi come – nel campo delle scienze naturali -nella sua teoria dell’evoluzione.

Questa unità di metodo non contraddistingue soltanto Goethe, ma esprime plasticamente l’essenza del modo di accostare tutti i problemi della vita proprio degli artisti e degli scrittori. Sotto questo aspetto, Goethe è lo scrittore più dotato di coerenza filosofica di tutti i tempi. Proprio tenendosi consapevolmente distante dalle generalizzazioni più astratte, più propriamente filosofiche, e facendo di questa «zona intermedia» dei «fenomeni archetipi» (che caratterizza il critico-scrittore) l’alfa e l’omega del suo pensiero, egli mostra che questo modo di pensare è assai più che un espediente di grandi artisti per orientarsi filosoficamente, assai più che un semplice ausilio per chiarire i presupposti della creazione artistica. È una sistemazione concettuale, importante e feconda, peculiare e autonoma, del mondo dei fenomeni. Col «fenomeno archetipo» Goethe crea il consapevole modello metodologico dell’opera speculativa dei critici-scrittori.

Questa chiarificazione si ripercuote con straordinaria intensità sui grandi pensatori contemporanei a Goethe. È vero che Schiller riduce l’originalità filosofica di Goethe al livello del kantismo, allorché, nel suo primo serio incontro col «fenomeno archetipo», formula cosi la sua opinione in proposito: «Questa non è un’esperienza, ma un’idea» (in senso kantiano). Proprio questa netta contrapposizione tra esperienza e universalità mostra incomprensione per il carattere peculiare del metodo goethiano. Ma nel corso della sua collaborazione con Goethe, Schiller viene ad apprezzare sempre più la fecondità di tale metodo, e le figure dei poeti «elegiaco», «idillico» e «satirico», che si trovano nel saggio Sulla poesia ingenua e sentimentale, sono «fenomeni archetipi» al pari del mimo e del rapsodo di Goethe, anche se Schiller, in quanto pensatore, non riuscì mai a inserire organicamente il «fenomeno archetipo» nella propria filosofia.

Solo Hegel, in cui la dialettica idealistica giunse al suo apogeo, fu in grado di valutare più liberamente ed equamente l’importanza metodologica del Goethe teorico. Egli ravvisa nel metodo goethiano un antecedente, relativamente indipendente ed estremamente importante, della dialettica pienamente sviluppata; vi ravvisa la mobilità, concretata e intimamente contraddittoria, del singolo fenomeno, espressa in una forma sensibilmente evidente ma filosoficamente non ancora dispiegata: ancora in boccio, per così dire. E proprio perciò tale metodo integra efficacemente la dialettica filosofica generale, universale, che è spinta più a fondo, ma perciò appunto più lontana dalla vita e dal sensibile. In una lettera a Goethe Hegel dice del «fenomeno archetipo»: «…in questa penombra, spirituale e intelligibile per la sua semplicità, visibile e tangibile per la sua sensibilità, si salutano i due mondi», cioè la dialettica dell’idealismo assoluto e «l’esistenza fenomenica sensibile». Sappiamo che Goethe si è assai rallegrato di questo consenso, e chi abbia attentamente studiato l’Estetica hegeliana sa quale importanza decisiva abbiano avuto per essa i «fenomeni archetipi» della teoria estetica e della prassi poetica di Goethe.

Inserendosi nel sistema della filosofia, essi subiscono tuttavia un mutamento essenziale. Se, per il critico-scrittore, il momento essenziale, che chiarisce l’elaborazione poetica delle singole impressioni ed esperienze, è la loro autonomia, il fatto che essi incarnano le leggi concrete di un gruppo di fenomeni, il filosofo sottolinea invece sin da principio il rapporto di dipendenza con la totalità della vita. La «zona intermedia» è dunque per entrambi il passaggio dall’esistenza oscura e immediata alla chiarezza della vita. Il divario, il contrasto, la reciproca integrazione, derivano dal fatto che questa ultima chiarificazione, questo ritorno alla vita, possono aver luogo poeticamente o filosoficamente, e la «zona intermedia» può condurre al Faust o alla Fenomenologia dello spirito.

Le «figure» che, trapassando l’una nell’altra, segnano il cammino «dello spirito» in questa prima sintesi della filosofia hegeliana, sono profondamente affini – nel metodo – al mimo e al rapsodo di Goethe. Ma mentre questi rappresentano per il teorico Goethe qualcosa di ultimo, di definitivo, appunto il «fenomeno archetipo», quelle costituiscono per Hegel momenti del processo totale: momenti che devono essere superati e sono superati. Esse appaiono come superamenti storico-filosofici di una «figura» precedente, vivono la loro vita, dispiegando tutta la ricchezza delle determinazioni che vi sono insite, e trapassano quindi nella «figura» susseguente. Le forme epiche e drammatiche prendono parte anch’esse a questa danza di vita e di morte delle «figure». E la sostanziale concordanza della concezione estetica dell’epica e del dramma in Goethe e in Hegel è veramente sorprendente.

