Uccellacci e uccellini, Primo soggetto 1965 …a prescindere

 

Uccellacci e uccellini
1965
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Primo soggetto
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Il soggetto qui di seguito riportato è apparso sulla
rivista «Vie nuove», nel 1965, sui numeri: 17 del  29 aprile,
18 del 6 maggio e 19 del 13 maggio. Il soggetto, se pur rivisto in alcuni punti, rappresenta un’indicazione abbastanza fedele
di quella che sarà la struttura definitiva del film. In
principio Pasolini aveva pensato Uccellacci e uccellini
in tre episodi, ma lo realizzerà come unico
film con «dentro» un altro film.


I
L’aigleMagari come epigrafe potremmo usare una frase di Mao che in una intervista dice pressappoco: «La Francia? Cosa vuole da noi la Francia? Appartiene forse al Terzo Mondo, ai popoli affamati? Ebbene, se è così accettiamo molto volentieri la sua amicizia…» 
Il fondo della favola è la critica della crisi del liberalismo occidentale, e, nella fattispecie, del razionalismo parigino. 
M. Cournot è il domatore di un famoso circo francese, sceso a Roma. Sta dando una intervista a dei giornalisti italiani, che naturalmente disprezza (magari non a torto…): che cosa annuncia? L’inizio di una impresa sensazionale: l’addomesticamento di un’aquila. 
Eccola là, l’aquila, ancora muta e selvaggia, in un angolo del circo che pare un Pantheon: tutt’intorno ci sono le effigi dei «grandi» francesi, messe in ordine, secondo l’importanza: Sartre come Mauriac, Claudel come Camus. In una grande parete di fronte all’aquila, l’immagine di De Gaulle. 
M. Cournot ha una moglie, una specie di Monica Vitti parigina, laica, intellettuale, ecc., e ha un piccolo aiutante, Ninetto, di Giando e di sora Maria, abitante al borghetto Prenestino. 
Cominciano così giorni memorabili al Grand Cirque de France. M. Cournot ha una tattica tutta speciale nell’affrontare l’educazione delle bestie. Prima fa, pedagogicamente, finta di niente. Si limita a dare esempi di buona educazione in loro presenza (l’aquila è là): pranza, fuma, legge il giornale. La cavia è Ninetto, l’assistente la moglie. Poi comincia piano piano, come se niente fosse, a rivolgersi alla bestia, con molta cortesia e molto tatto, ignorando educatamente il suo stato di bestialità. Insomma egli propone direttamente alla bestia come modello l’uomo parigino, (non ha sospetto della possibilità di altri modelli, nota dell’Autore). 
Egli comincia così a impartire all’aquila, nel Pantheon delle gerarchie isocefale dei Grandi, lezioni dirette di comportamento civile. 
A tu per tu con l’aquila. Due grandi concezioni antitetiche della vita che si affrontano. 
L’aquila tace, M. Cournot parla una lingua perfetta. 
L’aquila continua a tacere, e M. Cournot comincia a impazientirsi. 
L’aquila pare votata a un definitivo silenzio, e M. Cournot comincia ad asciugarsi il sudore e a sentire vacillare la propria dignità (da una parte la moglie, dall’altra l’animaletto italiano, Nino del Prenestino). 
L’aquila non lo fila proprio per niente (espressione di Ninetto), e M. Cournot è all’esasperazione. 
L’aquila pare perduta in sogni inattingibili, e M. Cournot scoppia: «Rispondi almeno! Di’ una parola! Cosa pensi, cosa fai!» e giù improperi furenti, rimproveri degni di un accademico di Francia, pronunciati con rabbia elegante degna di un XXXXXXXX: egli non è in grado di concepire quel silenzio, quello sciopero di ogni sentimento e di ogni idea, quella lontananza, quella sordità morale, quellaindifferenza al reale, quell’introversione pazzesca, quella irrazionalità. 
Ma l’aquila tace. 
Tace travolta da interessi interni intatti. 
Tace. 
