Renato Foschi, Costruire il cittadino desiderabile: le prove INVALSI e la psicopedagogia

Renato Foschi, Costruire il cittadino desiderabile: le prove INVALSI e la psicopedagogia

by gabriella

social engineeringC’è una pedagogia autoritaria dietro agli INVALSI: non si tratta di misurare competenze, ma di guidare attraverso i test la scelta delle competenze e dei saperi utili alla società di mercato del futuro. Gianni Rodari sarà ancora un autore desiderabile per questa scuola?

Apri, – gridò alla moglie, – in nome della legge.
Ma quale legge? Cosa le vuoi fare, a questa povera bambina?
Domanda piuttosto a lei cos’ha fatto. Domandale dove e come ha perso la scarpina. […]
(…) Nostra figlia è una spia, – esclamò il sor Meletti, buttandosi su una sedia. E agitando la scarpina che teneva in mano aggiunse: – Ne ho le prove. […]
Non c’è dubbio alcuno, – concluse, – nostra figlia lavora per i marziani.

Gianni Rodari, da La torta in cielo

Per una pedagogia a misura di bambino
non che misuri il bambino.

Renato Foschi

Nella introduzione alla terza edizione del suo Metodo, Maria Montessori scrisse che i test psicopedagogici somministrati ai bambini non portavano a riforme educative, ma a riforme degli esami fondate sulla misura delle abilità mentali degli allievi.

Di questi giorni è la polemica sulle prove INVALSI, dal nome dell’ente (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) deputato alla standardizzazione di test destinati agli alunni delle scuole italiane e all’analisi dei risultati. Tali prove di abilità cognitive, in particolare relative all’italiano e alla matematica, iniziano nella seconda elementare e, per follow up successivi, intendono testare le generazioni degli studenti italiani, senza discriminare a livello individuale, [il che non è esatto, visto che sono inclusi anche in prove d’esame, ndr.] con l’intento di fornire la fotografia di come funziona il sistema educativo italiano per poi modificarlo di conseguenza. Tali prove da quest’anno, sono obbligatorie per legge (art. 51 comma 2 del Decreto-Legge 9 febbraio 2012, n. 5 convertito in legge n. 35).

Si intende, il committente di questa operazione è direttamente lo Stato che, in base a tali prove, vorrebbe

“monitorare il Sistema nazionale d’Istruzione e confrontarlo con le altre realtà comunitarie ed europee”.

In particolare tali prove servirebbero a:

“ciascuno studente – perché è un diritto conoscere il livello di competenze raggiunto; le singole istituzioni scolastiche – per l’analisi della situazione al fine di mettere a punto eventuali strategie di miglioramento;  il Ministero dell’Istruzione – per operare investimenti e scelte politiche” (testo tratto da un volantino INVALSI di presentazione agli studenti delle prove).

Siamo, quindi, in un caso specifico di declinazione psicopedagogica della biopolitica per la costruzione di un sistema pedagogico che formi cittadini con determinate abilità. Non ci sarebbe da scandalizzarsi, un approccio biopolitico, come indicato da Nikolas Rose, potrebbe addirittura aiutare le istituzioni più sensibili alle esigenze dei cittadini, in linea con il benessere psicologico delle persone. C’è quindi da rimaner sereni rispetto alle prove INVALSI?

Direi proprio proprio di no, proprio la biopolitica insegna che la gestione psicofisica dei cittadini dipende dagli obiettivi che si intendono perseguire e la bontà dei metodi misurativi usati – INVALSI tra l’altro utilizza la Item Response Theory (IRT) un metodo buono per misurare le abilità cognitive ma criticabile se usato per altre misure psicosociali ha poco a che vedere con i fini ultimi della valutazione.

Il problema concreto riguarda i contenuti veicolati dai questionari, la popolazione a cui si somministrano e le concrete declinazioni politiche delle valutazioni effettuate. Il problema da esplorare è la governmentality che muove la committenza dell’INVALSI.

Procediamo con ordine.

Nel 1897, Hermann Ebbinghaus fu forse il primo noto psicologo a sviluppare un test sulle abilità mentali dei bambini delle elementari, proprio su committenza politica. Gli item sviluppati da Ebbinghaus, il cosiddetto metodo della combinazione, erano tra l’altro un materiale molto simile agli item somministrati oggi nella scuola italiana sul modello INVALSI.

