La catacomba molussica di Günther Anders – Die molussische Katakombe pdf

Un altro grande rimosso in libreria:
La catacomba molussica di Günther Anders
a cura di Massimo Rizzardini

Günther Anders scrisse Die molussische Katakombe agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso. Pronto per essere mandato alle stampe nel 1933, il manoscritto sfuggì al sequestro della Gestapo e, con qualche anno di ritardo, raggiunse l’autore nel suo esilio parigino, dopo aver “viaggiato” fra i bagagli di Hannah Arendt. Sottoposto a una seconda stesura nel 1938, l’utopia negativa di Anders ha conosciuto la pubblicazione solo nell’anno della sua morte, il 1992, senza con ciò esercitare alcuna influenza sulla letteratura distopica del ‘900. Presentato qui, per la prima volta, al pubblico italiano, questo vangelo della catastrofe e del fallimento rivoluzionario costituisce di per sé un modello esemplare di letteratura rimossa, secondo una singolare corrispondenza che ha legato i temi dell’opera alla sua controversa fortuna. Per usare una celebre definizione, La Catacomba Molussica “grandeggia come un masso erratico nel paesaggio lunare delle utopie negative del XX secolo”1. Romanzo, dialogo filosofico, parabola di una crisi tematizzata attraverso l’uso di molteplici registri narrativi: la prigione di Molussia scrive il buio della ragione attraverso l’illuminata dialettica fra verità e menzogna, suolo e sottosuolo, arretratezza e modernità. La storia di Olo e Yegussa, maestro e discepolo della perenne macchina attoriale che scandisce la trasmissione del sapere segreto, è una storia rimossa, sottratta al suolo (alla finzione) e scritta segretamente dai carcerieri che la ascoltano nel silenzio di una realtà umbratile. Attraverso l’escamotage della rinuncia all’identità, sappiamo che Yegussa apprende per divenire l’Olo di un futuro Yegussa. Il tramandamento sotterraneo della verità, che resiste alla propaganda della menzogna, trascende l’individuo e si pone in una dimensione altra, assumendo, pagina dopo pagina, i tratti di una memoria dell’oltretomba. Dalla confessione di questo contromondo di morti viventi, fantasmi indefiniti e tuttavia recitanti, emerge la parabola della verità sotterranea e della ricerca di un senso che si vuole perduto e inattingibile, sepolto sotto le macerie della ragione, della politica e persino della rivoluzione. Lo scorrere del fiume ctonio e la sua schiuma di parole nere cantano la catastrofe della filosofia e dell’ideologia, ne scandiscono il processo disgregativo e giungono, fatalmente, a sancirne il fallimento ineludibile. Un fallimento che da Molussia e dalle altre porzioni di mondo descritte nel romanzo finisce con il compromettere i lettori di ogni epoca, a loro volta Olo e Yegussa, narratori e pazienti ascoltatori di un processo che si va consumando al di sopra di loro. Come moderni Olo, la decisione di pubblicare quest’opera monumentale nasce dall’intento di non interrompere, nel segno della catacomba di Anders, la catena del tramandamento e della verità illuminata.
(Massimo Rizzardini)

Il seminario per gli animali o della competitività della menzogna
“L’antico codice dei sacerdoti stabilì che l’esame più difficile e necessario per il sesto grado sacerdotale fosse il seminario per gli animali. I candidati dovevano tenere ininterrottamente per un anno intero un ciclo di lezioni sulla morale e l’igiene delle bestie nel giardino zoologico del re davanti a buoi da ingrasso, vitelli, cinghiali, tacchini, fagiani e tartarughe giganti indispensabili per le salse della cucina reale. Nessun argomento, nessuna spiegazione, nessuna conclusione potevano essere omessi nel corso delle 365 lezioni davanti a quelle creature, che godevano dell’impagabile privilegio di essere gustati dal palato del re e digeriti dal più nobile degli stomaci. Qualsiasi violazione dei doveri veniva punita, come se gli allievi fossero esseri umani: il candidato retrocedeva al primo grado e doveva superarli di nuovo tutti. Era proibito voltare le spalle all’uditorio, con il quale si doveva tenere il contatto visivo come con un pubblico di sacerdoti. Bisognava cercare fino all’ultimo di influenzare gli animali, ma solo a parole e con la forza delle argomentazioni: ogni altro mezzo era severamente vietato. Dopo pochi giorni la maggior parte degli esaminandi fu assalita da una sensazione simile alle vertigini e molti interruppero a tratti le esercitazioni perché non sentivano più nemmeno il suono delle proprie parole. In accessi di impazienza tirarono ciottoli agli animali; la loro sintassi si ingarbugliò; presero a ripetere infinite volte le stesse frasi senza che la loro espressione mostrasse che ne erano consapevoli. Molti