M. Cournot ha allora una trovata pedagogica estrema. Fa portare nel Pantheon tutte le gabbie dove abitano gli animali addomesticati. Un leone del Mali, un serpente della Guinea, una tigre del Vietnam (la gabbia dell’Algeria è vuota; M. Cournot si raschia la gola, ehm, ehm) ecc. ecc. Ecco, lo vede, l’aquila? Tutti gli animali del Terzo Mondo (compreso Ninetto del Prenestino), parlano, e parlano educatamente, civilmente: la tigre, per esempio, non dice «Ho fame», ma «Ho un po’ di appetito». 
Ma l’aquila tace. 
«No, no, no, tu devi metterti in rapporto con me, e questo rapporto deve essere un rapporto dialettico!» urla 
M. Cournot, fuori di sé, ai limiti dell’infarto; e infatti brancola, vacilla e cade, fra le braccia della moglie che vomita ingiurie contro l’aquila (ingiurie francesi, molto istituzionalizzate: Merde, enfin!), e di Ninetto, che invece si rivolge pietoso all’aquila, nel suo dialetto che stabilisce subito un’omertà «tra poveracci», cercando di convincerla a parlare («E daje! e fa’ ‘sto sforzo!»). 
Su M. Cournot mezzo morto, si sente allora alzarsi una voce stridente e potente:«Volete proprio sapere cosa faccio?». Tutti guardano l’aquila, che si è decisa a parlare. «PREGO!». 
M. Cournot rimane profondamente scosso da quella rivelazione. 
Ed è così che comincia una seconda fase d’avvicinamento «dialettico» all’aquila. Comincia a leggerle dei testi religiosi. Pascal: no, pare che Pascal non vada bene… Forse dei poeti più moderni… a loro modo religiosi… Rimbaud… La Pacem in terris, infine… 
Durante queste letture, che M. Cournot cerca di fare con calma, con amorevolezza pedagogica verso la bestia, benché ogni tanto esploda il suo furente stato di indignazione per lo «scandaloso rapporto dialettico» della bestia con la ragione, succede però qualcosa di strano, che non sfugge all’occhio attento di Ninetto. 
Vogliamo dire che ogni tanto, M. Cournot si fissa a guardare la bestia, e rimane lì fissato, come in una specie di trance: muto anche lui. 
Ma c’è di più: quasi meccanicamente, a metà di una frase di Pascal o dell’Enciclica, M. Cournot non solo si incanta e si fissa, ma prende inavvertitamente per qualche istante lo stesso atteggiamento, e oseremmo dire, la stessa espressione dell’aquila. 
Questi, che sono momenti rapidi e fugaci, quasi inavvertibili a un occhio che non sia quello sottoproletario di Ninetto, si fanno sempre più frequenti e insistenti. Non è raro infine che succeda di vedere l’aquila e M. Cournot appollaiati una davanti all’altro, in silenzio, con la stessa espressione, con gli stessi gesti… 
Che cosa medita M. Cournot in quei lunghi silenzi regressivi? 
Un bel giorno di scatto egli esce dal Pantheon, invano trattenuto dalla signora che ora ha verso di lui l’indignazione che si ha verso le bestie e i matti e i poveri: ma M. Cournot non la sente nemmeno, se ne va, muto. Solo Ninetto, poverello, impressionato e pietoso (benché ogni tanto gli scappi di ridere) gli va appresso. 
M. Cournot prende un treno, e Ninetto dietro. Il treno parte. M. Cournot non resiste a un violento impulso, e sale sul tetto del treno, appollaiandovisi, con l’espressione remota dell’aquila. Il treno arriva in vista del Gran Sasso. M. Cournot scende, con Ninetto svociato e afflitto alle tacche, che non smette di dire battute romanesche sulla pazzia del suo principale. In mezzo a una valle sotto le cime nevose, M. Cournot si raccoglie un momento, e poi ecco che spicca un gran volo su, verso l’azzurrità dei cieli. 
Egli si libra, si libra, fatto aquila, su verso le alte vette, mentre inutilmente dalla valle, facendosi sempre più piccolo, Ninetto strilla: «A messié Cournot ‘nda’annate? A messié Cournot, ma che state a ffa! che state a ffa!». 
