Poiché noi sentendo svaniamo; ah, noi
esaliamo fino ad estinguerci; un legno che di ardore
in ardore dà sempre più tenue profumo. Uno dice:
sì, tu mi sei dentro nel sangue, questa stanza, la primavera
è ricolma di te… A che giova, non ci può trattenere,
in lui, intorno a lui dileguiamo. E quanti son belli,
o, chi li può trattenere? Senza posa sorge sembianza
sul viso loro e dispare. Come rugiada dalla tenebra erba
ciò che è nostro svapora da noi, come il calore da una
calda vivanda. O sorriso, ove tendi? O sguardo:
nuova, calda onda che sfugge al cuore-;
ahimè: eppure questo lo siamo. L’universo in cui dilaghiamo,
dissolti, ha forse sapore di noi? Afferrano gli angeli
solo del proprio che da loro promana
o talora, per una svista quasi, vi s’insinua un poco
dell’essere nostro? Siamo forse nei tratti loro
frammisti quanto il vago nei visi
di gravide donne? Non lo notano, nel turbine
del loro ritorno a se stessi. (E come notarlo).
Gli amanti potrebbero, se l’intendessero, nell’aria notturna
dire cose mirabili. Perché su di noi tutto sembra
serbare il segreto. Vedi, gli alberi sono: le case
che noi abitiamo sussistono ancora. Noi soli
come aria che si rinnova trascorriamo su tutte le cose.
E tutto in accordo ci tace, metà per
vergogna forse e metà per speranza indicibile
Rainer Maria Rilke