Sul concetto di volto nel figlio di Dio ; Romeo Castellucci : “blasfemia” ed altro

Sul concetto di volto nel figlio di Dio

di pubblicato venerdì, 20 gennaio 2012 ·

Sul concetto di volto nel figlio di Dio è uno degli spettacoli più discussi di Romeo Castellucci, star del teatro italiano e internazionale. A Parigi, lo scorso ottobre, il teatro in cui è stato ospitato è stato preso d’assalto da un gruppo d’integralisti cattolici che ha cercato di interromperne la messa in scena. Questi eventi hanno scatenato in Francia un intenso dibattito e una strenua difesa di Castellucci da parte delle istituzioni culturali. La stessa situazione si sta verificando a Milano in questi giorni pre debutto al Teatro Franco Parenti. La direttrice del teatro, attaccata da integralisti cattolici locali, ha lanciato un appello alle istituzioni religiose e civili che sembra rimangano silenti. E’ in atto un acceso dibattito che vede coinvolto il regista, il mondo della cultura e quello religioso. E adesso è scoppiata anche la polemica (abbastanza paradossale, per chi conosce il percorso di Castellucci) col Vaticano.

Quest’articolo di Ilaria Mancia era uscito sul mensile “Il Mucchio” in occasione della prima italiana dello spettacolo Sul concetto di volto nel figlio di Dio.

di Ilaria Mancia

Romeo Castellucci ha presentato all’interno di RomaEuropa Festival Sul concetto di volto nel figlio di Dio. VOL.II che ribadisce come il suo teatro di immagini potenti, feroci, iconiche lascia un segno nello stomaco, nella mente e smuove ogni angolo oscuro e nascosto della nostra psiche, ridando ogni volta un senso all’azione teatrale come ricerca esistenziale.

E’ difficile parlare del lavoro di Castellucci quando, come nella performance vista a Roma, nulla credo si possa aggiungere a ciò che lui mostra in scena. La potenza totalizzante delle immagini che ci scorrono davanti agli occhi, la ricchezza di senso e semplicità rende difficile una descrizione che non sia traditrice e sminuente. L’unica cosa certa è che, per chi non l’avesse ancora fatto, il lavoro di Castellucci va vissuto, esperito e ricordato dall’incontro dal vivo.

L’incontro conturbante di Sul concetto di volto nel figlio di Dio. VOL.II è con il volto di Cristo. Domina il fondo della scena un’incombente riproduzione del volto di Cristo benedicente di Antonello da Messina. Un enorme pannello di circa sette metri per sette, che sembra rimandare ad un pannello pubblicitario, riproduce uno dei rari volti di Gesù con lo sguardo rivolto verso il pubblico; uno sguardo sospeso, impenetrabile e intenso, da cui ci sentiamo spogliati, che crea una corrente inaspettata fra noi e l’iconografia religiosa che si trasforma in un cortocircuito di sguardi fra gli uomini. E’ un Cristo umanizzato, è Dio che si fa uomo.

“Il volto, in questa epoca di riproduzione virtuale, è diventato problematico: non è più ciò che ci affaccia all’altro ma ciò che ci allontana dall’altro. Per questo volevo che il mio volto di Cristo guardasse dritto negli occhi lo spettatore. Questo Cristo ci guarda dritto negli occhi ma il suo pensiero è inafferrabile, nella sua grandezza ci schiaccia con il suo sguardo, a cui non si può sfuggire” spiega Castellucci.

Davanti al dipinto il piano orizzontale della scena è occupato da un salotto composto di mobili bianchi, freddi, privi di identità e da un letto candido in cui si svolge una scena di profonda e umana sofferenza. Un vecchio padre si aggira con lenti movimenti quotidiani nello spazio e con lui il figlio che amorevolmente lo accudisce. Il bianco, tela neutra e candida, viene segnato dalla sofferenza del padre incontinente a cui il figlio presta aiuto, affetto e devozione. Il segno delle feci, e i loro aumentare in maniera incontrollata, rende l’umiliazione del padre senza speranza e l’attenzione del figlio un naturale e faticoso atto d’amore.