Il punto è che il metodo di Ebbinghaus fu criticato quasi subito dagli stessi psicologi perché il fine del suo approccio, che avrebbe dovuto aiutare la politica ad organizzare la scuola primaria, venne immediatamente percepito come non adeguato a descrivere le “abilità psicologiche superiori” del bambino. Nacque così la tradizione della misura dell’intelligenza che, attraverso la scala Binet-Simon, ha portato al famoso QI. Una tradizione, quella del QI, che per quanto criticabile risulta oggi estremamente standardizzata, di cui conosciamo pregi e difetti e che non viene usata sulla popolazione ma solo in casi specifici che presentano indizi di problemi dell’apprendimento (tra l’altro spesso risultano utili più mirate valutazioni cognitive che lo stesso QI). Mi si obietterà che l’INVALSI non misura il QI e quindi è estraneo al dibattito sui test psicologici.

In realtà questa è solo l’apparenza, le abilità cognitive misurate da INVALSI, la capacità di lettura, di scrittura, di comprensione, ecc…sono misure formulate in modo molto simile proprio alle sottoscale dei test d’intelligenza e si ispirano, ad esempio, ai punteggi dei test PISA.

Proprio i punteggi PISA negli ultimi anni sono stati trasformati in misure di QI.

Su tali tematiche, sono stati pubblicati articoli internazionali, in riviste specializzate, che recentemente hanno creato una sorta di science war nella comunità scientifica internazionale. Sulla prestigiosa rivista Intelligence, prima Rindermann (2008) ha infatti dimostrato  la possibilità di trasformare i punteggi dei test di abilità IEA-Reading, TIMSS, PISA, PIRLS, a cui esplicitamente INVALSI si ispira, in misure di QI (Intelligence, 36, 127–142). In seguito, Lynn -iniziando dall’Italia- ha pubblicato tutta una serie di articoli in cui compara nazioni del nord e del sud del mondo dove il QI dei rispondenti – derivato dai punteggi PISA – si abbassava tanto più era bassa la geografia politica. Ecco l’abstract del suo famoso articolo sul nostro paese:

In Italy, north–south differences in IQ predict differences in income, education, infant mortality, stature, and literacy [Intelligence 38 (2010) 93–100], che ripeto crea un QI derivato dai dati PISA:

Regional differences in IQ are presented for 12 regions of Italy showing that IQs are highest in the north and lowest in the south. Regional IQs obtained in 2006 are highly correlated with average incomes at r= 0.937, and with stature, infant mortality, literacy and education. The lower IQ in southern Italy may be attributable to genetic admixture with populations from the Near East and North Africa.

Non c’è male. Un misto di pregiudizio orientalista e nordicista che si sostiene in base a trasformazioni statistiche che derivano dai punteggi PISA, già modello dell’INVALSI.

Torniamo quindi alla mission principale dell’INVALSI: migliorare il sistema educativo attraverso politiche basate sulla analisi dei suoi “questionari”.

Se i questionari misurano abilità cognitive, correlate ai test d’intelligenza, perché dovrebbero essere utili a migliorare il sistema educativo? Tali questionari ci dicono solo che un “bimbo medio” mostra tendenze centrali più o meno basse comparate ad una popolazione differente. L’unico modo per migliorare il sistema in base a tali risultati è quello di istituire una gerarchia fra popolazioni e di organizzare per la popolazione che risulterebbe deficitaria strategie tali che i cittadini di quell’insieme-popolazione raggiungano le medie dei cittadini dell’insieme-popolazione desiderata.

In pratica quella dell’INVALSI è una valutazione che non ci dice quale sia il miglior metodo pedagogico, magari con tecniche similari ai clinical trials, ma dà per scontato che “solo” certe conoscenze – veicolate dalla scuola – siano importanti, favorendo in prima battuta una omogeneizzazione delle conoscenze e una rincorsa delle scuole a raggiungere dei benchmark desiderabili. Mi chiedo “preoccupato”: sarà Gianni Rodari un autore desiderabile per la scuola del futuro?

Thomas S. Popkewitz ci aiuta ad approfondire il fenomeno in questione. Le riforme dell’educazione contemporanee portano all’idea che occorra razionalmente costruire la società attraverso il bambino-cittadino e che tale “bambino-cittadino desiderato” sia “cosmopolita”. Un bambino astratto che includa tutte le conoscenze valide in ogni Paese a capitalismo avanzato e che al contempo marchi le differenze con l’indesiderabile, l’inadatto, da modificare con apprendimenti speciali. Una vecchia storia.