non riuscirono a resistere alla tentazione di esporre regole volutamente senza senso o addirittura in contrasto con il codice. Alcuni ritirarono spontaneamente la loro candidatura per sottrarsi alla follia. Due disertarono persino, unendosi a quella che veniva definita allora `la classe più bassa del popolo’, per potere liberamente maledire e mettere a repentaglio l’istituzione stessa con cortei e colpi di stato. Nel regno viveva anche una famiglia di maghi, ultima rappresentante di una setta allora ostile alla religione molussica. La magia, in aspro contrasto con il culto molussico della ragione, veniva ancora tramandata solo da quella famiglia ed era stata ammessa nelle istituzioni religiose di Molussia come espressione della tentazione e manifestazione del demonio. Perciò doveva presentarsi all’esame, come altrove, nelle vesti di tentazione estrema. Così, se uno dei candidati era riuscito a sopportare la mancanza di reciprocità delle lezioni agli animali per i primi sei mesi, gli veniva affiancato uno dei maghi che, solo suonando e senza alcuna argomentazione, domava gli animali con i movimenti del flauto e con le magiche curve tracciate nell’aria dalla frusta. E gli animali mangiavano dalla sua mano i bocconi ai quali avevano opposto resistenza per mesi nonostante tutte le spiegazioni: bocconi che aumentavano di molto la dolcezza del gusto, il biancore e la digeribilità delle loro carni. Quando il mago parlava, lodava la loro forza e la loro integrità che non si erano lasciate confondere dai giri di parole e dalle circonvoluzioni dei discorsi. E chiedeva se il suono del suo flauto non fosse più dolce della voce fredda del sacerdote che così doveva sopportare di vedere giudicata la bontà delle sue dimostrazioni in base alla dolcezza con la quale le aveva presentate. E si scoraggiava, perché la verità non porta i segni del suo essere verità.
Chi resisteva restava altri sei mesi da solo davanti alle sbarre del cancello e doveva instancabilmente cercare di convincere gli animali a fare ciò che era bene per loro con deduzioni, conclusioni e ragionamenti. Ancora una volta senza successo. Il dodicesimo mese il mago compariva per la seconda volta. Allora le bestie si spingevano in branco al cancello; fuori di sé per la gioia, spiccavano salti davanti alle sbarre e sembravano felici solo quando potevano toccare le mani del mago con i becchi, i musi o i grugni. Difficilmente uno degli aspiranti, che per dodici mesi aveva lottato per farsi ascoltare con indefessa perseveranza e ostinate argomentazioni, era in grado di sopportare questo spettacolo. Quando arrivava il mago, la verità diventava gelosa della menzogna. All’ultimo momento ognuno cercava di entrare in competizione con lei, parlando con voce flautata come il mago e condendo la verità con quella dolcezza che rendeva irresistibile il timbro dello stregone. Ma mettersi in concorrenza con la menzogna era umiliante perché le verità flautate sono ridicole. Lo stregone uccideva ogni animale che gli si avvicinava senza dar segno di accorgersi di quella competizione e dopo ogni colpo fischiava al cuoco. Per ogni uccello morto veniva un servitore dalla cucina che lo portava nella dispensa del re. Per i buoi ci volevano tre uomini e per trasportare le tartarughe giganti addirittura sette. Alla fine un vecchio rastrellava il luogo e scacciava l’ultimo fetore degli animali spargendo essenze. Chi fra gli allievi sopportava anche questo finale, assistendovi in silenzio e riuscendo a mascherare la gelosia con noncuranza, veniva convocato sulla poltrona del sesto grado.
Tre tuttavia superarono l’esame in modo irregolare seppure particolarmente encomiabile e conquistarono la poltrona del sesto grado sacerdotale: Ko il solitario, Nu l’assertore e Nuashi.
Il primo, Ko il solitario, promise al suo priore di trattare gli animali come suoi studenti. Iniziò le lezioni impartendo il divieto assoluto di interromperlo con domande di poco conto o disturbarlo in altra maniera. Parlare spettava a lui, loro dovevano ascoltare. E diede questo ammonimento con voce tanto tagliente che le bestie si ritirarono all’istante negli angoli più nascosti delle loro tane e non gli comparvero più davanti agli occhi. Così riuscì a mettersi al servizio della verità completamente indisturbato e nella perfetta solitudine della sua cattedra. Quando, al termine del solito periodo di sei mesi, comparve lo stregone per metterlo alla prova, Ko non si accorse né del suo arrivo né della sua presenza né del suo congedo; con voce tranquilla continuò la lezione: la verità era dalla sua parte. Anche il flauto del mago fu inutile: negli angoli delle stalle erano rimaste solo le ossa e le pelli degli animali morti.