Una linea retta inflessibile unisce le due parti che compongono l’azione e noi ne siamo parte, coinvolti senza scampo e in maniera terribilmente umana. I nostri sensi (in particolare la vista e l’olfatto) sono testimoni della triangolazione biblica fra un padre flagellato dalle proprie feci, il figlio amorevole e pietoso e lo sguardo di Dio.

“La corrente che unisce lo sguardo di Dio e lo spettatore è interrotta da questa storia di feci. Gesù viene incaricato di questa materia, che è materia primaria, è il contenuto dell’uomo. E’ una preghiera in un’epoca post-cristiana. I temi della religione vanno scarcerati da una serie di stereotipi di condiscendenza. Rappresento una storia d’amore di un figlio incredibilmente paziente nei confronti del vecchio padre. E’ una storia biblica che si fa storia politica: la morale dei padri, l’eredità dei padri come incontinenza storica e politica dei padri. La colpa dei padri ricadrà sui figli è l’anello di ferro che non si può spezzare che lega i padri ai figli”.

Questa parabola teatrale ci fa inevitabilmente confrontare con la vecchiaia, oggi allungata dal progresso scientifico, con la dolorosa responsabilità figliale ma soprattutto con “la merdosa eredità che stanno lasciando coloro che si pongono nella posizione di Padri”.

Castellucci accusa la distruzione di simboli e idee da parte di coloro che si nominano detentori di questi simboli e idee e che affermano di agire in loro nome annientandoli e privandoli di senso.

“La tragedia contemporanea è rappresentata oggi dalla religione che mostra la sua assenza perfetta. Non c’è più e ha lasciato posto solo ad un apparato retorico che cerca di lavorare il nostro cervello. Cristo è una figura totalmente assente, non solo nella nostra vita, ma anche nella rappresentazione. Sul volto di Cristo si può tracciare tutta la Storia dell’arte occidentale. Gesù è il modello in una considerazione storiografica. Questa immagine non c’è più. Potrebbe essere un auspicio: Non si parla più di Gesù. La chiesa potrebbe decidere ciò e sostituirlo con uno schermo bianco simbolo dell’attesa. Non trovo giusto che qualcuno abbia il diritto di parlare della religione ed altri no e non capisco la presenza di questi professionisti della religione che non rispondono più allo spirito del tempo”.

La conclusione vede un padre piangente, colmo di sofferenza e vergogna per la sua parossistica ed incontrollata produzione di escrementi e un figlio esausto che sembra cercare conforto appoggiandosi immobile all’immagine statica ed intensa dell’altro Padre, mostrandosi bisognoso di baciarne le labbra in una muta attesa del Verbo.
Il messaggio si rivela sotto la tela, la vera conclusione arriva da dietro l’immagine del Cristo, dal suo stesso interno. Movimenti di corpi aerei la deformano, le danno corpo per poi lacerarla e strapparla facendola scomparire. L’azione iconoclasta mostra il messaggio nascosto sotto la tela, il Verbum: a grandi lettere appare la scritta “I’m (not) your shepherd”, dove quel “not” appare e scompare allo sguardo. Il volto si è fatto parola, ma ci sospende nell’interrogativo: quel Cristo ormai lacerato è o non è il nostro Pastore?