Tale tendenza finalizzata alla costruzione del cittadino desiderabile non si ritrovava solo negli stati autoritari (“libro e moschetto balilla perfetto”), ma anche negli Stati Uniti quando potenti pedagogisti americani – come William Heard Kilpatrick, allievo di Dewey – criticavano proprio Montessori esponente di una diversa pedagogia, di un diverso biopotere e di un’altra governmentality. Un confronto che dura da 100 anni. Al cuore del metodo montessoriano c’è infatti la libertà e la compartecipazione del bambino nel processo pedagogico. Dimensioni che proprio non vanno giù agli adulti soprattutto quando pensano di poter trattare l’Umanità da ingegneri. Si tratta di una pedagogia a misura di bambino e non di una pedagogia che misura il bambino.

Per nostra fortuna, nonostante i quiz obbligatori per legge, il cammino montessoriano non pare ancora essersi arrestato; anzi quello montessoriano sembra un modello di psicopedagogia che forse caso unico, regge alla verifica e alla comparazione empirica della sua efficacia proprio con modelli di apprendimento classico (Science 29 September 2006: Vol. 313 no. 5795 pp. 1893-1894).

Roberto Ciccarelli, Intervista a Renato Foschi

«L’Invalsi vuole creare un bambino cosmopolita, un cittadino desiderabile per i mercati globali, che sappia cioè muoversi tra le frontiere come un moderno imprenditore di se stesso – afferma -. Chi non rientrerà in questo modello fondato su conoscenze rigide valide in tutto il mondo verrà emarginato e scomparirà. Questa è una deriva dei valori illuministici che ci richiamano a una profonda riflessione».

In cosa consistono questi test?
Sono test di abilità per verificare le capacità nella lettura e il livello di apprendimento in matematica e in inglese degli studenti italiani dalla seconda elementare fino alla maturità. Possono essere usati per verificare i disturbi di apprendimento nel bambino, ma anche per misurare la capacità delle scuole nel veicolare un pacchetto di conoscenze standarizzate che vale per tutti, a prescindere dalle culture o dalle nazioni di appartenenza. L’Invalsi pensa così di potere misurare mediamente i ragazzi di una certa scuola o di una certa regione, stabilendo una comparazione con le scuole di altre regioni o di altre nazioni. Con ogni probabilità questi test produrranno tutt’altro.

Cosa?
Pur di non essere categorizzate come inferiori, le scuole insegneranno ai bambini come superare i test Invalsi. Useranno il tempo della didattica per preapare i bambini ai quiz, un po’ come succede nella scuola guida.

Come verrano usati i risultati di questi test?

Non lo sappiamo. Questi test non verificano le carenze di una scuola, o come dovrebbe essere organizzata per migliorare l’insegnamento. Misurano solo le medie dei punteggi dei bambini e ne ricavano statistiche su base geografica.

I test nella scuola sono oggetto di un dibattito internazionale importante. In cosa consiste?
C’è chi pensa che i test Pisa, come quelli Invalsi, servano alla gestione biopolitca della popolazione dalla nascita alla tomba. E c’è chi, come Robert Lynn, un’autorità nel campo della psicologia mondiale, li ha ritenuti utili per gerarchizzare le differenze del quoziente intellettivo tra paese e paese, una visione che sfiora l’eugenetica. Lynn tra l’altro si è occupato dell’Italia nel 2010 e ha sostenuto che gli italiani del Sud sono meno intelligenti di quelli del Nord e che questo produce un’arretratezza economica. Chi ha pensato i test Invalsi critica queste posizioni e vuole dimostrare che Lynn ha torto dal punto di vista metodologico. Mi chiedo se sia corretto, dal punto di vista etico, sottoporre tutti i bambini italiani a queste prove che possono essere usate strumentalmente, per fini diversi da quello del miglioramento pedagogico.

Cosa pensa del progetto di estendere le prove Invalsi a tutti gli studenti entro il 2015 per renderli vincolanti per l’accesso all’università?

Spero che fallisca. La scuola dev’essere a misura dell’individuo e deve cercare di sviluppare la creatività che è alla base di ogni aspetto della vita sociale.