Il secondo, Nu l’assertore, si presentò nel giardino zoologico senza appunti e senza dispense; indossava abiti estivi e aveva l’aspetto di un cavaliere, ma se glielo si faceva notare si schermiva cortesemente con un cenno. Come Ko promise al priore di trattare gli animali alla stregua dei suoi scolari, ma non aveva una grande opinione degli esseri umani. Salì in cattedra con fare amichevole e osservò le bestie con occhi attenti approvando tutte le loro azioni – dormire, bere, accoppiarsi, comunicare – con linguaggio sciolto. E poiché gli animali erano costantemente occupati a fare qualcosa, anche lui aveva sempre qualcosa da dire e restava al corrente di tutto ciò che accadeva. Li trovava in ottima salute, li approvava e li elogiava. Nessun animale lo disturbava, piuttosto lui imparava da ciascuno e a ognuno consigliava in tono premuroso di fare subito ciò che era già comunque in procinto di fare. Mai, nemmeno più avanti, perse il controllo delle sue parole, che anzi divennero sempre più cortesi fino a trovare il loro coronamento finale in frasi retoriche ricorrenti. Così conobbe gli animali sin nelle pieghe più nascoste delle loro abitudini e le sue parole si susseguirono seguendo il ritmo delle loro giornate fino all’arrivo dello stregone dopo il consueto periodo di sei mesi. Quando Nu udì il flauto dell’incantatore e vide vitelli, tacchini e maiali accalcarsi per cercare di toccare le sue dita, lodò la loro fiducia e la loro onesta intelligenza che li spingevano a seguire colui che amavano. Se avessero seguito lui, l’empirista, l’oratore asciutto, e le complessità dei suoi ragionamenti, continuò a spiegare, avrebbero certamente perso la loro innata naturalezza e sarebbero diventati malinconici, malaticci, decadenti, duri e indigesti. Continuò ad approvarli per altri sei mesi con sorridente imperturbabilità e a imparare da loro. Finché caddero supini sotto i colpi del mago. Allora suggellò il loro soffocamento, le loro urla e la loro morte con un’amichevole assicurazione: era bene che morissero, se conoscevano così poco ciò di cui avevano bisogno. Con un lieve inchino ringraziò singolarmente ciascun animale: i tacchini che insanguinavano la terra, i cinghiali riversi su un fianco, i vitelli le cui zampe cercavano invano un appoggio e le tartarughe giganti che si ritraevano, nascondendo la propria morte. E mentre ringraziava, le sue parole si trasformarono in un’orazione funebre. Tributò un ringraziamento generale, poi uno particolare alla pazienza con la quale gli avevano impartito la loro lezione promuovendolo così a sacerdote di sesto grado. Dopo che si fu accomiatato non meno amabilmente dal mago e dall’apprendista cuoco, lasciò il luogo nel quale aveva operato per dodici mesi per essere accolto al portale nella sua nuova veste di titolare della poltrona di sesta categoria.
Il terzo invece, di nome Nuashi e senza soprannomi, pose fine all’usanza del seminario per gli animali grazie alla sua personale soluzione. Quando morì, dopo avere goduto di stima immutata per trent’anni, con lui moriva l’ultimo sacerdote che avesse conquistato la poltrona di sesto grado. Il suo nome è solido come la base del massiccio di Tambi, e quando diventerà polvere fra la polvere del popolo di Molussia, la sua fama continuerà comunque a vivere nella memoria degli animali.
