François Truffaut e il ciclo Doinel – Baisers Voles (Stolen Kisses)

François Truffaut e il ciclo Doinel

a cura di
CRITICA • December 21st, 2009

articolo pubblicato su Rapporto Confidenziale numero19 (novembre 2009), pp.24-28.

 

IL TEMPO MUORE ANCHE AL CINEMA
François Truffaut e il ciclo Doinel.
di Monia Raffi

 

Nel novembre 1958, proprio nel giorno in cui morì André Bazin, François Truffaut inizia a lavorare alle riprese de Les 400 coups. Sei mesi dopo il film è presentato a Cannes, dove vince la palma d’oro: per Truffaut e i giovani cineasti della Nouvelle Vague è l’occasione di presentarsi al grande pubblico e affermare la loro presenza a livello internazionale. La pellicola sancisce il successo di un giovanissimo Truffaut e l’inizio di una carriera tutta in rapida ascesa.
Che cosa rappresenta Les 400 coups è presto detto, esso è innanzitutto una novità capace di meravigliare critica e pubblico: dal punto di vista concettuale, stilistico ed espressivo non si era mai visto niente di simile. Ed è, per la prima volta, un’opera che si occupa della storia di un ragazzo non volendo né essere un saggio pedagogico né un’opera leggera ma «mostrando la straordinaria qualità delle situazioni ordinarie».
Truffaut parla dell’adolescenza come un periodo invaso da vari dissidi, imperniando il film sul dato biografico, o, se vogliamo, sull’esperienza personale per poi raggiungere un discorso più ampio: la sordità degli adulti verso un momento difficile e l’ipocrisia di chi smette di ricordare obbiettivamente ciò che era stato. Attraverso la storia di Antoine Doinel il regista tocca i punti cardine di questa fase tanto complessa: il rapporto spesso difficile con la famiglia, l’incontro/scontro con le istituzioni e il ruolo fondamentale dell’amicizia.
La parte di Antoine Doinel viene interpretata da un giovanissimo Jean Pierre Léaud, che da questo film in poi diventerà volto fedele della Nouvelle Vague.
Truffaut lasciò molta libertà d’interpretazione al piccolo Léaud che conferì al suo personaggio un vigore e una sfrontatezza maggiore rispetto all’ Antoine concepito dal regista. Doinel, come spesso è stato detto in modo erroneo, non si pone come alter-ego del regista ma piuttosto «come un personaggio immaginario che si trova ad essere la sintesi di due persone reali».
A Les 400 coups seguiranno poi altri film che avranno come asse narrativo la figura di Antoine Doinel, che sarà seguita nelle varie fasi della vita: L’ amour à vingt ans (1962), Baisers volés (1968), Domicile conjugal (1970) e L’ amour en fuite (1979).
Il rapporto controverso con la famiglia è il motivo scatenante delle azioni di Antoine; Truffaut traccia un ritratto disarmante di una famiglia dove il figlio è sentito come un peso costante, quasi un alieno, che si è interposto laddove non era desiderato e quindi verso il quale non si ha neppure un umano dovere. La piccola casa in cui vive la famiglia, l’ingresso adibito a cameretta, proietta lo spazio misero che Antoine occupa nella vita dei genitori.
La madre è ritratta cinicamente come una donna dedita soltanto a se stessa, che trova sollievo nel mandare il figlio in riformatorio per potersene finalmente liberare; il patrigno, anche se capace di più amore rispetto alla madre, è una figura non cinica ma limitata, probabilmente davvero incapace di educare e comprendere Antoine. Gli adulti appaiono come un mondo severo e intollerante anche quando non ne avrebbe il diritto: Doinel ruba una macchina da scrivere, ma poi la restituisce perché non aveva tratto nessun vantaggio dal furto; tale gesto avrebbe dovuto già di per sé far attirare su Antoine una certa benevolenza da parte degli adulti (poiché il ragazzino avrebbe comunque potuto tenerla) ed invece crea un ascendente di malvagità nei suoi confronti: il patrigno che avvertito del furto lo conduce in caserma perché non sa più che misure adottare, l’arresto per furto e vagabondaggio e infine il riformatorio. Un intero mondo che, quindi, chiude le porte a questo nuovo figlio invece di cercare di capirlo.
Non a caso l’unica persona di cui si può fidare Antoine e l’amico Renè trasposizione cinematografica di un vero amico del regista, Robert Lachenay; Truffaut sembra non scordare che nell’ adolescenza l’ amicizia è un sentimento fondante che va a costituirsi come una nuova famiglia indipendentemente dal fatto che questa sia presente o meno. Renè è la persona ideale per divertirsi e vagabondare lungo i viali di Montmartre, e per condividere le stesse passioni, come quella per il cinema. Ma è anche l’unica persona su cui Antoine può veramente contare. René si occupa di lui come avrebbe dovuto fare la madre, gli trova un posto in cui stare quando tutti sembrano essersi scordati di lui: slanci di amicizia disinteressata che di rado si possono trovare nel mondo adulto. Esemplificativa è la sequenza in cui Renè va a trovare Antoine in riformatorio, dove non lo lasciano entrare e dove vediamo Antoine aggrapparsi al vetro nella speranza di incontrare l’unica persona che voleva veramente vedere.