Tuttavia i «fenomeni archetipi», le «figure», perdono, nel sistema filosofico, quell’esistenza apparentemente sicura e ben delimitata che possedevano, per le ragioni a noi già note, nel critico-scrittore. Essi emergono davanti ai nostri occhi da una totalità di vita ancora incompresa, e proprio in quanto le loro determinazioni si precisano concettualmente ed essi dispiegano la propria vita e affermano la propria indipendenza, fermezza e delimitatezza, essi sprofondano via via nella totalità della vita, ormai compresa. In questo modo già Aristotele ha delineato la sua teoria del dramma. Nella Fenomenologia dello spirito il quadro di tale interpretazione è quella dello sviluppo storico del genere umano. La necessità e la peculiarità dell’epopea e del dramma e la successione di epos, tragedia e commedia, si rivelano come destino storico del popolo. La struttura esterna ed interna della vita popolare è il motore della vicenda del sorgere e del perire. Il «fenomeno archetipo» ha qui un’origine, una storia, una nascita e una morte.

Con ciò si ha l’impressione di essere giunti al polo opposto del metodo goethiano. Ma è soltanto un’apparenza. Le «figure» hegeliane dell’epos e del dramma conservano e dispiegano le leggi specifiche del loro carattere peculiare non diversamente dal mimo e dal rapsodo di Goethe, ma su un fondamento di vita più vasto, più visibile, più mosso, e quindi – con apparente paradossia — meno astratto. Né il divenire e il perire di tutte le figure dell’essere e della coscienza è un’idea che sia stata estranea a Goethe. I versi del Divano orientale-occidentale:

Und so lang du das nicht hast,
Dieses: Stirb und werde!
Bist du nur ein trüber Gast
Auf der dunkeln Erde. [2]

potrebbero certo fungere da epigrafe alla Fenomenologia dello spirito.

Questo contrasto implica dunque un mutuo completamento. Nel critico filosofico la «zona intermedia» appare nettamente come un semplice momento del processo dialettico. Nel critico-scrittore assume invece una solidità e un’autonomia apparenti. Apparenti, perché essa – senza che venga inficiata la validità del suo contenuto, né la sua fecondità teorica e artistica – si dissolve organicamente, compresa e proseguita in senso filosofico, nella dialettica sistematica, di cui viene a costituire un momento; e, per lo scrittore, essa è effettivamente soltanto una «zona intermedia», per realizzare, nell’opera d’arte stessa, il vero contatto con la vita chiarificata e illuminata.

Il rapporto normale tra lo scrittore e il critico consiste dunque nel loro incontro in questa «zona intermedia»: nel riconoscimento e nella motivazione dell’oggettività della creazione artistica. Da parte dello scrittore, ciò avviene in quanto egli si eleva a cogliere il rapporto oggettivo tra i suoi problemi creativi, di origine necessariamente soggettiva, e le leggi della realtà e il loro rispecchiamento letterario. Da parte dei filosofi, in quanto, negli aspetti normativi dei fenomeni particolari e concreti, essi trovano la conferma della maggiore o minore esattezza con cui hanno individuato i rapporti generali della realtà e delle forme in cui essa si rispecchia. Cosi si incontrano la nuova concezione omerica di Vico e la teoria goethiana dell’epica come genere, o la teoria aristotelica del tragico e i tentativi lessinghiani di elevare ad altezza tragica i conflitti della borghesia rivoluzionaria.

Questo quadro generale è divenuto consapevolmente storicistico con Vico e Hegel, con Belinskij, Černyševskij e Dobroljubov. Nell’Estetica hegeliana la teoria dei generi è già una storia universale dell’arte, e nei grandi critici della rivoluzione democratica il destino storico del popolo russo si rispecchia sempre più chiaramente nelle vicende e nelle crisi della sua letteratura. Questa unità di filosofia (cioè, in concreto: di filosofia dell’arte), di storia letteraria e di critica, deve essere particolarmente sottolineata ove si voglia comprendere il tipo del critico filosofico e le sue relazioni normali con lo scrittore. Poiché la divisione capitalistica del lavoro ha, come abbiamo visto, rescisso l’uno dall’altro questi momenti della trattazione scientifica dell’arte (che sono organicamente connessi e perdono ogni significato una volta separati), trasformandoli in «domini» meccanicamente isolati; e di questi domini si impossessano «specialisti» la cui attività diviene sempre più indipendente da quella degli altri.