Quale metodo sceglierebbe per la valutazione degli studenti?
Quello Montessori, uno dei pochi metodi pedagogici sperimentati empiricamente. Si basa su un’organizzazione della struttura scolastica a misura di bambino. Quando vennero inventati i test, le fu chiesto di applicarli ai bambini romani. Lei si rifiutò dicendo la pedagogia doveva essere a misura del bambino, ma non doveva misurare i bambini perché non avrebbe portato a riforme pedagogiche ma solo alla riforma degli esami. Quello che sta accadendo con i test Invalsi.

http://gabriellagiudici.it/renato-foschi-costruire-il-cittadino-desiderabile-le-prove-invalsi-e-la-psicopedagogia/

Chi fa i quiz danneggia anche te, digli di smettere

by gabriella

sciopero

Nel contesto della Giornata nazionale anti-INVALSI, Martedì 13 maggio alle 17,00 i proff. Calascione e Giudici animeranno un caffé filosofico sul tema della valutazione al CVA di Ponte san Giovanni. L’incontro è aperto a studenti e cittadini.

Ho letto di recente su La Letteratura e noi che quando il filosofo e matematico Henri Poincaré fu chiamato dalla Corte di Cassazione francese a dare un parere sulle perizie calligrafiche che dovevano stabilire la colpevolezza del capitano Dreyfus nel contesto del celebre affaire, scrisse un rapporto in cui osservava che sostituire gli elementi morali con cifre è «pericoloso e vano» e che

«occorre astenersi assolutamente dall’applicare il calcolo alle cose morali»,

che definì «lo scandalo della scienza». E’ dello storico americano Irwin Thompson, invece, l’osservazione che

«ciò che veramente conta non può essere contato».

Giornata antiinvalsiDa quando li stanno imponendo alla scuola, sui test INVALSI si è scritto molto, ma non ancora abbastanza. Incollo quindi una bella intervista a Guido Armellini, per preparci allo sciopero e al pomeriggio di scuola alternativa che faremo il 13 per continuare a insegnare nella scuola che vale la pena di fare.

Mi è particolarmente piaciuto quanto Armellini dice del mestiere di insegnante:

[..] un lavoro interessante e molto impegnativo: fare domande sensate su un testo letterario non è affatto facile. Ma questo è il nostro mestiere: un artigianato che è che anche pensiero, perché implica una riflessione sul senso della letteratura e sul senso dell’insegnamento. Spesso noi insegnanti nutriamo un senso di inferiorità nei confronti del sapere accademico, sia in campo pedagogico sia in campo letterario; ma il nostro mestiere è fondato su un sapere relativamente autonomo, che certo deve interagire con gli altri, ma che ha una sua specificità. Il criterio per valutare la qualità del mio lavoro non sta nella maggiore o minore vicinanza al sapere accademico, ma nella qualità della relazione che si è instaurata fra le opere letterarie e i miei studenti. Il mio scopo non è di trasmettere agli studenti le prospettive più aggiornate e accreditate della critica, ma di aiutarli a sviluppare una loro interpretazione, che può anche andare in una direzione completamente diversa.

 

D.L.V. Oggi la presenza mediatica del tema della valutazione (prove Invalsi, rilevazioni internazionali sulla literacy) è forte. Si tratta però sempre di rilevazioni standardizzate, allo scopo di rendere i risultati comparabili su scala nazionale e internazionale. Secondo lei tutto ciò sta schiacciando l’idea della valutazione su quella della misurazione?

G. A. A me pare che i paradigmi della complessità della conoscenza, che datano ormai agli anni Novanta, diventando senso comune abbiano prodotto l’effetto contrario alle loro intenzioni. Il rapporto con la complessità avrebbe dovuto farci familiarizzare con il senso del limite, renderci umili e consapevoli della nostra ignoranza, darci insomma una vera e propria «etica del limite». Invece assistiamo a una proliferazione della volontà classificatoria, che viene estesa ad ogni ambito, non solo quello disciplinare, ma anche quello psicologico (si pensi ai disturbi dell’apprendimento), sociale, etico.

In ambito scolastico il concetto di valutazione si fa sempre più coincidere con quello di classificazione, mentre valutare è una cosa più vasta e più seria. Valutare significa dare valore. In una relazione fra esseri umani significa valorizzarsi reciprocamente: un processo che può anche essere conflittuale, ma che si può attuare pienamente solo in un clima di gratuità. C’è poi quell’aspetto specifico e a mio parere secondario della valutazione, che consiste nel classificare gli studenti (cioè nel collocarli all’interno di una “classifica” gerarchica) in base ai livelli delle loro prestazioni in ambiti che dovrebbero restare ben circoscritti e delimitati e che invece tendono ad ampliarsi a dismisura. La valutazione – anche nel suo aspetto classificatorio – dovrebbe essere un mezzo per aiutare gli studenti ad imparare; l’ossessione classificatoria rischia di trasformarla da mezzo a fine dell’apprendimento. Se la valutazione è considerata dagli studenti e dagli insegnanti un mezzo, gli studenti non nascondono i loro errori, anzi li mettono in evidenza perché sperano che l’insegnante li aiuti a superarli. Se invece la valutazione diventa il fine, gli errori vengono tenuti accuratamente nascosti per evitare giudizi negativi, e l’apprendimento ne viene gravemente ostacolato.