La maggior parte delle esperienze che vive Antoine Doinel, sono state realmente vissute da François Truffaut, anche se in un intervallo più ampio: l’esperienza del carcere, la grande amicizia con Lachenay, il rapporto con la madre. Anche l’ambientazione, Montmartre e in particolare Pigalle, richiama i luoghi della gioventù del regista.
Il film ha una bellezza intrinseca innegabile, grazie a piani e sequenze splendidi: i titoli di testa, dove vediamo la Torre Eiffel che s’innalza tra i tetti di Parigi, l’incantevole sequenza girata al teatro dei burattini (dove Truffaut coglie con una cinepresa, opportunamente nascosta, volti ed espressioni di bambini) o il piccolo Doinel che portato in carcere lancia, dalla camionetta, gli ultimi sguardi verso un mondo che ha rappresentato fino a quel momento la sua vita e dove per la prima volta lo vediamo piangere.
Nella sequenza finale Truffaut decide di condensare tutto lo spirito del film. In primo luogo il metodo che utilizza per seguire Antoine che corre verso la spiaggia, è quello di stampo neorealista del tempo naturale: il regista accompagna, secondo dopo secondo, l’ approssimarsi del ragazzo verso la battigia, senza ellissi che potrebbero essere utili al tempo narrativo. In secondo luogo, il finale volutamente aperto fa intendere la duplicità della circostanza: da una parte quella personale di Antoine che come il mare infinito che ha davanti, ha ancora di fronte a se la vastità della vita, e dall’ altra quella narrativa, dove trapela l’ intenzione di Truffaut di una storia in progressione che è finita ma solo momentaneamente.
A quattro anni dall’ inizio delle riprese de Les 400 coups a Truffaut si presenta l’ occasione di tornare alla storia di Antoine Doinel grazie alla possibilità di partecipare ad un film collettivo: L’ amour a vingt-ans. L’ episodio di Antoine et Colette dura appena ventinove minuti, ma si scopre come un gioiello del Ciclo Doinel. Il regista si avvale dello stesso gruppo di lavoro del film precedente tra cui Suzanne Shiffman, George Delerue, Raoul Coutard, Jean-Pierre Léaud e Patrick Auffey ai quali si affianca, nel ruolo di Colette, la giovane attrice Marie-France Pisier.
Antoine ha ora diciassette anni, lavora alla Philipps, è innamorato di Colette e non manca di rendere partecipe alle sue avventure l’ amico René. La pellicola fa rivivere la cultura giovanile dei primi anni ’60, grazie ad uno spirito realistico assimilabile a Les 400 coups Truffaut descrive luoghi e costumi della Parigi dell’ epoca: i viali brulicanti di vita, i café o i cinema e insieme lo spirito di libertà e ribellione, le intense e leggere storie di vita e d’ amore.
Si delinea ancor più in profondità la figura di Doinel che in per il momento è distaccata da quella del regista. Il pubblico riceve bene la pellicola e in particolare il suo protagonista, per il quale sente di nutrire un affetto insolito: la sua insicurezza e il suo brancolare nella vita lo rendono automaticamente simpatico e vicino alla realtà ordinaria.
Con la terza pellicola incentrata sulla figura di Antoine Doinel, Truffaut, aiutato nella scrittura della sceneggiatura da Claude de Givray e Bernard Revon, svela definitivamente la sua intenzione di voler portare nel cinema un ciclo che si avvicini alla tradizione letteraria francese della Commedia umana di Balzac e dei Rougon-Macquart di Zola. Quello di Antoine in Baisers Volés, come lo definirebbe Balzac, è un debutto nella vita: terminata l’adolescenza è il momento di assumersi le proprie responsabilità e di diventare uomo sia nel lavoro sia nella sfera sentimentale. Di ritorno dal servizio militare Doinel si dimostra però come quello che si era percepito fin dai primi due episodi: la sua vita non può seguire la regolarità degli altri esseri umani perché per quanto egli tenti di costruirsi un mondo ordinario si ritrova costantemente in situazioni straordinarie. Le circostanze, però, non lo trasformano nel prototipo dell’eroe cinematografico ma altro non fanno che confermare la sua provvisorietà, il suo essere un anti-eroe; Doinel è condannato ad essere un precario dell’esistenza, un uomo terreno: se Truffaut amava affermare che il cinema lo affascinava per la possibilità di riscoprirvi i motivi di assoluto ai quali si può mirare solo nell’infanzia, con il personaggio di Doinel egli mette in scena la relatività della vita che si allontana dall’universo cinematografico dove “tutto è per sempre”.
La stessa conformazione fisica ed espressiva dell’ attore non si accomuna alla tradizione divistica; Léaud è un personaggio di stampo romantico, proveniente dal passato e mal teso verso il futuro, delle caratteristiche quindi che lo rendono più vicino all’ uomo della strada e che permettono una maggior identificazione da parte dello spettatore.