P.S. Ci siamo dimenticati di un particolare (a causa della fretta con cui abbiamo buttato giù questa storia, ad uso dei noleggiatori e degli esercenti, e quindi redatta in uno stile facile, convenzionale e un po’  volgare: che non si ottiene se ci si mette più di mezz’ora ogni tre cartelle). Il particolare è questo: M. Cournot è pieno di tic: sociali (quelli cioè tipici dei francesi, la pernacchietta espressiva che fanno a metà di un discorso ecc. ecc.) e personali (che sono una mezza dozzina tra i più buffi e inquietanti): ebbene, tali tic scompaiono man mano che M. Cournot regredisce allo stato irrazionale di aquila. 
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II
Faucons et moineaux
Non abbiamo presente una frase della famosa intervista di Mao, che si riferisca ai problemi della Chiesa o delle Chiese di fronte alla lotta di classe: ma pensiamo tuttavia che non sarà difficile trovarla, magari sotto forma allusiva o metaforica. Perché è proprio a questi problemi della Chiesa di fronte alla lotta di classe che, forse un po’ arcaicamente, la nostra seconda storia si riferisce. 
E ben noto come San Francesco abbia parlato agli uccelli, e, pare, con successo. 
Ebbene, ecco San Francesco, con alcuni dei suoi frati, fra cui Fra’ Marcello e il novizio Fra’ Ninetto, proprio sotto il boschetto della Porziuncola, presso Assisi, dove la tradizione vuole che egli abbia predicato agli uccelli. Sta meditando. A lungo, naturalmente nel silenzio rallegrato, appunto, da canti di uccelli. Poi alza gli occhi, e li punta su Fra’ Marcello e Fra’ Ninetto: per incaricarli dolcemente ma inappellabilmente, con la cocciutaggine dei Santi,di continuare la evangelizzazione degli uccelli. Cominciando magari da due categorie di uccelli molto diverse fra loro, per esempio i falchi, forti e prepotenti, e i passeri, indifesi e miti. 
È una parola. Intanto, Fra’ Marcello e Fra’ Ninetto non sono mica santi che possono parlare con gli uccelli in italiano e questi li capiscono lo stesso. Sono loro, che per poter predicare agli uccelli, devono cominciare a imparare le lingue uccellesche. E non si è mai saputo che un uomo abbia potuto compiere un’impresa simile. Ma chi non è nato santo deve cercare di diventarlo coi pochi mezzi che come uomo ha a disposizione. Fra’ Ninetto è uno stupidello, nato solo per cantar litanie e andar alla questua: e poi è ancora un ragazzino. Ma Fra’ Marcello è adulto, ha scarpe grosse e cervello fino. Non ha studiato, è vero, nella sua terra ciociara, ma se avesse studiato, testone e fino com’è, avrebbe potuto anche diventare uno scienziato, magari piccolo piccolo, ma scienziato. 
Con pazienza francescana e scientifica insieme, e con Ninetto storditello alle tacche, egli attraversa Assisi, e sale in cima alla rocca. Dove stridono i falchi. 
Ai piedi della rocca Fra’ Marcello e Fra’ Ninetto si accampano, e lì Fra’ Marcello comincia le sue osservazioni. Passa l’estate, viene l’inverno, torna l’estate. E Fra’ Marcello è pronto. Va in cima ad una balza, si fa il segno della croce, si raccoglie, poi comincia a stridere, a stridere. Ninetto come una scimmietta, lo imita: gli scappa da ridere, ma vince la tentazione, e con devozione aiuta il suo frate principale. 
Da principio i falchi non capiscono, poi un po’ alla volta si rendono conto della novità, e stridendo, rispondono ai richiami. È tutto uno stridere, insomma, nel cielo di Assisi. (Delle didascalie sullo schermo, tradurranno i dialoghi per gli spettatori, nota dell’Autore). I falchi più di buona volontà cominciano a radunarsi intorno, e Fra’ Marcello comincia a evangelizzarli. 

Fondu 
I falchi sono evangelizzati, conoscono ora la parola di Cristo e, falchescamente, come possono, rientrano nella grande famiglia della Chiesa Cattolica apostolica romana. Tutti contenti per il successo. Fra’ Marcello e Fra’ Ninetto pensano ora alla seconda parte della loro missione: ai passeri. 
I passeri non è difficile trovarli, vai per strada ed eccoli lì. 