Egli stesso ammise spesso, e non senza orgoglio, che nelle sue vene scorrevano gocce di sangue di mago. Ma di lui si decantano anche l’incorruttibilità di Ko e lo spirito di osservazione di Nu. Alla domanda se intendesse anche lui trattare gli animali come esseri umani, li chiamò con voce seducente, come aveva già fatto in precedenza con i suoi scolari. `Se non vogliamo che la verità cada nel vuoto’, disse, `dobbiamo sempre renderla prima attraente.’ Le bestie seguirono il suo richiamo, come già avevano fatto i suoi allievi, e attesero l’esca strofinando avidamente i becchi e i musi sul cancello. Quando tuttavia avvertirono l’odore nuovo dello sconosciuto, quasi tutti tornarono strisciando di malumore alle loro ciotole per mangiarvi rumorosamente come sempre i grassi resti della cucina reale che rendevano degne, tenere, bianche e digeribili le loro carni. Vedendo che essi non facevano ciò che era bene per loro, che anzi si preparavano a rendersi graditi alla tavola reale dopo la morte, Nuashi montò in collera. Tuttavia, invece di rimproverarli gridando come aveva fatto con i suoi scolari, rifletté su cosa li avesse allontanati dal loro destino naturale e rivolse loro qualche frase interlocutoria per placare la propria ira e rispettare a pieno le regole dell’esame prima di capire come poterle infrangere. Riuscì a mantenere un tono di voce tranquillo e non lasciò trasparire per nulla la propria irritazione; così si calmò davvero. Ma il suo discorso non era altro che una musica di accompagnamento per ciò che pensava e si prefiggeva di dire e fare agli animali, come fossero esseri umani. `Poiché non potete essere liberi’, disse, `non potete avere nemmeno la libertà di pensare. Chi non può pensare non può seguire alcun ragionamento. Sarebbe stato meglio se vi avessero lasciato nel luogo dal quale siete venuti, fuori dal cancello eretto dagli uomini, dove non avevate bisogno né di ragionamenti né degli avanzi della cucina reale. Non posso educare al pensiero coloro che prima ho punito senza motivo con la schiavitù, che ho disabituato a pensare e ho persino derubato dell’uso del gusto e dell’olfatto.’ Mentre diceva questo, aprì con cautela le porte delle gabbie. `Se mi date retta’, continuò, `e non consiglierei nient’altro ai miei allievi, dovete prendervi la vacanza che vi spetta. Gli scolari che amano le bastonate hanno bisogno di una vacanza per ricordarsi che in realtà amano di più la libertà dei boschi.’ A quel punto le porte scorrevoli delle gabbie erano spalancate e le bestie si riunirono timidamente impaurite dalla libertà e dal richiamo della vasta pianura. Alcuni si mossero lentamente e con circospezione: le tartarughe si spinsero avanti per provare che il passaggio era innocuo, seguite da altri animali che si proteggevano dietro i loro grandi carapaci. E infine un corteo silenzioso con in testa le tartarughe oltrepassò il cancello spalancato. La loro espressione era tutt’altro che trionfale; sembrava piuttosto dire: il rischio è tuo, Nuashi. Solo a poco a poco il corteo accelerò l’andatura fino a scomparire nei boschi all’orizzonte.
Dopo che Nuashi ebbe seguito l’esodo con gli occhi fino a vedere scomparire l’ultimo turbine di povere all’orizzonte, si voltò irosamente verso coloro che erano rimasti, i tacchini offesi, i fagiani permalosi, i vitelli indietreggiati per la paura davanti all’apertura del cancello e i buoi che se ne stavano lì grassi a fissarlo con occhi sbarrati. `Vi comportate come bestie’, disse come se parlasse ai suoi allievi. `Indubbiamente prima non sapevate di essere prigionieri; domani direte già che sono io che ho inventato le gabbie e la divisione del mondo in liberi e schiavi. Non avete compreso il senso della porta aperta; non siete più in grado di recuperare il vostro linguaggio e per il nostro non siete ancora pronti. Agli altri ho offerto una vacanza, ma voi siete congedati, come congedo gli allievi zelanti, grassi e stupidi che guardano l’insegnante di soppiatto e amano i regolamenti della scuola perché sono costretti a rispettarli.’ E poiché il mago era già nelle vicinanze, aggiunse anche: `Vi ho parlato come avrei fatto con i miei scolari’.
Al mostruoso paragone un pavone fece la ruota, sfarzosa e immensa, per dimostrare di non essere affatto uno scolaro, bensì un regale oggetto da mostra. Nuashi si voltò disgustato, e avvisò il cuoco con un fischio che solo i maghi sapevano emettere. Nuashi fu solennemente promosso alla poltrona di sesto grado fra grida di giubilo e contro la volontà del re.”
Quando Olo ebbe finito di raccontare cominciò a studiare la storia con Yegussa.
A studiarla con esattezza parola per parola. “Per renderla imprecisa hai trent’anni davanti a te, dopo la mia morte e finché arriverà il tuo Yegussa”, disse, “ma le premesse devono essere solide e precise.” Yegussa tuttavia imparò velocemente e con gioia: gli bastò una sola notte, che anzi giudicò un tempo troppo lungo. “Hai altre storie come questa?” chiese quando fu pronto.