Antoine non riesce a mantenere un lavoro, se escludiamo il fidanzamento con Christine, niente della sua vita è stabile. Dopo aver lavorato in un albergo come portiere di notte, trova impiego come investigatore; a questo punto la vita reale e quella immaginaria iniziano a mescolarsi. La scelta di far lavorare Doinel nel campo delle investigazioni è, da un lato, un semplice espediente narrativo. Il lavoro dell’investigatore permette un ampio movimento di spazi che possono essere utilizzati dal regista per delineare particolari aspetti della realtà multiforme, ma, insieme, costituisce anche il pretesto che permise al Truffaut uomo di trovare il vero padre e di fargli scoprire le sue origini ebree grazie alle quali si spiegò «il suo debole per i proscritti, i martiri, gli emarginati».
L’intera pellicola è curata, com’era solito fare Truffaut, fin nei minimi particolari: dalla sceneggiatura scoppiettante ricca degli inconfondibili motivi del suo cinema, all’attenzione per i personaggi secondari in modo che avessero il sopravvento sugli eventi cosicché l’opera acquistasse inoltre la forza di una rappresentazione corale di uno scorcio di vita sul finire degli anni ’60. A questo proposito il regista fu accusato più volte di omettere l’elemento politico che segnava il periodo (siamo nel ’68, agli albori del maggio francese); in realtà il cineasta si divise animosamente tra le riprese del film e la campagna a favore di Henri Langlois che nel periodo era stato dimesso dalle sue mansioni alla Cinémathèque Française. Nel suo essere scevro da riferimenti politici, la pellicola resta, se così si può dire, un film “impegnato” non solo nel chiaro incipit che immortala la Cinémathèque sbarrata con in sovraimpressione la dedica a Langlois, ma nel fatto che lo stesso Truffaut dichiarò più volte che il successo della pellicola sarebbe stato inscindibile dall’affare Langlois. In questo modo Truffaut dimostrò anche la sua concezione del rapporto tra politica e cinema: secondo il cineasta, infatti, gli eventi politici non dovevano tangere esteticamente l’opera, ma l’evento doveva stare nello spirito stesso del film. Per Truffaut quindi parlare di politica non significa mostrare le barricate ma la possibilità di continuare a far film in un dato ambiente per provare che la vita ordinaria continua, a prescindere dal momento storico vissuto.
L’opera segue pertanto uno spirito paragonabile ai film di Renoir, innanzitutto nel suo essere politica omettendo visivamente la parte (ne La grande illusion film di Jean Renoir sul primo conflitto mondiale non è presente neppure una scena di guerra) ma anche nello spirito di straordinaria fiducia nell’essere umano. L’umanesimo di Truffaut che eredita appunto da Renoir, è da ritrovarsi in ogni suo personaggio e, in particolar modo, spicca in quest’opera nella figura di Fabienne Tabard (Delphine Seyrig) la quale ricordando le parole del padre sul letto di morte dirà: “Les gens sont fantastiques”. La fiducia nell’uomo è quindi uno dei motori portanti del muoversi di Truffaut.
Il personaggio di Fabienne viene a mostrarsi come un concentrato di aspetti truffauttiani: in primo luogo incarna l’amore secondo Truffaut, si presenta come una donna inarrivabile, un angelo o una diva da cinema verso la quale Doinel si dimostra impacciato e intimorito, mentre poi si trasforma nella donna terrena, la puttana o l’amante, che s’intrufola nel letto di un attonito Doinel.
E’ questo l’episodio più nostalgico della saga, come vuole dimostrare la stessa scelta di utilizzare un brano di Trenet, Que reste-t-il de nos amours, come colonna sonora di apertura e di estrapolarne dal testo il titolo della pellicola. Il cantante, oltre ad essere l’ emblema della francesità come lo è quest’opera di Truffaut, è, come scrisse il regista, un artista semplicemente felice che sfugge alle categorie. Per questo suo carattere possiamo accomunarlo allo spirito della saga Doinel: Antoine non è né un divo, né un uomo qualunque è semplicemente sé stesso.
Nell’ episodio successivo, Domicile Conjugal, troviamo Antoine sposato con Christine; la sua vita sembra essersi ordinata sulla linea della conformità borghese, la coppia vive i soliti drammi del quotidiano: Christine è incinta e contribuisce all’ economia familiare impartendo lezioni di violino e Antoine vende fiori. La coppia si muove in un variopinto quartiere parigino grazie al quale Truffaut può delineare la molteplicità degli aspetti della vita: la coppia di italiani che litiga sempre, l’ uomo che si è confinato in casa in attesa che De Gaulle si dimetta e via dicendo. In quest’approssimarsi di quotidianità Antoine sembra però infelice, il suo nuovo scopo è di creare un “rosso assoluto”, in questa ricerca ritroviamo il motivo di completezza come metafora dell’ ambizione di Doinel di trovare un posto stabile nel mondo.