I due frati scendono dalla rocca, e arrivano sulla piazza davanti alla Chiesa di San Francesco (non importa anche se c’è un evidente anacronismo, le favole non se ne sono mai curate, nota dell’Autore): dove saltellano dei passeri allegri e affamati. Fra’ Marcello comincia le sue osservazioni. Passa l’estate, viene l’inverno, torna un’altra estate. E Fra’ Marcello non ci ha ancora capito niente. 
Egli, è vero, ha imparato a cinguettare su tutti i toni. Prova a cinguettare, ma questo lascia indifferenti i passeri. Anche Ninetto cinguetta, molto abilmente e graziosamente. Ma i passeri niente. Continuano a saltellare, tic tic tic, tac tac tac, per i fatti loro. 
Come tuttavia spesse volte è accaduto, è il caso ad aiutare la scienza. Ed è l’innocenza il veicolo del caso. Ninetto un bel giorno, storditello com’è, ragazzino com’è, è preso dalla ruzza, e si mette a saltellare, imitando i passeri. E Fra’ Marcello è fulminato dalla scoperta. Ecco! I passeri non parlano cinguettando, ma saltellando! Ma sì! I loro saltelli sono regolari, tic, tic, tic, tic, tic. Bisogna studiare i loro ritmi (una specie di alfabeto Morse, insomma, nota l’Autore). E in capo a poche settimane Fra’ Marcello ha capito il linguaggio ritmico dei passeri. 
Va in mezzo alla piazza, si fa il segno della croce in raccoglimento, e comincia, saltellando, la predicazione: tic, tic, tic, tac tac tac. E Ninetto dietro a lui, imitandolo come una scimmietta, o come quando uno che non sa ballare, impara dei nuovi passi di ballo. Tic tic tic, tac tac tac. Qualche passero comincia a capire l’antifona e si accosta. 
Tic tic tic, fa saltellando, e vuol dire «Che volete?» 
Tic, tic, tac, tac, tic, tic, risponde saltellando Fra’ Marcello e vuol dire: «Portarvi la buona novella». 
Tanti passeri di buona volontà si radunano intorno, e l’evangelizzazione è così una danza, un po’ buffa, se vogliamo, ma molto innocente e quindi gradita al Signore. 

Fondu 
Anche i passeri sono evangelizzati, anch’essi conoscono la parola di Cristo, e anch’essi, passerescamente, come possono, rientrano nella grande famiglia della Chiesa. 
Tutti contenti, Fra’ Marcello e Fra’ Ninetto lasciano Assisi, e vanno a cercare San Francesco attraverso l’Umbria per raccontargli il loro grande successo. 
Camminano per bei boschetti, tra ruscelli e castelli. E, per la lietezza, Fra’ Marcello, come sa, come può, lui che non è un umbro elegante, ma un ciociaro un po’ buffo, inventa una preghiera al Signore, limitandosi a dire tutto quello che si vede intorno, come se fosse la faccia di Dio, e anche se c’è qualcosa che non va, un ragazzino che ruba le mele, o una donna che litiga col marito, pazienza. La bellezza e la grandezza di Dio è tanta, che comprende tutto. 
Ma ecco che mentre camminano tutti lieti, e un po’ esaltati dalla preghiera, vedono un falco che si precipita su un passerotto, e lo uccide. 
I due fraticelli restano senza fiato, istupiditi. Poi Fra’ Marcello scoppia in pianto, e piange, piange come un vitellino, come una donnicciola, e benché a Fra’ Ninetto scappi da ridere a vedere il frate principale piangere a quel modo, piange pure lui. 
Poi tra le lacrime Fra’ Marcello cade in ginocchio e si rivolge direttamente a Dio: «Ecco, come San Francesco mi aveva comandato, io ho evangelizzato i falchi, e ho evangelizzato i passeri, i falchi in sé ti onorano, e cosi i passeri i passeri in sé ti onorano. Ma perché un falco non riconosce in un passero un falco? Perché ci sono queste classi dei falchi e dei passeri, e c’è questa lotta fra loro? Cosa posso farci, io, povero fraticello, Dio, nel tuo nome?». 