Bingo o la carriera dialettica
Al mattino Olo sentì di dover concedere un po’ di svago a Yegussa dopo le richieste pressanti degli ultimi giorni. “Se ne hai voglia, puoi ordinarmi una storia a tuo piacimento. Che tipo di storia vorresti ascoltare?”
Yegussa fu molto sorpreso. “Dunque”, disse cautamente, poi tentò di formulare una ricetta che mettesse Olo in difficoltà: “La storia deve essere vera ma fiabesca e terribile ma divertente. Avanti, dunque”.
“Se è tutto qui”, rispose Olo, e probabilmente non aveva ancora la minima idea di cosa avrebbe raccontato. “Questa è esattamente la storia di Bingo, che lavorava in una miniera d’argento a Usalia. Bingo sosteneva che non c’erano difficoltà al mondo, prendeva la vita di petto, aveva sempre un atteggiamento divertito e provocatorio ed era amato in ugual modo da superiori e compagni.”
Yegussa restò sbalordito da tanta prontezza.
“Purtroppo Bingo era così amato dai suoi capi”, improvvisò ancora Olo, “che un giorno divenne un crumiro. E qui iniziò la sua carriera – vera, fiabesca, terribile e divertente.” Fece una pausa a effetto.
Yegussa sembrò aver perso la parola.
“Quando i suoi compagni videro”, continuò Olo senza la minima esitazione, “che fare i crumiri era spesso più vantaggioso che scioperare, si unirono subito a lui e Bingo non ebbe nulla da obiettare. Pretese però da loro che mettessero la solidarietà sopra a ogni cosa e che non ostacolassero mai uno sciopero da soli ma sempre e solo compatti e insieme a lui perché nessuno doveva avere un proprio vantaggio esclusivo. I compagni che lo avevano seguito si dichiararono pronti e disponibili alla solidarietà. Che fosse con gli scioperanti o con i crumiri, la solidarietà restava solidarietà e dopotutto anch’essi lavoravano per migliorare le condizioni dei paria – come dimostrava il premio per i crumiri. `Come ricompensa per la vostra solidarietà’, stabilì Bingo quando il loro numero salì a quindici, `dichiaro chiusa la nostra lista. Infatti abbiamo bisogno degli scioperanti: sono il presupposto della nostra esistenza. Quanti più lavoratori si uniscono a noi, tanto più bassa sarà la nostra tariffa per soffocare lo sciopero. Dovrebbero dunque far parte del nostro gruppo tutte le maestranze? Sapete cosa sarebbe questo? Sarebbe sabotaggio, anzi suicidio.’ Così rimasero in quindici.
Questa esclusività del gruppo di Bingo era assai gradita al comitato per lo sciopero, che inizialmente lo aveva definito il gruppo giallo. Il pericolo di perdere scioperanti veniva infatti scongiurato in modo inatteso. E accadde più di una volta che gli scioperanti si unissero ai crumiri per riportare alla ragione e costringere a scioperare un crumiro illegale, il cosiddetto `sedicesimo’.
La posizione di potere di Bingo era evidente soprattutto nel suo atteggiamento verso la direzione aziendale. Che il suo gruppo partecipasse o meno allo sciopero dipendeva ogni volta dalla adesione alle sue richieste. Era dunque facile per lui pretendere qualunque cosa: che fossero armi, indennità straordinaria per i giorni di sciopero o aumento di retribuzione la direzione glieli concedeva. E così Bingo, per quanto ufficialmente ancora un lavoratore, già dopo sei mesi era un’impresa nell’impresa, un nuovo potere che non stava né dalla parte della direzione, che sfruttava, né dalla parte dei suoi compagni, che tradiva. `Chi fa da sé fa per tre’ era il suo motto e lui faceva da sé.
Circa un anno più tardi, a cavallo di due secoli, quando la grande ondata di scioperi investì tutte le aziende usaliche, Bingo radunò i suoi quindici.
`Compagni’, così parlò, `I segni attuali sono inequivocabili. Sono quelli della sfida a cogliere al volo le occasioni dell’età moderna. Gli scioperi oggi sono diventati un fenomeno pubblico; quindi anche noi dobbiamo trasformarci in una istituzione pubblica.’
Le opinioni dei quindici erano contrastanti.
`Compagni’, continuò, `siamo un’attività ristretta, antiquata e non redditizia, remunerata da un unico imprenditore. Dobbiamo farci pagare da uno solo, quando tutti hanno bisogno di noi? E quando tutti sono pronti dall’oggi al domani a pagarci in ugual misura?
‘No’, gridarono i quindici di nuovo all’unanimità.