La sua è stata un’infanzia mancata, che non gli da modo di diventare un adulto completo, ma anzi, lo fa continuare a vivere in un limbo tra infanzia ed età adulta; non essendo riuscito a trovare il “rosso assoluto” Doinel decide di cambiare lavoro per l’ ennesima volta. Trova impiego in una compagnia idraulica americana dove il suo compito è manovrare modellini di barche. Ancora una volta in contrasto con la donna, l’ uomo è il bambino che non si decide a crescere creando un suo mondo dentro un universo a sé stante; anche Kyoko, l’ amante giapponese che Doinel incontrerà proprio sul posto di lavoro, lungi dall’ essere una femme fatale è mostrata piuttosto come una bambolina, l’ ennesimo giocattolo di Antoine.
Il semplice tradimento borghese si rivela ad una lettura più profonda un malessere atavico che attanaglia Antoine: egli è stato un bambino incompleto che si è dovuto crescere da solo, è arrivato ad essere adulto senza una famiglia a sostenerlo perciò è impossibilitato ad uscire da un guscio infantile che ancora lo protegge. Se in Baisers Volés Truffaut volutamente tralascia la componente dolorosa e descrive solo la sua atipicità e la differenza come valore, in Domicile conjugal il regista riprende il motivo dell’ infanzia perduta, accomunando questo quarto episodio al primo.
A distanza di anni Antoine è ancora il bambino “solo” de Les 400 coups ed insieme un uomo profondamente disperato che accusa tuttora la mancanza di una famiglia che non gli ha permesso di inserirsi nel mondo. Pur avendone costituita una tutta sua, Antoine vaga sempre alla ricerca di “famiglie sostitutive”, la telefonata a Christine durante la cena con Kyoko non è dettata da un rimorso di fedeltà verso la moglie ma dal terrore di perdere, per l’ ennesima volta, un affetto stabile, non a caso poco prima sentiamo Doinel dire alla moglie: «tu sei la mia mamma, la mia sorellina, la mia infermiera».
Anche in quest’episodio Truffaut include l’ omaggio al cinema che mai manca nelle sue opere: Doinel telefona all’ amico Jean Eustache per avvertirlo della nascita del figlio (nel periodo Jean-Pierre Léaud lavorava anche alle riprese de La maman et la putain di Jean Eustache) e nell’ encomio a Tati nella sequenza della metropolitana dove Léaud riprende un tipico movimento da slap-stick comedy del regista di Playtime.
Tutto sommato Domicile conjugal risultò come il meno amato degli episodi del ciclo Doinel, il pubblico percepì fin troppo l’imborghesimento dell’enfant terrible del cinema francese e il ritmo latente della pellicola. Tuttavia anche questo episodio non risulta come un microcosmo a sé stante ma, come in Les 400 coups, si percepisce il fatto che risentiremo presto parlare di Doinel.
Nove anni dopo Truffaut gira il film conclusivo del ciclo Doinel, L’amour en fuite. Per la prima volta si avvale di un budget (ristrettissimo) proveniente interamente da La Carosse e ultima le riprese in soli ventotto giorni. Fin dall’inizio, però, il regista si dimostrò scettico nei confronti di una pellicola che, forse, non sentiva più sua. La particolarità del ciclo fu, infatti, quella di essere una terra di mezzo tra due vite e due carriere, quella di Truffaut e quella di Léaud. In questo caso, però, il regista non sente l’ opera come sua e la pellicola è ora più vicina alla vita di Léaud.
Antoine Doinel è ormai un uomo, ha un figlio e un divorzio alle spalle. Lavora come correttore di bozze e sta pubblicando la sua autobiografia, “Le insalate dell’amore”. Non sembra, però, sentire lo scorrere del tempo: sebbene scalfito da numerose esperienze personali non è ancora cresciuto, e il suo consueto fuggire lo avvicina non ad un uomo ma ad un bambino.
Truffaut reinserisce molti motivi che ricollegano L’ amour en fuite ai film precedenti, come la presenza di Colette, prolessi narrative ed una sequenza somigliante ad un filmato amatoriale che, però, non è presente in nessuna delle pellicole precedenti. Il regista sembra anche voler chiudere definitivamente con il passato, incontrando il patrigno e visitando la tomba della madre che è stata perdonata. Con gli occhi di un Truffaut adulto essa è immortalata non più come una donna malvagia ma come “un uccellino” e “un’ anarchica” dell’ amore.
Ciò che affascina dell’intero ciclo Doinel è lo scorrere del tempo: per la prima volta il cinema non immortala il momento assoluto ma un periodo continuato e continuo della durata di ben vent’anni. Vedere il volto di Léaud cambiare pellicola dopo pellicola, veder mutare gli ambienti e i costumi è toccante e appare strano, che colui che amava il cinema come motivo incondizionato dell’attimo, abbia voluto provare a delineare un periodo in progressione.
Di Doinel non abbiamo un’immagine ma una serie d’immagini, un’esistenza, una vita che si estingue ossia quella nata dal sodalizio tra un regista e un attore che scelsero un personaggio e lo utilizzarono come modo per unirsi e dividersi, per intrecciare due esistenze e farle sfociare in un ciclo che per vent’anni procede incerto come il suo protagonista, tra romanzesco e vita vissuta.