Con questa immagine forte e perturbante Castellucci lascia a noi la scelta, sottolineando, con la forza del suo teatro esteticamente potente e pieno di senso, la necessità di una responsabilità etica individuale.
L’immagine di Cristo, che incuriosisce Castellucci per la sua totale assenza dalla creazione artistica contemporanea, sarà il centro del complesso progetto “J” (titolo provvisorio) che vedrà la luce l’anno prossimo in forma di spettacolo.
“In questi nostri laici tempi, in cui l’arte visiva non sa più ritrarre il volto di Cristo, dobbiamo farlo a teatro. Perché, rispetto a tutte le arti sorelle, il teatro è ancora ciò che somiglia di più alla vita.”

http://www.minimaetmoralia.it/wp/sul-concetto-di-volto-nel-figlio-di-dio/


Lettere a Romeo Castellucci / L’infanzia del poeta

Associo, a torto o a ragione, Raffaello Sanzio all’infanzia del poeta. Vera infanzia, s’intende, non simulata o letteraria. Con un senso naturale del gioco. Di tale sensazione nello stesso nome della Socìetas vedo un sintomo, anche se da poco sono arrivato a rendermi conto che mai m’ero interrogato sul motivo di quella loro scelta, quasi si trattasse d’un dato scontato. Forse pensavo che da ragazzi è facile dividersi in squadre e, se c’è da darsi un nome, si va diritti su quello di un numero uno.

Perdipiù, constatata la natura derisoriamente scolastica dell’apposizione latina, vedevo coincidere il personaggio da loro designato come simbolo con ricordi di mie passioni infantili: anche se poi ne ho diffidato, guardando io perfino con sciocca sufficienza per la perfezione che mi sembrava togliere ai suoi dipinti quel sapore che, crescendo nei decenni, sarei andato riscoprendo, per me Raffaello era rimasto un idolo dei giorni delle elementari, quando l’avevo amato in una biografia per ragazzi che esaltava il bel giovinetto urbinate prediletto da Giulio II, mentre caricava il bilioso Michelangelo della parte di cattivo.

Esitò un attimo Romeo, quando in un incontro tecnico per questo libro, mi sentì chiedergli imprevedibilmente le ragioni di quella denominazione, forse perché gliele avevano domandate troppe volte; ma anche perché gli restava l’incertezza su quale orientarsi tra le possibili risposte che era solito avvicendare: l’intento ironico, il gusto di andare controcorrente, o invece l’ammirazione per la coscienza della forma, sentimenti via via provati per essersi assunti, lui e tutti loro, un simbolo che non gli assomigliava, prima di trovarselo così stretto addosso da appartenervi.

Devo attribuire a un mio limite personale il fatto di non aver mai smesso di considerare i Raffaello dei simpatici ragazzacci? Simpatici e anche dolci, sotto una scorza di rigidezza tutta apparente. E certamente dotati di genio autentico. Lo garantisce il ricordo del loro irrompere sulla scena, di cui devo i primi segnali a Nico Garrone, in un 1981 ormai protetto dalle imbarazzanti nebbie dell’oblio, un inizio ludicamente intitolato a scontri pseudofilosofici o a immaginarie partite di calcio, da Diade incontro a Monade a Persia-Mondo 1 a 1. Io del resto li avrei visti la prima volta recitare in calzoni corti in Popolo zuppo, “spettacolo galoppante verso il panegirico delle forme e dei detti mondiali”, e poi tutti in kilt, nei Fuoriclasse della bontà, “primo spettacolo calmo”, configurare le vicende di un gruppo sardo trapiantato in Tirolo per allevare atomi di mucca, nutrendosi di succo di pioppo, destinato quindi a un gemellaggio con l’Opera di Pechino per chiudere con una rappresentazione del mitico incontro di Giotto e Cimabue. La simpatia era un corredo inevitabile della provocazione surreale compiuta con coraggio su arcadici sfondi sfigurati alla Cucchi, lasciando intuire la consapevolezza del pastiche insieme a una serietà a tutta prova, come il rigore severo che sovrintende il divertimento dei bambini.