D.L.V.: Ma la scuola non ha sempre dato voti, non ha sempre fatto classificazioni e discriminato fra chi sa e chi non sa?

G. A. È una questione di dosi. Valutare è necessario. Anzi un ragazzo, purché si fidi dell’adulto, desidera essere valutato (e vuole a sua volta valutare l’adulto). Bisogna individuare con precisione che cosa valutare, circoscrivere gli ambiti: innanzitutto chiarire che si classificano le prestazioni e non gli esseri umani; in secondo luogo capire che è possibile classificare prestazioni semplici e non prestazioni complesse. Quanto più la valutazione classificatoria diventa invasiva, tanto più si perde di vista tutto questo. Il maestro Manzi, per polemica contro le cervellotiche schede di valutazione introdotte negli anni ottanta, scrisse sulla scheda di ogni alunno questo giudizio: «fa quello che può; quello che non può, non fa». E questo non significa che non valutasse. Continuava a farlo, ma era una valutazione “calda”, umana, globale, dialogica, non classificatoria. A mio parere, il peccato originale sta nelle teorie della valutazione degli anni Settanta e Ottanta, quando si è stabilito che per obiettivo didattico si intende ciò che è verificabile con una prova. Ma in questo modo solo ciò che si può contare conta. Io invece penso che “ciò che veramente conta non può essere contato”, come ha scritto lo storico americano Irwin Thompson.

D.L.V. E nell’insegnamento della letteratura che cosa può “essere contato” e che cosa no?

G.A. Qual è lo scopo massimo di un insegnante di letteratura, la cosa che più qualifica l’insegnamento della nostra materia? Che gli studenti, usciti dalla scuola, continuino a leggere, imparino il piacere della lettura. Ma non si può classificare il desiderio di leggere. Con la lettura c’è un rapporto di gratuità. Il nostro massimo obiettivo non può “essere contato”.

Per capire quali siano le competenze che possono essere contate e quelle che non possono esserlo, occorre ragionare sulla stessa parola «competenza». In ambito buro-pedagogico si susseguono mode linguistiche e alcune parole si caricano di un effetto salvifico, tanto da divenire polisemiche. Su quelle parole i pedagogisti e gli ispettori ministeriali proiettano tutti i propri desideri. Così, per esempio, si attribuisce al concetto di «competenza» il merito di «mettere al centro lo studente». Bella scoperta. Non ne parlavano già Montessori, Pestalozzi… ? A questo significato della parola si è aggiunto quello dei documenti europei che parlano di «competenze chiave»: competenze che – ecco qui il passaggio fondamentale – devono essere certificate. C’è un primo aspetto di tipo politico da considerare: con «competenze chiave» quei documenti intendono in prima istanza le competenze funzionali mercato del lavoro. Siamo sicuri che siano le stesse di cui dovrebbe occuparsi la scuola, che siano solo quelle le competenze necessarie a dei cittadini e a degli esseri umani per crescere e realizzare se stessi?

C’è poi un’obiezione di tipo pedagogico-didattico: in generale con «competenza» si intende un condensato di “sapere”, “saper fare” e “saper essere”: le conoscenze + le abilità + le attitudini umane. Se si leggono i documenti nazionali ed europei sul tema, fra le competenze si trovano requisiti umani encomiabili come «avere spirito d’iniziativa», «essere collaborativi», «saper lavorare in gruppo»… ma se mi prefiggo di sottoporre questi aspetti etico-sociali a una valutazione classificatoria, devo poi fornirne indicatori e descrittori di livello, individuando per esempio una tassonomia dei possibili gradi di “collaboratività”. I risultati che ho visto sono grotteschi: se si dà retta a quelle tassonomie, un ragazzo che fa seriamente il suo lavoro ma è di indole riservata e silenziosa è inesorabilmente condannato ad essere classificato ai livelli più bassi. Quando poi scendiamo nel campo delle materie scolastiche, si naviga nella nebbia. Che cosa significa, poniamo, valutare la “collaboratività” in campo letterario? La scuola è un ambito diverso dal mondo lavoro, è una zona franca, ed è un bene che sia così.