`Compagni! Voi siete la mia truppa scelta. Conosco personalmente ciascuno di voi.’ Estrasse una scatola dalla tasca e, passando da uno all’altro, appuntò una piccola spilla sul petto di ciascuno. `Da oggi la vostra paga è raddoppiata e ognuno di voi è un ufficiale: da domani infatti saremo 1500 e ciascuno di voi avrà cento soldati semplici sotto di sé. Siamo la brigata dei crumiri di pubblica utilità. Chi ci ricompensa è al sicuro dagli scioperi; chi ci disdegna, dovrà pagarne le conseguenze molto presto. Il nostro nome è SERVIZIO DI EMERGENZA. Servizio di emergenza su tutte le strade.’
Allora i quindici gridarono di rimando `Servizio di emergenza su tutte le strade’ e Bingo si mise al lavoro.
Quando dopo due settimane circa quaranta imprenditori si furono abbonati al servizio, anche tutti gli altri dovettero farlo, per non rischiare di rimanere esposti da soli all’emergenza di uno sciopero. La brigata aveva molto lavoro e gli imprenditori erano soddisfatti anche se la quota d’abbonamento era notevolmente superiore all’aliquota d’imposta. La quota aumentò ancora enormemente quando Bingo dopo un anno annunciò il perfezionamento del suo metodo. Infatti aveva deciso che da quel momento gli importi fossero composti da due voci. Il pagamento della quota base andava da sé come prima, in aggiunta però c’era la cosiddetta quota di omissione, in base alla quale egli si impegnava a non soffocare gli scioperi in aziende concorrenti. Naturalmente anche questa seconda quota venne sborsata da ogni imprenditore: in questo modo Bingo riuscì a mettere i padroni uno contro l’altro e ad alzare enormemente la posta. Solo gli imprenditori che pagavano di più, infatti, potevano contare sul suo aiuto, ma non sapevano mai prima quanto avessero pagato i loro concorrenti. Così facevano a gara per corrompere Bingo con cifre favolose, sempre nella speranza che la loro offerta fosse superiore a quella degli avversari. E l’impresa di Bingo fioriva.
Dopo che questa impostazione si fu consolidata, al quarto anno Bingo cominciò a ricattare le maestranze di un’azienda, dapprima in via sperimentale. Anche a loro richiese una quota di omissione in base alla quale si impegnava alla correttezza e garantiva di non impedire gli scioperi. Le maestranze, le cui casse non bastavano neppure lontanamente a procurare la somma richiesta, si rivolsero il giorno stesso alla direzione dell’azienda concorrente, che naturalmente aveva il massimo interesse alla riuscita dei loro scioperi: ricevettero immediatamente la somma e Bingo, che un’ora dopo aveva già in mano il denaro, cominciò ad applicare sistematicamente il metodo appena sperimentato con tanto successo.
Così tutte queste somme confluirono contemporaneamente nelle casse di Bingo. I giornali a lui vicini e da lui finanziati affermavano che Bingo rappresentava l’elemento veramente neutro tra i fabbricanti e i lavoratori. Per quanto ridicola possa suonare, questa menzogna nascondeva un granello di verità perché Bingo non era un imprenditore in senso proprio, ma una figura molto più moderna. Sfruttava il principio di concorrenza degli sfruttatori stessi così come la lotta di classe dei lavoratori. Non diventò milionario come membro della classe dominante, ma si arricchì sulle contraddizioni del sistema vigente. Anche la tipologia del suo lavoro si distingueva in pieno da quella dei grandi fabbricanti. Questi avevano sempre molto lavoro e quanto più grandi erano le loro imprese, tanto più gravoso diventava il loro impegno. Bingo invece faceva sempre meno man mano che il suo potere aumentava. I suoi guadagni derivavano da migliaia di omissioni favolosamente retribuite. E i membri della brigata dei crumiri, che spesso non avevano nessuno sciopero da impedire per mesi, percorrevano le strade di Usalia come ufficiali in tempo di pace: simboli di intimidazione, di prestigio e di decorazione.”
“Bingo superò anche i mesi della grande ondata di scioperi senza particolari difficoltà. È vero che apparvero allora tre blocchi concorrenti di imprenditori in fallimento, presentatisi con nome straniero, imitazioni della brigata di Bingo (`bingoisti gialli’, li chiamavano con scherno i lavoratori), che si offrivano per gli stessi servizi a cifre molto inferiori e soprattutto per intervenire laddove Bingo, profumatamente pagato per i suoi non interventi, appunto non interveniva. La loro comprensibile speranza di rimettersi in piedi grazie a questa attività non si realizzò. Bingo, che era in grado di pagare alle sue squadre una retribuzione molto più alta di quella che i concorrenti potevano sborsare per le loro, si comprò i loro uomini senza esitare, ne fece una brigata speciale, la armò pesantemente e la utilizzò per impedire la formazione di qualsiasi altra squadra di crumiri a basso prezzo.