Donde la sterilità e la mancanza di principi, a noi già note, che caratterizzano la storiografia letteraria e la critica moderna; donde il loro anormale rapporto con la letteratura. Sia l’una che l’altra operano con semplici giudizi di gusto, che sono in fondo puramente soggettivi. Poiché se qualcuno respinge un’opera d’arte per ragioni astrattamente politiche, soltanto perché, come era solito dire l’ex imperatore di Germania ai suoi bei tempi, «è tutta la tendenza che non gli va a genio», senza documentare anche sul piano estetico la deformazione della realtà e del suo rispecchiamento artistico; colui si è innalzato soltanto nell’immaginazione al di sopra degli scriteriati giudizi di gusto propri dei puri esteti.

Esiste naturalmente, nella storiografia letteraria, anche l’ideale dello «storico puro», il quale nutre l’illusione di studiare e di esporre solo i fatti e le situazioni storiche (senza peraltro appurarne le basi economico-sociali). Non c’è bisogno di soffermarsi a spiegare che un simile «metodo» — con rispetto parlando – non può ingenerare altro che apprezzamenti critici irriflessi, non ripensati e assolutamente sprovvisti di principi direttivi.

Per completare il quadro, occorre aggiungere che questo tipo ha il suo pendant nel critico moderno che è consapevolmente antistorico, e si vanta di esserlo. Secondo lui il «vecchio mondo» dell’arte, che parte da Omero per arrivare, a seconda dei bisogni momentanei, al naturalismo o all’impressionismo, è definitivamente crollato. È sorta un’arte «radicalmente nuova». Dalle caotiche macerie del passato si possono pescar fuori ad arbitrio, come uvette da una torta, pezzi qualsiasi per un qualunque uso momentaneo, e poco importa che si tratti della plastica negra o del dramma barocco tedesco.

Abbiamo già analizzato le ripercussioni di quest’ultimo tipo di critica. Diamo ancora un breve sguardo allo sviluppo della storia letteraria, esemplificando i fatti sulla scorta di quella tedesca. La maggior parte delle sue categorie (ordine d’importanza, periodizzazione ecc.) sono state stabilite dai grandi critici della fine del Settecento e del principio dell’Ottocento, da Herder, Goethe, Schiller, dai fratelli Schlegel, per esser poi debitamente rimpicciolite da storici liberali come Gervinus. Un passo innanzi è costituito dalle concezioni letterarie sviluppate da Heinrich Heine in base alla filosofia hegeliana, ma la loro efficacia è stata scarsa in seguito all’involuzione reazionaria della politica tedesca. Dopo di allora il critico e pubblicista Franz Mehring è stato il solo a introdurre nuovi punti di vista nell’interpretazione della storia della letteratura tedesca.

Gli storici letterari «specializzati» non hanno fatto altro che ripetere all’infinito, con maggiore o minor vigore, idee già molte volte espresse. Poiché non possono essere considerate come nuove idee storico-letterarie, e nemmeno come idee pure e semplici, il raggruppamento degli scrittori secondo l’anno di nascita (R. M. Meyer) o secondo le regioni in cui sono nati (Nadler). Questo tipo particolare di divisione capitalistica del lavoro ha dunque prodotto «specialisti» che non hanno dato alcun apporto nemmeno alla loro scienza specifica. (La filologia pura, l’accertamento dei testi ecc. restano esclusi da tali considerazioni).

Ma c’è di più. Anche là dove la storiografia letteraria tedesca fu avviata su false strade, l’impulso non è partito dai «competenti», sibbene da poeti e filosofi. Chi segua i più recenti sviluppi di questa storiografia, avvertirà che essa è stata influenzata da Nietzsche, Dilthey, Simmel e Stefan George. I moduli teorici forniti da costoro sono profondamente erronei e hanno operato un’ulteriore deformazione dei fatti storici. Ma gli «specialisti» di storia letteraria non hanno saputo creare qualcosa di relativamente originale nemmeno nel campo dell’errore; anche qui essi riproducono meccanicamente frammenti di idee che provengono d’altra fonte.

Tali considerazioni negative completano la nostra immagine del critico filosofico. Comprensione filosofica della situazione generale; profonda analisi dello svolgimento storico concreto, tale da avvertire i rapporti tra i mutamenti dell’arte e le svolte decisive della storia umana; saldo possesso di criteri oggettivi di valore e disvalore estetico, attinti dalla conoscenza storico-sistematica dell’essenza dell’arte; riconoscimento dell’importanza decisiva assunta, in seno a questo svolgimento, dal genio singolo o dalla singola opera d’arte geniale: è solo l’unità e la compresenza di tutti questi elementi che fa il critico letterario filosofico.