Del resto anche oggi guardo con ammirato stupore Romeo svolgere da fratellone le sue funzioni paterne verso una nidiata di pargoli, significativamente inseriti nei suoi maggiori spettacoli, e in particolare negli episodi più rilevanti sul piano etico, come la ricostruzione di Auschwitz in Genesi. Non a caso una sezione non minore nell’attività della Socìetas è dedicata ai bambini, con messinscene di fiabe spogliate dagli abituali sentimentalismi e corsi teatrali per i piccolissimi spinti verso una reattiva libertà. A rendere così irresistibili nel ruolo di maestri non solo il citato Romeo, ma la sorella Claudia, teorica e titolare della scuola per “i grandi”, la moglie Chiara, preposta alla guida dell’infanzia, nonché della vocalità in generale, e il fratello di quest’ultima, Paolo (ora uscito dal gruppo, di cui è stato comunque una colonna), opera proprio l’innocenza con cui tutti assieme sono entrati nel mondo del teatro, senza dimenticare quello della scuola e dell’arte da cui provenivano, né le proiezioni verso la musica, la scienza, la poesia.

Invitati dal sottoscritto alla Biennale di Venezia nel 1984, i Raffaello vi portarono Kaputt necropolis, ovvero la peggiore delle loro creazioni, dove però, superati i duelli tra Claudia Virus e Chiara Interferon, o le gare di Romeo Pilota e Paolo Operaio, questi ultimi imprigionati nei sacchi, accadeva un fatto significativo. Veniva inventata una lingua, la “Generalissima”, che ambiva addirittura a proporsi come “alfabeto di tutti i pensieri possibili”, ma nella sua duplice natura di parodia di rituali scolastici e di ricerca di una chiave personale e segreta di comunicazione, conteneva un margine di verità, nella linea che avrebbe contraddistinto la compagnia: cimentarsi in giochi di sempre maggior audacia, ma crederci così fermamente da riuscire a imporre un’altra verità, che è quella del profondo, come accade d’altronde a ogni vero artista, condannato a superare le barriere del suo tempo, da Giotto a Pollock… O vogliamo citare Raffaello?

Da allora la traiettoria della compagnia, mai casuale, è proseguita linearmente infilandosi in cicli che non ignoravano la storia dell’umanità, né della cultura, e spostandosi di conseguenza verso Oriente, cercavano di riscriverla nella lingua del teatro. Conoscevano così la negazione della figuratività rappresentativa risalendo in Santa Sofia alla temperie iconoclasta, ma attraverso un sogno di Pol Pot che, nella perdurante ossessione di annullare le barriere temporali e geografiche, affratellava la Cambogia degli anni ‘80 alla Bisanzio di Leone l’Isaurico. E l’arte imponeva le sue ragioni alla vita, se è vero che alla primogenita di Romeo e Chiara sarebbe stato imposto il nome dell’imperatrice bizantina Teodora. Ma subito dopo quel fondamentale spettacolo, nei Miserabili i ragazzi avrebbero applicato il processo di Santa Sofia al linguaggio, minato e colpito nella fase di emissione dei suoni stravolgendo l’eloquio; e rimaneva memorabile la scena in cui il “masticatore di parole”, impiccato vivente, incarnato da Paolo Guidi, emetteva un lungo monologo costretto da un cappio alla gola, con una radicalità rispetto all’espressione di cui si vedono oggi le conseguenze, anche a livello d’immagine.

Ripassando all’adagio, la Raffaello accondiscende infine alla vocazione per la favola senza più cercarne travestimenti e la sviluppa su una duplice via apparentemente contrapposta. Negli spettacoli creati appositamente per bambini attinge alla novellistica a loro destinata dalla tradizione occidentale e la conduce dalla metafora a un realismo che può anche spaventare i più piccoli, tanto più che viene cancellato il diaframma difensivo del palcoscenico. Le rappresentazioni per adulti vanno invece alla ricerca di un mito da rappresentare e ipotizzano una convenzione nell’inseguimento borgesiano di un immaginario teatro sumero. Mentre la compagnia si fa tribù incamerando quietamente madri e zie, l’uno e l’altro mondo fiabesco si giovano di presenze sceniche animali, dal bove al babbuino, prima che due alani neri vengano messi al fianco (e non soltanto) dei protagonisti nudi e silenziosi, intenti a giocare con lignei feticci in Gilgamesh. E questo più che uno spettacolo è un arcaico mistero dove il ricorso alla fisicità non esclude il ritualismo e nel contempo prepara al travaglio così umano di un Amleto regredito, come l’impiccato che inghiottiva strozzandosi le proprie parole nei Miserabili già preludeva al discorso di Antonio messo in bocca a un laringectomizzato.