D.L.V. In un recente Quaderno della ricerca Loescher dedicato al progetto Compìta (Per una letteratura delle competenze, a cura di N. Tonelli, Loescher, 2013), a proposito delle tabelle di indicatori e descrittori delle competenze letterarie che quel progetto sta tentando di mettere a punto, lei ha osservato come «forse siano le stesse regole e convenzioni che attualmente governano il genere letterario “tassonomia pedagogica e didattica” a produrre (inevitabili?) aporie e incongruenze», tanto più in una disciplina fondata sull’interpretazione e sulla «centralità del lettore» come la letteratura. Secondo lei, nell’insegnamento della letteratura sono impossibili «formalizzazioni generalizzanti»? Lei stesso scrive in quell’intervento che oggi «l’educazione letteraria non può fare a meno del concetto di “competenza”, inteso nella sua forma più elementare di “saper fare qualcosa di (relativamente) nuovo».

G.A. Un esempio di competenza in campo letterario può essere questo: presento agli studenti un sonetto di Petrarca e uno di Dante mai visti prima e chiedo loro di provare ad attribuirli all’autore giusto sulla base delle caratteristiche del testo, spiegando i motivi dell’attribuzione. Saper riconoscere un sonetto di Petrarca e spiegare in cosa sia diverso da uno di Dante è un esercizio di contestualizzazione ed è una competenza, nel senso che lo studente dimostra di saper fare qualcosa di relativamente nuovo con ciò che sa. Ma con questo non mi occupo del «saper essere» (ad esempio della passione per la lettura), mi concentro su una consegna più specifica.

A me pare che il difetto delle tabelle del progetto Compìta sia che esse assumono come criterio ispiratore la vecchia tassonomia di Bloom, che era fondata su un’idea di apprendimento lineare ed unidirezionale, per successione di obiettivi. Ciò è paradossalmente in contrasto con le intenzioni stesse del progetto, che persegue invece un’idea di insegnamento ben lontana da quella del comportamentismo di Bloom. Ma a voler definire tutto si finisce per dover far ricorso a un complicato linguaggio misto di pedagoghese e critichese. Penso che sarebbe più utile abbandonare la presunzione dell’oggettività e dell’onnicomprensività, e camminare nella direzione dell’intersoggettività. Penso che si possa arrivare a una definizione condivisa di competenze solo costruendo un senso comune fra gli insegnanti e facendo ricorso a una terminologia univoca e semplice, che esibisca la sua convenzionalità. Nel mio ultimo libro [La letteratura in classe: l’educazione letteraria e il mestiere dell’insegnante, Milano, Unicopli, 2008, n.d.r.] ho proposto cinque competenze, descrivendole brevemente: comprendere, analizzare, contestualizzare, interpretare e riscrivere. E’ un repertorio senza pretese, al limite della banalità, ma credo che se lo si sostanzia in operazioni ben precise e adeguate ogni volta ai testi su cui si lavora possa risultare utile.

D.L.V. Proprio nel suo libro La letteratura in classe lei distingue tre forme di valutazione dello studio letterario: una tradizionale, diciamo desanctisiano-crociana, basata sull’endiadi «esporre e commentare» (contestualizzare un testo o un’opera dentro la storia della letteratura e valutarli esteticamente, anche se quest’ultima operazione si riduceva poi spesso alla ripetizione della valutazione estetica dell’insegnante o del critico); una di tipo formalistico, che lei critica apertamente perché riduce il lavoro sul testo a uno smontaggio strutturale fine a se stesso (trovare il punto di vista, le figure retoriche, …) completamente sganciato dalla molla dell’interpretazione, dal desiderio di trovare nel testo il senso per sé; una, ancora tutta da sperimentare nelle nostre classi, che lei chiama «valutazione ermeneutica». Quali sono i presupposti teorici di questo tipo di valutazione e che cosa la rende diversa sia dalla valutazione “tradizionale” sia da quella formalistica? Può farcene qualche esempio concreto?

G. A. Il limite della vecchia pedagogia formalistico-strutturalista stava nel porre come obiettivo autofinalizzato quello dello smontaggio dei testi, che invece dovrebbe restare solo un’operazione strumentale. Gli strumenti narratologici, retorici, metrici sono utili, ma non possono essere usati come fini in sé.