III
Le corbeau
La «voce» giusta, aggiornata, onesta, anche profonda, o almeno profondamente comprensiva, dell’ideologia, è la voce del corvo: egli appartiene e non appartiene alla vita, comprende la vita con un distacco che è anche esclusione: ha esperienza di una vita che in fondo egli non ha, e questo lo mette in una posizione imbarazzante, povero animale parlante, di cui ha coscienza e ciò dà ancora più umanità alle sue parole, alla sua partecipazione, al suo impegno. 
Il giorno è uno di quei giorni di sole, né primavera né estate, che si fanno godere dagli uomini quasi inconsapevolmente. Il sereno, la luce, l’arietta di mare ci sono, ma è naturale che ci siano. E il mondo intorno è quello dei poveri, com’è naturale che sia. Acilia, Vitinia, le campagne verso i Castelli o verso il mare, le casette, le baracche, i lotti, i casali rustici, i ponticelli, le siepi, le radure scottate dal sole. 
Marcello e suo figlio Ninetto vanno, vanno, in quel bel giorno di sole. Vengono da un luogo povero e vanno in un altro luogo povero, a fette, cavallo di San Francesco; oppure, di tanto in tanto, con un vecchio autobus scassato. Vanno. 
Il corvo si aggiunge a loro, come un compagno di strada, irrichiesto, un po’ gratuito, imbarazzato: ma subito amico e comprensivo. Indovina subito, per scherzo, su di loro tante cose, i loro guai, le loro mire: non vuol farsi dire le ragioni di quella loro scarpinata, vuole indovinarle da solo: e ne dice tante, appunto, tutte reali; ma non azzecca, divertendosi molto, quella vera: essi vanno da una chiromante a farsi dare una medicina per far passare il verme solitario a Ninetto. Ah, ah, il corvo ride, con sua timida risata filosofica.
Presto i tre diventano buoni amici, benché i due uomini, il padre, Marcello, un uomo tosto e fantasioso, e il figlio Ninetto, un po’ stupidello, tutto riso, come un arabetto, e sulla via di ingrassarsi e intostarsi come il padre, abbiano sempre un’ambigua riserva mentale, un dissimulato sospetto «qualunquistico» nei riguardi della bestiola tutta voce. Capiscono o non capiscono? Ascoltano o non ascoltano? Bene, un po’ questo e un po’ quello, come avviene nella vita. 
Durante la lunga scarpinata per le campagne oltre la periferia, succedono tante piccole cose, tanti piccoli incidenti: che non son nulla, e insieme sono delle enormità. È il corvo che ogni volta, da ogni particolare, trae i significati: la loro portata ideologica. E lo fa con estremo pudore, poveretto, e con assoluta lucidità, che non esclude l’umanità: egli tiene sempre presente che parla con dei semplici e si adatta a loro. Sarebbe assolutamente ingiusto definirlo un «rompicojoni», eppure, in fondo, sì, in fondo, lo è. Ma no, in fondo in fondo, non lo è… 
Facciamo due o tre esempi, improvvisati (perché potremmo sceglierne anche degli altri). La mattina è avanzata, il luogo deserto. Ed ecco che padre e figlio avvertono certi stimoli, non piacevoli, per cui devono appartarsi dietro una grande siepe polverosa, perdendosi ognuno nella solitudine della sua privacy in una sorta di contemplativo raccoglimento. 
Il corvo resta la di qua della siepe, pudicamente aspettando. Ma ecco che si sentono delle urla, che si avvicinano, e poi altre urla, più rauche, e poi le voci del padre Marcello e del figlio Ninetto, che rispondono, imbarazzate, offese… Il corvo vola oltre la siepe, giusto nel momento in cui padre e figlio si aggiustano l’ultimo bottone, e un energumeno capo, seguito da altri energumeni dipendenti, sta sopraggiungendo sul luogo. A farla breve: il padrone del campo, evidentemente esasperato per una lunga consuetudine, dovuta certo all’ubicazione solitaria e accogliente della sua proprietà, ce l’ha contro i due profanatori; li insulta; li minaccia; non solo, ma pretende da loro, che, con le loro mani, portino altrove ciò che vi hanno depositato. Marcello e suo figlio, per amore di pace, avrebbero magari anche abbozzato sugli insulti e le minacce, ma a quest’ultima pretesa, si sentono passare dalla parte della ragione, e cominciano a gridare insulti a loro volta ecc. ecc. Insomma, dopo le parole si viene ai fatti, Marcello e il figlio danno un sacco di botte al contadino, e ai due tre vecchietti che erano con lui, ma al sopravvenire dei figli giovani, uno armato di fucile, se la danno a gambe, e via a tutta callara per la campagna, sotto il sole, col fiatone, e due tre fucilate che echeggiano alle spalle dietro le siepi. Ecco, da questo episodio di violenza, le corbeau, che benché irrichiesto ha partecipato con imbarazzo e timida ironia alla deplorevole situazione, trova modo di fare molte osservazioni: la violenza nel mondo contemporaneo, la sua bestialità, ciò che ne dice Freud, ciò che ne dice Marx; l’esempio di Gandhi; il dialogo tra marxisti e cattolici fondato sulla non violenza ecc. ecc. 