Arrivato ai classici, Romeo Castellucci – a questo punto va usata una prima persona che non scalfisce l’unità della Socìetas – affronta Eschilo o Shakespeare ma non dalla parte della tradizione, né della mera analisi della parola scritta, o della preoccupazione di interpretare e di aggiornare il senso. Al massimo si porta un livre de chevet che lo accompagni nella lettura di opere già assimilate e ripescate quindi dall’interno di una personale consapevolezza, ma che all’atto della realizzazione non mancheranno mai di dare il senso della scoperta, a conferma di quella spontaneità che ha contraddistinto fin da ragazzo il suo lavoro, e che vediamo in ognuna delle nuove prove cambiare di segno, anche se riemerge puntuale il rimando a Lewis Carroll.

L’approccio ai corpi è tattile, così come è sensitivo e quasi organico il mondo che sta dietro alla fabula. Ma i corpi sono materia, ridondante o asettica, straziati dalla malattia, resi espressivi dalle mancanze, ridotti anche a simulacri. Le battute sono asciugate, perché le parole non servono più: ad Amleto bastano dei mugolii per rivolgersi agli altri personaggi ridotti dal suo delirio a giocattoli, una ridda di scoppi per manifestarsi, dei segni alla lavagna per confessare un’identità mancata; l’ultima generazione degli Atridi è clonata in piccole macchine-giocattolo che spersonalizzano le vendette nella meccanicità dominante dentro al regno del suono computerizzato e del rumore ossessivo. E da ultimo Dio creò l’uomo; nella Genesi, che dei classici è il classico, Romeo di questo Dio assume il ruolo per raccontarcene l’assenza, mentre ne ipotizza e ripete per tenebrose immagini l’impresa di cui abbiamo già visto i risultati, consapevole di parlare anche autobiograficamente di sé come artista. Ma di tutto questo capitolo è stata la Raffaello stessa a parlarci nel volume che qui si chiude, nel nome di Caino. Il poeta, uscito dall’infanzia senza smettere di sognarla, guarda aldilà, innocente.

Franco Quadri, postfazione al libro Epopea della polvere, ubulibri 2011 (grazie a Valentina Bertolino e a Jacopo Quadri)


Quarto appuntamento per la rassegna dedicata dall’assessorato alla cultura del Comune di Bologna a Romeo Castellucci e alla Socìetas Raffaello Sanzio, E la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale, a cura di Piersandra Di Matteo.

Da venerdì 14 a domenica 16 febbraio negli spazi dell’ex Ospedale dei Bastardini di via D’Azeglio 41 a Bologna, in collaborazione con Xing, va in scena Uso umano di esseri umani. Si tratta di un esercizio in “Lingua Generalissima”, quella coniata dalla compagnia di Cesena per lo spettacolo Kaputt necropolis, presentato nell’ottobre del 1984 alla Biennale Teatro di Venezia diretta dal critico Franco Quadri (1936-2011), inventore del Patalogo e direttore della casa editrice Ubulibri, uno degli intellettuali che hanno seguito più da vicino il lavoro della Raffaello.

Per approfondire la conoscenza di questa straordinaria compagnia di creatori, nel catalogo ebook di doppiozero segnaliamo il prezioso saggio di Oliviero Ponte di Pino Romeo Castellucci & Socìetas Raffaello Sanzio.

http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/lettere-romeo-castellucci-l%E2%80%99infanzia-del-poeta

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