http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=4489http://www.rapportoconfidenziale.org/?p=4489

Baisers Vole

Baisers Voles, the third instalment in Truffaut’s cycle of films concerning his cinematic alter ego, Antoine Doinel, is a much lighter film than its two predecessors and, although a comedy, in terms of quality certainly on par with Les Quatre Cents Coups. The freewheeling episodic storyline seems to make itself up as it goes along, but entertainingly, unpredictably, and shot through with a terrific sense of nouvelle vague-style freedom! Doinel’s turn as a private detective is particularly genius. The idea that he is hired to tail the very person who hired him, Mr. Tabard, who fears that nobody likes him, immediately brings to mind the existential detectives portrayed over forty years later in I Heart Huckabees. (The fact that Isabelle Huppert starred in Huckabees does cause pause for thought about David O. Russell’s possible admiration of the new wave. Was he inspired by Baisers Voles in the first place?)

Stylistically, Baisers Voles is free-spirited and youthful as any of the early new wave films. After sticking rigidly to the script in his two previous films, Truffaut allowed himself and the cast freer rein for improvisation this time, which contributed to the naturalistic performances. The result is a film which moves fluidly from slapstick comedy to romantic lyricism and dramatic confrontation. All the while, Denys Clerval’s shell pinks, grass greens, bright yellows, shiny blacks, and pale blues are as beautiful as any watercolour tableau in Godard‘s Pierrot Le Fou, albeit more pastel — perhaps a sign of Truffaut‘s more sentimental and nostalgic approach to film?

It is probably also worth noting that in 1968, when the film was made, student demonstrations and strikes continued to rock France. Although Baisers Voles doesn’t show these events directly – except for one brief scene on TV – the film still manages to capture the rebellious mood of its time. In Antoine Doinel audiences perhaps found a kindred free spirit and responded by making this one of Truffaut’s most popular films.

http://www.newwavefilm.com/french-new-wave-encyclopedia/stolen-kisses.shtml


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