Mentre egli, bonariamente e con grande semplicità di linguaggio, per farsi capire dai due semplici, dice queste cose, ecco che sulla strada bianca, tre sagome nere si danno da fare intorno a un grosso cassone che si può a stento chiamare automobile. 
Sono tre napoletani illuminati negli occhi obliqui come profeti o tigri, con venti centimetri di gamba in meno, e un negro. 
Marcello e Ninetto sono chiamati  dal dovere civico a dare una mano a spingere il macchinone carico, e lo fanno, malgrado i calli, e la corsa di poco prima. Spingono, spingono per un chilometro, ma la macchina non parte. 
Tutti accasciati si riposano sul ciglio della strada, e così si va sul discorso dei calli; neanche a farlo apposta i napoletani pare abbiano un rimedio infallibile, anche se un po’ costoso, che fa sparire i calli per sempre ecc. ecc. 
A Marcello, però, glielo potrebbero dare per mille lire. Il negro lo tira fuori, Marcello, pieno di speranza l’osserva, lo palpa e infine lo compra, coi soliti discorsi del burino che fa un affare ecc. ecc. 
Appena conclusa l’operazione, i napoletani e il negro montano in macchina, e questa, sia pure scricchiolando e scoppiettando, parte. Allora padre e figlio sul ciglio della strada si tolgono scarpe e pedalini, e cominciano a ungersi i piedoni con l’unguento miracoloso. 
Ed ecco il corvo che fa la sua timida e un po’ forzata risata filosofica. «Leggete» dice, indicando la scatoletta.
Ma i due ci sfangano poco a leggere: il padre incarica il figlio, che dopo molti sforzi riesce a dire a voce alta per intero una frase incomprensibile. È il corvo che ne spiega il significato: la pomata che si stanno dando ai piedi è un antifecondativo. 
Che è questo «antifecondativo»? fanno i due. Che è il «controllo delle nascite»? (Marcello ha otto figli). 
E di qui gli ilari discorsetti del corvo; sul vero grande problema del futuro, l’eccesso di popolazione; questo problema attualmente in India, in Cina; e ancora, il problema morale che implica il controllo delle nascite; la posizione della Chiesa, il Concilio ecumenico… 
Ma sotto le sue parole, seguite dalle facce di Marcello e di Ninetto che sono un poema di curiosità vera o falsa, di cortesia doverosa e di sguardi al cielo come di chi si sente le scatole proprio rotte, di sguardi ammiccanti, tra loro, e di sguardi carichi di reale e intrattenuto rispetto verso il compagno di viaggio – ecco altri fatti, fatterelli, cose e persone di ogni giorno, nei pomeriggi di sole, nella campagna intorno a una grande città: ragazzini, nozze, soldati, fabbriche nuove di zecca, latitudine; ed ecco infine – cosa che non manca mai – su un ponticello, una prostituta. (Presenza del sottoproletariato, squilibrio fra il vecchio mondo della fame e della miseria col nuovo mondo del neo-capitale ecc. ecc. Ce n’ha da parlare il buon corvo…) 
Una masnada di facce da galera in una macchina sta passando davanti alla donnaccia, ancora mal osservabile, sul suo muretto. 
La investono con una bordata dei soliti insulti indistinti, a cui lei indistintamente risponde; poi, più vicino, la macchina dei gangster; si ferma accanto a dei giovanottelli bravi, per aizzarli contro la donna. 