Propongo un esempio tratto dal mio artigianato didattico: stavo leggendo in classe (una terza di istituto tecnico) il sonetto Chi è questa che ven…, del Cavalcanti, e mi ero soffermato in particolare sul secondo verso: che fa tremar di chiaritate l’âre, con l’intenzione di far notare agli studenti che il ritorno, in posizione metricamente forte, di una vocale chiara come la a, unita all’assenza di suoni scuri come u e o, conferisce all’immagine un carattere luminoso, grazie all’alleanza tra il significato delle parole e quello dei suoni. Volevo anche sottolineare che questo fenomeno si verifica solo nella poesia, e quando c’è una certa convergenza tra il senso e il suono delle parole; a questo scopo mi ero preparato anche un contro-esempio: se, in una conversazione quotidiana, dico: “Amo tanto la pasta all’arrabbiata”, le a toniche non producono alcun effetto di luminosità. Questa era la mia intenzione. Invece il discorso si è svolto più o meno così:

PROFESSORE (scrive il verso sulla lavagna): Che cosa notate di particolare?

(pausa di silenzio).

ALUNNO A: ci sono molte r.

PROFESSORE: (preso in contropiede): Eh? Fammi un po’ guardare… (volta la schiena alla classe e verifica sulla lavagna) E’ vero. Dunque… come possiamo interpretare…

ALUNNO B (accusatorio): Leggendo le “rime petrose” lei ci ha detto che le r ripetute danno un’idea di durezza; ma qui la durezza non c’entra proprio per niente.

PROFESSORE :…

ALUNNO C: A me danno un’idea di vibrazione…

ALUNNO A: Come uno sfarfalleggiare…

ALUNNO D: Come una specie di vibrazione luminosa.

A questo punto il mio discorso sulle a poteva integrarsi tranquillamente con quello iniziato dalla classe; ma gli studenti erano già arrivati per conto loro al nocciolo del problema, confrontando le r crude e aggressive delle “rime petrose” con quelle aeree e frullanti del verso in esame.

Nel dibattito gli studenti hanno messo in atto una serie di competenze, applicando conoscenze acquisite a un testo per loro nuovo e contribuendo alla costruzione cooperativa dell’interpretazione. La questione delle a e delle erre è significativa in quel momento, nel contesto del rapporto tra me e gli studenti. Questo processo interpretativo non si presta a misurazione e classificazione, è un processo complesso, ma proprio per questo interessante. L’interpretazione non è la ripetizione dell’interpretazione di qualcun altro, ma la ricerca del significato per me / per noi, e quel significato può essere diverso per me e per gli studenti. Da questo punto di vista l’interpretazione non è una competenza che si raggiunga soltanto da grandi: è il momento centrale dell’esperienza letteraria fin dall’asilo, dalla scuola elementare, quando si iniziano ad ascoltare o a leggere i primi racconti e le prime poesie.

D.L.V. La competenza «interpretazione» come può essere valutata? Può esistere un indicatore come «sa interpretare»?

Si può valutare la capacità di interpretare, ma essa deve essere concretizzata in consegne che garantiscano un certo grado di consenso intersoggettivo (una domanda evocativa del tipo “che sentimento suscita in te questa poesia?” è rigorosamente da evitare). Finché si resta sul piano della comprensione letterale, il grado di oggettività è elevato: i leopardiani sempiterni calli hanno un significato preciso, non stanno evidentemente sulle piante dei piedi del poeta. Su questo non c’è discussione. Ma già la decisione su come valutare la comprensione letterale implica una buona dose di soggettività, perché è l’insegnante che deve decidere quanto vale il fatto di sapere o non saper riconoscere il significato di un’espressione come quella. Questa soggettività non può essere eliminata grazie a un’impossibile oggettività, piuttosto la decisione dovrebbe essere negoziata fra colleghi, risolta intersoggettivamente.

Se passiamo dalla comprensione all’interpretazione, i criteri valutativi si fanno più complessi. Un criterio fondamentale è che nella risposta siano in gioco sia il punto di vista dello studente, sia l’alterità del testo, la relazione tra i due. Posso sottoporre allo studente due giudizi critici contrapposti su un’opera, e chiedergli quale dei due condivide e perché, facendo riferimento alle valutazioni critiche, alle caratteristiche del testo in esame, e alle proprie propensioni o idiosincrasie letterarie. Un approccio di questo tipo, che parte dalla concretezza delle consegne e non dall’astrattezza degli elenchi di “obiettivi”, mi pare più utile che lambiccarsi nell’impossibile tentativo di fare una tassonomia di tutti i possibili percorsi del rapporto con un testo.