I grandi imprenditori, che Bingo ricattava, nel complesso non furono insoddisfatti di questa soluzione. Certo la maggior parte di loro non poteva più districarsi dalla rete di Bingo e non sapeva nemmeno più esattamente chi fosse il nemico e chi l’amico, a chi dare appoggio e chi combattere per essere utili a se stessi. Tuttavia credevano che la vittoria di Bingo li avrebbe protetti per sempre dal pericolo di cadere nelle mani di una seconda organizzazione di ricattatori e vedevano tutto sommato di buon occhio la possibilità che la sua squadra diventasse la pattuglia regolare di Usalia, mantenuta grazie ai loro tributi.
Ma la loro dipendenza da Bingo era più forte di quanto immaginassero. Bingo infatti aveva investito da tempo proprio nelle loro imprese, tramite prestanome, le ingenti somme guadagnate, anche per ricavarne liquidità; in questo modo le somme che gli imprenditori gli pagavano fruttavano interessi che finivano nelle sue tasche senza che loro lo sapessero. Dapprima Bingo non rivelò questa tecnica che lo portava lentamente a diventare il padrone dei suoi padroni. Anzi, si spinse talmente in là nel camuffamento della sua tattica che una volta, all’inizio del quinto anno della sua carriera, lottò a fianco dei lavoratori. Anche questo comportamento del resto era indubbiamente coerente perché in Usalia non c’erano solo due nemici, i datori di lavoro e i lavoratori, non solo tre, essendo la concorrenza fra imprenditori una inimicizia mortale, ma infiniti e il conto delle inimicizie non si pareggiava. Un giorno saltò fuori comunque per la terza volta una squadra gialla che tentò di contendergli il monopolio. Quando questa cercò di impedire in una filanda lo sciopero di cui egli aveva garantito lo svolgimento indisturbato al direttore della filanda concorrente, Bingo fece avanzare la sua brigata speciale. La squadra gialla si ritrovò intrappolata fra i lavoratori in sciopero e la brigata di Bingo e fu completamente decimata. I rappresentanti delle maestranze in sciopero non poterono fare a meno di ringraziare pubblicamente Bingo per il suo aiuto. E anch’essi cominciarono a propugnare la statalizzazione delle sue truppe, le uniche in grado di provvedere alla pace, all’ordine e alla sicurezza delle vite umane. Dopo questo avvenimento, Bingo diventò il capo incontrastato e indiscusso di Usalia.” Così parlò Olo, poi si distese e si addormentò.

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Günther Anders, La catacomba molussica

Micaela Latini

Strana storia quella della Molussische Katakombe, il romanzo scritto da Günther Stern/Anders negli anni 1930-32, e che ha attraversato un lungo periodo di oblio. Pubblicato per la prima volta nel 1992, ben sessant’anni dopo la sua stesura, è stato recentemente edito in versione italiana dalla casa editrice Lupetti, in una traduzione di Alba Mantovani, nella collana “I rimossi”. Günther Anders è un autore da sempre rimosso, nonostante sia in crescente aumento la traduzione e la diffusione delle sue opere in Italia, e questo anche grazie alle scelte editoriali di Bollati-Boringhieri. Soprattutto il romanzo Catacomba molussica ha con la rimozione molto a che spartire. A tessere la trama di quest’opera andersiana sono un centinaio di storie tra loro intrecciate e ambientate in un paese immaginario, di nome Molussia, dominato da un sistema totalitario. L’argomento affrontato sotto traccia da Anders è la dinamica del fascismo, trattato in forma metaforica. Vi si raccontano storie di prigionieri rinchiusi in un sotterraneo, una cripta, della mai citata “Gestapo” molussiana. Alla loro memoria è affidata la trasmissione della verità. Si tratta di un sapere segreto, composto da fiabe alla Mille e una notte, da massime filosofiche, da parabole tramandate dai prigionieri della vecchia generazione (che di volta in volta assumono il nome di Olo) ai nuovi, i Yegussa che devono impararle a memoria per poi raccontarle ai nuovi arrivati e così assurgere al ruolo di Olo. Da carcerato a carcerato, da messaggero a messaggero si snoda una staffetta per la verità, attraverso la trasmissione di “corpus d’insegnamenti” necessari per la prosecuzione della battaglia per la libertà. Al centro del romanzo è una sorta di “memoria del sottosuolo”, che custodisce e preserva la verità, fino a quando, allo scoppio della rivoluzione, gli insegnamenti potranno rivedere la luce. Sono i carcerieri ad annotare questi dialoghi di vaga rimembranza platonica tra Olo e Yagoussa: «i factotum della prigione che erano costretti ad ascoltare le parole dei prigionieri giorno e notte». Anche il fittizio curatore del romanzo dichiara di scrivere in un tempo buio, di generale derisione dello spirito e dell’istupidimento generalizzato: un riferimento anche non troppo celato al nazionalsocialismo.