Dai mezzi discorsi, si ricostruisce una cosa enorme, e cioè: la battona è là, fa la vita, per mantenere dei gatti: l’esercito di gatti affamati che vive intorno al Pantheon o a largo Argentina. 
I gatti insomma sono i suoi sostenitori, o i suoi figli, come meglio si preferisca pensare. 
I ragazzetti seguono l’incitazione dei grandi, e vanno a tormentare la battona: che è un curioso spettacolo, enorme come la Soreghina, ma zoppa, con un viso bellissimo, ma da matta. È dolce certo coi gatti suoi papponi, di cui i papponi umani sono invidiosi, ma è terribile coi rompiscatole: e infatti mette subito in fuga i ragazzini. 
Tutto questo visto fugacemente dai tre che passano. Ma ecco che Marcello, poco più in là, accusa un terribile mal di pancia (i fagioli della merenda? l’aria freschetta del mattino?): il figlio lo guarda loffio. 
Ma lui incurante si getta tra le boschine, riguadagna il posto della donna, la guarda, si mette d’accordo, vanno insieme sul posto. 
Il corvo intanto fa col figlio considerazioni umoristiche e leggere sul problema della prostituzione su quella famosa frase di Fidel Castro: «No, noi non vogliamo sopprimere con la forza le prostitute dell’Avana: esse scompariranno da sole man mano che le condizioni di vita cambieranno»; e di qui delle considerazioni più vaste sulla trasformazione «naturale» di una società dopo un’eventuale rivoluzione, a seconda delle reali condizioni storiche… 
Il padre torna, ma che è che non è, adesso è il Ninetto a essere preso da violenti attacchi di mal di pancia: devono essere stati proprio i fagioli, o la camminata mattutina sulla guazza. 
Scappa reggendosi la pancia tra le mani in mezzo alle boschine. Raggiunge la donna, si mette d’accordo, va con lei sul posto. 
Poi i tre riprendono il cammino, col corvo che prende argutamente in giro padre e figlio; egli è escluso da quella e dalle altre cose del mondo, però comprende tutto, umanamente, e quindi con humour e quasi religiosa comprensione ecc. ecc. 
Egli viene così a parlare, sempre con facilità e leggerezza, del problema del sesso nell’epoca moderna: sesso e morale arcaica o religiosa, sesso e morale reale, ovvero sesso e società contemporanea; il libero amore del primo comunismo, la rinuncia del comunismo a questa sua prima ipotesi; il moralismo marxista; lo stalinismo; la crisi del marxismo negli anni sessanta… 
«I MAESTRI SONO FATTI PER ESSERE MANGIATI IN SALSA PICCANTE» – GIORGIO PASQUALI. 
Cammina e cammina, a un certo punto, mentre il corvo continua a parlare, padre e figlio cominciano a rivolgersi delle occhiate. 
Il padre, guardando con la coda dell’occhio il corvo, apre e chiude la bocca, facendo il gesto di masticare; il figlio non capisce e strizzando gli occhi esprime in silenzio la domanda «Che?»; il padre ricomincia ad aprire e chiudere la bocca; e così il dialogo continua a lungo con cenni e ammicchi; ma i due non si capiscono perché il corvo, pur continuando a parlare, potrebbe accorgersi della loro disattenzione. 
Finché il padre si decide, chiede al corvo: «Permette?», si avvicina al figlio, e a bassa voce, come tra malandrini, gli comunica che ha fame, che si è rotto le scatole del corvo, e che gli è venuta l’idea di tirargli il collo e mangiarlo. 
Il figlio, prima è tutto una profonda colorazione di stupore, poi è subito preso e affascinato dall’idea, ed è tutto una colorazione di felicità e di dritteria. 
Detto fatto, si riavvicinano al corvo, poveretto, che questa volta non ha capito e continua, continua a parlare, gli tirano il collo, lo spennano e se lo mangiano. 
Dopo averlo mangiato, riprendono la loro strada, e vanno, vanno, di spalle per la strada bianca, verso il loro destino come nei film di Charlot. 

http://www.pasolini.net/cinema_uccellacci_a.htm

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