E soltanto là dove tali critici collaborano con scrittori che le intime necessità del loro svolgimento creativo rendono buoni giudici dell’arte propria ed altrui; là soltanto si ha un rapporto normale tra scrittore e critico. Cosi fu nell’epoca dell’illuminismo; cosi nel periodo classico tedesco; nella grande fioritura realistica nella Francia della prima metà dell’Ottocento; nel periodo democratico-rivoluzionario della letteratura e della critica russa.

Questa constatazione non implica affatto l’esclusione delle lotte tra i vari indirizzi. Le correnti letterarie che sorgono nelle società classiste sono risultati necessari, anche se per nulla meccanici, delle lotte di classe e dell’urto tra diverse aspirazioni politiche e sociali. I contrasti in Germania al tempo della Rivoluzione francese e di Napoleone; le crisi di sviluppo della Francia dal 1789 al 1848; il differenziarsi del liberalismo e della democrazia in Russia, hanno – per citare soltanto alcuni esempi – i loro riflessi nella letteratura e nella critica. Ed è naturale che queste lotte e questi contrasti non dovessero essere meno violenti in letteratura che in politica.

Ed è anche naturale che tali lotte, che furono combattute da uomini in carne ed ossa – e più precisamente da uomini appartenenti alle società classiste – non potessero non essere accompagnate da fenomeni di irritabilità personale, di astio, piccineria, pettegolezzo, permalosità. Gli storici letterari borghesi indugiano difatti con voluttà su queste quisquilie, che si prestano assai bene ad ottenebrare il significato politico e i risultati estetici di tali lotte e a scoprire in esse un’inesistente analogia con le beghe dei letterati contemporanei. Ciò che realmente importa è il livello e il contenuto di tali lotte. Belinskij, Dobroljubov e Černyševskij hanno esposto in forma scientifica le linee fondamentali, sia sociali che estetiche, della storia della letteratura russa, con l’intento di affrettare il processo di chiarificazione del movimento democratico rivoluzionario e il suo distacco dai compromessi liberali. Tutti gli aneddoti che parlano di scrittori offesi o risentiti non hanno alcun valore di fronte all’importanza di queste lotte per lo sviluppo ideologico ed estetico della letteratura. I presupposti politici di tale situazione saranno senz’altro comprensibili alla maggior parte dei lettori moderni. Più difficilmente intelligibile (perché contrasta coi pessimi abiti mentali odierni) è il fatto che l’innalzarsi al di sopra della meschinità delle beghe letterarie implica l’innalzarsi al di sopra dei meri problemi soggettivi della creazione artistica, del «mestiere», per attingere l’oggettivismo estetico. L’odierno lettore legge con vera invidia la critica di Balzac alla Certosa di Parma di Stendhal: in ogni questione, che si tratti della vita sociale o di politica o di letteratura, regna il più aspro contrasto, e tuttavia — o appunto per questo — anche la pura atmosfera liberatrice dell’autentica e grande storicità: sono le contraddizioni della vita, la cui lotta spinge innanzi l’umanità sul suo cammino.

Quest’aria pura noi respiriamo in tutte le riflessioni estetiche sia dei critici-scrittori che dei critici filosofici. E il filone di queste tradizioni estende le sue propaggini fino ai tempi nostri, trapassando, nell’attività critica di Maksim Gor’kij, nella concezione socialista dell’arte. Per questo Gor’kij non fa comodo a molti scrittori moderni. Nei suoi Colloqui intorno al nostro mestiere appare infatti una concezione dell’opera dello scrittore qualitativamente differente da quella oggi imperante. Essa non ha niente a che vedere con la «maestria» di effetti raffinati: è il lavoro esercitato sulla ricca materia della vita per enuclearne con paziente fatica gli aspetti tipici e per cristallizzare dal suo multiforme magma il contenuto spirituale più elevato, il contenuto sociale più significativo, il contenuto estetico più adeguato.

Il suo grande contemporaneo nella critica filosofica, Lenin, si rendeva esattamente conto dell’importanza delle battaglie ideologiche di Gor’kij ai fini della cultura socialista. Tra l’autore delle critiche su Tolstoj e Herzen e l’autore della Madre e del Karamazovismo sussistevano relazioni «normali».

Sia gli scrittori che i critici devono riscoprire e riconquistare a se stessi il loro più alto tipo, il loro più alto modo di essere, affinché i loro reciproci rapporti tornino ad essere rapporti normali.

(1939).


[1] [«Ben di rado mi avete capito, | ben di rado capiti vi ho; | ritrovatici in mezzo al letame, | ci capimmo, e l’un l’altro abbracciò» (N.d.T)].

[2] [«Finché tu non sarai riuscito a questo | che ti dice: “Muori e rivivi” | sarai soltanto un tetro ospite | sulla terra buia» (trad. Oreste Ferrari)].

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Georg Lukács Lenin – Theoretician of Practice

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