Milgram Experiment by Gabriella Giudici – documentaire complet ; “Hannah Arendt”

L’obbedienza all’autorità e l’esperimento di Milgram. Il condizionamento del ruolo nell’esperimento carcerario di Zimbardo

by gabriella

Un reality di France 2

Nel marzo 2010 è scoppiato il caso del reality, messo in onda da France 2, nel quale ad un gruppo di spettatori era stato chiesto di punire con scariche elettriche fino a 460 volts i concorrenti che avevano fornito una risposta sbagliata. Il canovaccio del programma era basato sul celebre esperimento del 1961 con cui Milgram aveva cercato di capire le dinamiche del conformismo e dell’obbedienza all’autorità.

Il regista ha difeso il reality, sostenendo di aver voluto attirare l’attenzione su quanto Stanley Milgram aveva osservato a suo tempo, ovvero quanto sia drammaticamente facile ottenere obbedienza in determinate circostanze.

È molto difficile uscire da un contesto – spiega il regista – saper dire di no non si improvvisa: nessuno nasce resistente o obbediente dalla nascita.

E’ questa la lezione della psicologia sociale. Perchè la storia non si ripeta dobbiamo coltivare gli anticorpi dell’autonomia e dell’indipendenza intellettuale. I dati esibiti da questo reality mostrano che le nostre società sono molto lontane dall’obiettivo.

L’esperimento di Milgram e l’interpretazione offerta dalla psicologia sociale

Nell’esperimento del 1961, Stanley Milgram selezionò un gruppo di individui a cui fu comunicato che avrebbero collaborato, dietro ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento.

Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, insieme a un complice, assegnava con un sorteggio truccato i ruoli di “allievo” e di “insegnante”: il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo. I due soggetti venivano poi condotti nelle stanze predisposte per l’esperimento. L’insegnante (soggetto ignaro) era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica, composto da 30 interruttori a leva posti in fila orizzontale, sotto ognuno dei quali era scritto il voltaggio, dai 15 V del primo ai 450 V dell’ultimo. Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti scritte: (1-4) scossa leggera, (5-8) scossa media, (9-12) scossa forte, (13-16) scossa molto forte, (17-20) scossa intensa, (21-24) scossa molto intensa, (25-28) attenzione: scossa molto pericolosa, (29-30).

All’insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza leva (45 V) in modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e gli venivano precisati i suoi compiti come segue:

1. Leggere all’allievo coppie di parole, per esempio: “scatola azzurra”, “giornata serena”;
2. Ripetere la seconda parola di ogni coppia accompagnata da quattro associazioni alternative, per esempio: “azzurra – auto, acqua, scatola, lampada”;
3. Decidere se la risposta fornita dall’allievo era corretta;
4. Nel caso fosse sbagliata, infliggere una punizione, aumentando l’intensità della scossa a ogni errore dell’allievo.
Quest’ultimo veniva legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande, e fingere una reazione con implorazioni e grida al progredire dell’intensità delle scosse (che in realtà non percepiva), fino a che, raggiunti i 330 V, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse precedenti.

Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l’insegnante: «l’esperimento richiede che lei continui», «è assolutamente indispensabile che lei continui», «non ha altra scelta, deve proseguire». Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell’ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima di interrompere la prova. Al termine dell’esperimento i soggetti furono informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa, che il loro comportamento era stato del tutto normale, che anche tutti gli altri partecipanti avevano reagito in modo simile.

Contrariamente alle aspettative, nonostante i 40 soggetti dell’esperimento mostrassero sintomi di tensione e protestassero verbalmente, una percentuale considerevole di questi, obbedì pedissequamente allo sperimentatore. Questo stupefacente grado di obbedienza, che ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l’obbedienza indotta da una figura autoritaria considerata legittima, la cui autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere condotte autonome, ma strumento per eseguire ordini. I soggetti dell’esperimento non si sono perciò sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma esecutori dei voleri di un potere esterno. Alla creazione di questo stato eteronomico concorrono tre fattori:

percezione di legittimità dell’autorità (nel caso in questione lo sperimentatore incarnava l’autorevolezza della scienza);

adesione al sistema di autorità (l’educazione all’obbedienza fa parte dei processi di socializzazione);

le pressioni sociali (disobbedire allo sperimentatore avrebbe significato metterne in discussione le qualità oppure rompere l’accordo fatto con lui).