Come nota il curatore del romanzo, Massimo Rizzardini, «il tramandamento sotterraneo della verità, che resiste alla propaganda della menzogna, trascende l’individuo e si pone in una dimensione altra, assumendo, pagina dopo pagina, i tratti di una memoria d’oltretomba» (p. 6). Il romanzo di Anders, pronto per la stampa già all’inizio del 1933, venne inviato dall’autore, per intercessione di Brecht, all’editore Kiepenheuer. Nel frattempo però la drammatica ascesa di Hitler costrinse Anders a lasciare la Germania. Negli anni bui del nazismo, l’editore Kiepenheuer, astutamente, tenne nascosto il manoscritto sotto una carta dell’Indonesia sulla quale aveva fatto aggiungere l’isola di Molussia. Quando la Gestapo fecce irruzione nella casa editrice, requisì tutti i manoscritti, compreso quello di Anders. Ma il testo venne assolto dai censori, che leggendolo solo superficialmente e ingannati dalla carta geografica indonesiana, lo bollarono come una raccolta di “favole dei mari del sud”. Alla pubblicazione tuttavia non pervennero che due esigui frammenti del volume, intitolati Die Freiheitspost e Die Brüder. Dalla carta geografica, il romanzo finì nella carta pergamena. È così, appeso in un affumicatoio, accanto a salami e prosciutti, che venne conservato da alcuni amici di Anders, quando questi decise di abbandonare la Germania e di riparare in Francia. Fu la moglie, Hannah Arendt, che, quando decise di raggiungere il marito a Parigi, si prese la briga di portare il romanzo oltreconfine, nascondendolo tra i suoi bagagli.

Nella capitale francese Anders si dedicò con costanza e tenacia alla stesura di alcuni racconti, tra i quali spicca Learsi, una storia-odissea dell’assimilazione di chiara ascendenza kafkiana, e Der Hungermensch, sul fallimento degli intellettuali alla guida della rivoluzione capeggiata dal messicano Om. Ma ad occupare le sue energie fu anche una seconda stesura di Die Molussische Katakombe. In questi anni di esilio parigino il romanzo venne radicalmente rivisitato modificato, ampliato, anche sulla scia offerta dal confronto con Arendt, che in questo periodo era intenta al suo studio sul totalitarismo. In linea con la moglie, Anders impiega la sua energia e concentra i suoi sforzi teorici in un tentativo di spiegazione della genesi del regime e dei meccanismi che lo tengono in piedi. Di stampo didattico-politico, il romanzo di Anders risente dell’influsso delle favole di Brecht, per la tecnica del montaggio e per la critica alla ideologia. Nella versione definitiva presenta un sottotitolo molto significativo: “lezioni di menzogne”, a ribadire una fedeltà al primo titolo scelto da Anders per il suo romanzo: “Manuale di verità”. Anche la dedica iniziale, “alle persone istruite che trascurano la verità” svolge la stessa funzione.

A guardar bene il vero nucleo concettuale di quest’opera è il rapporto controverso tra verità e menzogna, tra suolo e sottosuolo, tra dimensione ctonia e mondo olimpico. In un paesaggio nel quale ogni falsità si presenta sotto le mentite spoglie della verità (“Anch’io sono sincera ogni menzogna gridava”, p. 13), ecco che la verità può aspirare a essere accolta solo se finge di essere falsa. Proprio questo intreccio di verità e menzogna fa del romanzo di Anders (definito a giusto titolo emblema delle utopie negative del XX secolo) un messaggio di questioni di stringente attualità: la necessità di scoprire in un mondo in cui è calato ogni confine tra finzione e realtà, almeno “il contenuto di verità della menzogna”.

Micaela Latini

Günther Anders, La catacomba molussica, Lupetti, Milano, 2008, euro 18

http://www.germanistica.net/2013/10/08/gunther-anders-la-catacomba-molussica/

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