Con alcuni colleghi abbiamo lavorato sulle domande dell’analisi del testo dell’Esame di Stato (tipologia A), chiedendoci che tipo di competenze e di abilità presupponessero. La conclusione è stata che si tratta di domande a cui è quasi sempre impossibile rispondere: domande interpretative spacciate per domande di comprensione. Per esempio, a proposito dell’incipit della Luna e i falò:

“I paesi e i luoghi della propria infanzia sono indicati dal protagonista con i loro nomi propri e con insistenza. Spiegane il senso e la ragione”.

Quale sarà mai la spiegazione del senso e della ragione? Forse non la conosceva neanche Pavese. Non si possono togliere del tutto le pieghe al testo letterario («spiegare» significa proprio questo), il testo letterario ha una sua polisemia e se lo scopo è ricondurre tutto a un’unica spiegazione, a una e una sola risposta giusta, allora è meglio utilizzare altri tipi di testo. Ricordo anche una serie di domande su L’isola di Ungaretti, che è quanto di più inafferrabile ci sia in poesia, domande che presupponevano che si potesse trovare un significato univoco per ogni immagine. Ciò che capita è che persino l’insegnante che corregge la prova di italiano deve cercare di ricostruire ipoteticamente quale brano critico abbia letto l’ispettore ministeriale, perché quelle domande evidentemente presuppongono un’interpretazione precostituita. Con quei gruppi di colleghi abbiamo provato a formulare domande sensate sulla base dei cinque tipi di competenze di cui parlavo prima. È un lavoro interessante e molto impegnativo: fare domande sensate su un testo letterario non è affatto facile. Ma questo è il nostro mestiere: un artigianato che è che anche pensiero, perché implica una riflessione sul senso della letteratura e sul senso dell’insegnamento. Spesso noi insegnanti nutriamo un senso di inferiorità nei confronti del sapere accademico, sia in campo pedagogico sia in campo letterario; ma il nostro mestiere è fondato su un sapere relativamente autonomo, che certo deve interagire con gli altri, ma che ha una sua specificità. Il criterio per valutare la qualità del mio lavoro non sta nella maggiore o minore vicinanza al sapere accademico, ma nella qualità della relazione che si è instaurata fra le opere letterarie e i miei studenti. Il mio scopo non è di trasmettere agli studenti le prospettive più aggiornate e accreditate della critica, ma di aiutarli a sviluppare una loro interpretazione, che può anche andare in una direzione completamente diversa.

D.L.V. Riassumendo: la valutazione è un concetto più ampio di quello di misurazione, classificazione, certificazione. Il rischio maggiore cui stiamo andando incontro è che un’alleanza perversa fra misurabilità degli obiettivi di stampo comportamentista-cognivista e concetto di competenza esteso ad ogni aspetto delle attitudini umane, persino quelle etico-sociali, porti a moltiplicare le tassonomie e a pretendere di certificare persino qualità come la sensibilità alla lettura o la disponibilità agli altri. La valutazione ermeneutica al contrario, cerca di recuperare la complessità della valutazione ma senza cadere in questi paradossi inquietanti.

Una valutazione ermeneutica è dialogica, bidirezionale. Se io dico «Pierino non è intelligente, non comprende, non si impegna», non sto definendo Pierino, ma sto parlando di me, della qualità del mio rapporto con lui. E’ epistemologicamente scorretto trasporre questa notazione relazionale in un giudizio unidirezionale. La forma corretta è: «io e Pierino non ci capiamo, la relazione fra noi non funziona», e se Pierino è grande posso anche sottoporgli questo problema e discuterne con lui. Questo tipo di valutazione, che è fondamentale nella relazione didattica, è del tutto incompatibile con una formalizzazione classificatoria.

Venendo a ciò che invece può essere sottoposto a classificazione, bisognerebbe tener conto del grado diverso di coinvolgimento soggettivo richiesto all’insegnante dai diversi tipi di competenza. Quanto più ci si avvicina alla competenza interpretativa, tanto più entra in campo la soggettività dello studente, e di conseguenza anche quella dell’insegnante. Ovviamente è sempre l’insegnante che si assume la responsabilità finale di classificare, di dare il voto, ma il processo con cui si arriva alla valutazione è dialogico, e comporta una forte propensione all’ascolto e un altrettanto forte disponibilità allo spiazzamento.

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