Il grado di obbedienza all’autorità variava però sensibilmente in relazione a due fattori: la distanza tra insegnante e allievo e la distanza tra soggetto sperimentale e sperimentatore. Furono infatti testati quattro livelli di distanza tra insegnante e allievo: nel primo l’insegnante non poteva osservare né ascoltare i lamenti della vittima; nel secondo poteva ascoltare ma non osservare la vittima; nel terzo poteva ascoltare e osservare la vittima; nel quarto, per infliggere la punizione, doveva afferrare il braccio della vittima e spingerlo su una piastra. Nel primo livello di distanza, il 65% dei soggetti andò avanti sino alla scossa più forte; nel secondo livello il 62,5%; nel terzo livello il 40%; nel quarto livello il 30%.

Con questo esperimento Milgram dimostrò che l’obbedienza dipende anche dalla ridefinizione del significato della situazione. Ogni situazione è infatti caratterizzata da una sua ideologia che definisce e spiega il significato degli eventi che vi accadono, e fornisce la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza. La coesistenza di norme sociali contrastanti(da una parte quelle che inducono a non utilizzare la forza e la violenza e dall’altra quelle che prevedono una reazione aggressiva a certi stimoli) fa sì che la probabilità di attuare comportamenti aggressivi venga di volta in volta influenzata dalla percezione individuale della situazione (che determina quali norme siano pertinenti al contesto e debbano pertanto essere seguite). Dal momento che il soggetto accetta la definizione della situazione proposta dall’autorità, finisce col ridefinire un’azione distruttiva, non solo come ragionevole, ma anche come oggettivamente necessaria.

Le numerose ricerche che hanno successivamente utilizzato il paradigma di Milgram, hanno tutte pienamente confermato i risultati ottenuti dallo studioso, che sono stati ampiamente discussi anche nell’ambito di quel cospicuo filone di studi interessati a ricostruire i fattori che hanno reso possibile lo sterminio ad opera dei nazisti. Lo stesso esperimento di Milgram si inserisce in questo quadro. Fu, infatti, tra i migliori contributi alla comprensione di cosa avesse spinto i cittadini di uno dei paesi più colti e civili del mondo – la Germania appunto – a seguire un capo come Hitler collaborando al massacro dei propri concittadini.

Risposte importanti su questo sono venute da Adorno nella sua inchiesta su La personalità autoritaria

Il condizionamento del ruolo nell’esperimento carcerario di Zimbardo

L’esperimento della prigione di Stanford fu un esperimento psicologico volto a indagare il comportamento umano in una società in cui gli individui sono definiti soltanto dal gruppo di appartenenza. L’esperimento prevedeva l’assegnazione, ai volontari che accettarono di parteciparvi, dei ruoli di guardie e prigionieri all’interno di un carcere simulato. Fu condotto nel 1971 da un team di ricercatori diretto dal professor Philip Zimbardo della Stanford University. Gli inattesi risultati ebbero dei risvolti così drammatici da indurre gli autori dello studio a sospendere la sperimentazione.

L’esperimento

Zimbardo riprese alcune idee dello studioso francese del comportamento sociale Gustave Le Bon; in particolare la teoria della deindividuazione, la quale sostiene che gli individui di un gruppo coeso costituente una folla, tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità, alimentando la comparsa di impulsi antisociali. Tale processo fu analizzato da Zimbardo nel celebre esperimento, realizzato nell’estate del 1971 nel seminterrato dell’Istituto di psicologia dell’Università di Stanford, a Palo Alto, dove fu riprodotto in modo fedele l’ambiente di un carcere.

Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole. Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione.

Risultati

I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici. Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati, ma dall’altro, un certo disappunto da parte delle guardie.

Conclusioni

Secondo l’opinione di Philip Zimbardo, la prigione finta, nell’esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, era diventata una prigione vera.

Assumere una funzione di controllo sugli altri nell’ambito di una istituzione come quella del carcere, assumere cioè un ruolo istituzionale, induce ad assumere le norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi, induce cioè quella “ridefinizione della situazione” utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone. Il processo di deindividuazione induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l’espressione di comportamenti distruttivi. La deindividuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un’aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l’individuo pensa, in altri termini, che le proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo.

Le tesi alla base di questo esperimento vengono analizzate da Zimbardo in un suo saggio del 2007 (in Italia, pubblicato nel 2008) intitolato L’effetto Lucifero. Va evidenziato che l’ipotesi dello psicologo accentua e per certi aspetti estremizza quella di Milgram sulla forza del controllo in presenza di fattori predisponenti, al punto da inficiare la validità dell’esperimento. Zimbardo segue infatti esplicitamente la prospettiva leboniana sulla natura intrinsecamente irrazionale delle masse, vale a dire un punto di vista strettamente orientato in senso filosofico dal quale dedurrebbe una natura umana, poi inverata dalla ricerca sul campo.

Qui il sito (in italiano) dell’esperimento di Stanford.

http://gabriellagiudici.it/lobbedienza-allautorita-e-lesperimento-di-milgram/

Milgram Experiment | Simply Psychology

 

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