Lugi Capuana : Scurpiddu, Un vampiro, Giacinta, DELITTO IDEALE

Scurpiddu

I

Massaio Turi aveva incontrato il ragazzo una sera nel punto dove finisce, sul ciglione della Arcura, la scorciatoia che dal mulino di Catalfàro conduce a Bardella. Il ragazzo stava accoccolato sur un sasso, con le mani strette dietro la testa. I gomiti aguzzi gli scappavano fuori dagli sdruci delle maniche della camicia. Non aveva scarpe ai piedi. La giacchettina scolorita e stracciata era buttata là accanto.
Massaio Turi gli si era fermato davanti, domandandogli:
– Dove vai? Che fai qui?
Il ragazzo lo guardò sbigottito, grattandosi il capo.
– Come ti chiami? Di chi sei figlio?
– Mi chiamo Mommo. Sono figlio di compare Pino.
– Che fai qui?
– Niente.
– E dove vai?
– Non lo so. Vengo da Palagonía.
– Che facevi colà?
– Niente: domandavo l’elemosina.
– Bel mestiere t’insegnava tuo padre!
– È morto mio padre.
– E tua madre?
– Chi lo sa dov’è! Io guardavo i tacchini del notaio.
– Quale notaio?
– Del notaio; lo chiamano così. Mi ha mandato via.
– E perchè ti ha mandato via?
– Dice che ho perduta una tacchina.
– Dice? L’hai perduta davvero.
– È sparita. L’ho cercata tanto!
– E poi ti sei messo a domandar l’elemosina!
– Che potevo fare? Avevo fame.
– E ora come sei qui? Dove vai?
– Non lo so. A Palagonía gli altri ragazzi mi picchiavano.
– Su, prendi la giacchetta e vieni con me.
Il ragazzo obbedì. Lungo la strada, massaio Turi continuò a interrogarlo.
– Quanti anni hai?
– Nove anni.
– Vuoi allogarti per guardare i miei tacchini? Sono molti, più di cinquanta.
– E se poi ne perdo uno?
– Starai attento. Ti do da mangiare e i vestiti. Come si chiamava tuo padre?
– Compare Pino. È cascato da un albero di ulivo, l’altr’anno, prima di Natale, ed è morto. Io non c’ero.
– Ah!… Compare Pino Scagghiu. Povero diavolo! Lo conoscevo. E non hai più nessuno?
– Ho la mamma, ma non so dov’è. È andata via quando era vivo il babbo, che l’ha fatta cercare anche dai carabinieri. Chi lo sa dov’è? È andata via l’anno della mal’annata.
– Non importa. Ti farò io da padre, e mia moglie da mamma, se tu sei buono. Hai mangiato oggi?
– Mi ha dato una fetta di pane un capraio questa mattina, lassù.
E indicava la collina.
– E se non t’incontravo io, come facevi?
– Restavo là dov’ero seduto: avevo paura.
– Quanti erano i tacchini del notaio?
– Quindici.
– E le scarpe dove l’hai lasciate?
Il ragazzo sorrise, quasi si sentisse canzonato.
– Dove? – insiste massaio Turi.
– Dal calzolaio. Chi dovea comprarmele le scarpe?
E sorrise di nuovo, contento della risposta.
– Bravo!
Massaio Turi accompagnò l’approvazione con un leggero scappellotto che voleva essere una carezza.
Quel ragazzo bruno, magro, con quegli occhi neri, intelligenti e pieni di tristezza, con quei capelli neri, arruffati, che gli camminava a lato serio e fiducioso, facendo piccole sgambate per tenersi a paro dei larghi passi delle lunghe gambe del compagno, e che di tratto in tratto alzava la testa e lo guardava con occhi meravigliati e riconoscenti, lo aveva subito commosso.
In quella commozione entrava un po’ il ricordo di un figliuolo perduto due anni addietro, a nove anni, bruno e magro come quel ragazzo. Una febbre maligna gliel’avea portato via in cinque giorni, e gli aveva lasciato una gran piaga nel cuore.
In quel momento che scendevano, zitti, pel viottolo, gli sembrava che il figlio morto gli avesse mandato dal Paradiso quell’anima del Purgatorio, come egli chiamava il ragazzo nel pensier suo, e glielo raccomandasse.
Per ciò pensava pure:
– La massaia sarà contenta anche lei. Le dirò: Ce lo manda quell’angioletto!
E a voce alta soggiunse:
– Quella laggiù è la masseria.
Si vedevano tra gli alberi i tetti grigiastri del casamento e qualche finestra. Una strada larga e tortuosa, fiancheggiata da muricciuoli, serpeggiava tra i campi verdeggianti. Si udiva il campanaccio dei buoi e delle vacche che tornavano dal beveratoio, e gli abbai dei cani. Il cielo era coperto di nuvole rossicce. Una gran pace si diffondeva attorno di mano in mano che più calava la sera.
Massaio Turi e Mommo camminavano silenziosi, affrettando il passo dopo che dalla scorciatoia stretta tra due ciglioni erano sbucati nella larga strada che conduceva al beveratoio e di là, svoltando a destra, alla masseria.
Avevano raggiunto i buoi e le vacche coi vitelli che andavano lentamente, seguiti dal bovaro con la sacca a tracolla e il bastone su la spalla.
– Gesù e Maria, zi’ Girolamo!
– Gesù e Maria!
– Come va la Stellata?
– Meglio, grazie a Dio.
– Nuova-legge?
– Non zoppica più.
– E le Nonne che fanno, zi’ Girolamo?
– Ma che Nonne! Lasciatemi stare!
– Eppure la gente giura che voi siete della combriccola, e che la notte andate attorno con loro.
– Io dormo la notte, massaio mio.
– Lo so come dormite.
Massaio Turi amava scherzare col vecchio bovaro a proposito delle Nonne, esseri fantastici a cui la superstizione popolare attribuisce la facoltà di entrare nelle case pel buco della serratura, conducendo con loro quelli della combriccola, come egli diceva. Lo zi’ Girolamo parlava poco: dormiva in modo strano, seduto sul fondo di un corbello rovesciato, di estate all’aria aperta, in mezzo alle sue bestie legate a un cavicchio con una fune attaccata alle corna: d’inverno, sotto la tettoia della stalla, avvolto nel giubboncello di albagio e rannicchiato in un angolo. Così accreditava la voce diffusa tra i contadini ch’egli andasse attorno con le Nonne; se no, dicevano, avrebbe dormito come tutti gli altri cristiani, in un letto, in un giaciglio e non seduto sul fondo di un corbello.
Mommo stava a sentire, sbarrando gli occhi, guardando con un senso di paura il vecchio che di tratto in tratto lo guardava anche lui. Mommo credeva alle Nonne, ne aveva udito parlare dalla sua mamma e da altri ragazzi. La sua mamma una volta aveva raccontato alle vicine che le Nonne le avevano levato un bambino dalla culla e glielo avevano deposto sul letto. E poi quel bambino era morto.
– Cielo rosso, vento! – sentenziò lo zi’ Girolamo dopo una lunga pausa, osservando le nuvole.
Intanto giungevano vicino alla masseria. Due grossi cani erano mossi loro incontro, abbaiando e saltellando festosamente attorno al padrone. Visto il ragazzo, ringhiavano minacciosi. Massaio Turi li acchetò con la voce e col gesto, e prese per mano il ragazzo che indietreggiava dalla paura.
– Impareranno a conoscerti, – gli disse.
E rivolto allo zi’ Girolamo soggiunse:
– Ho trovato quest’anima del Purgatorio lassù. Sarà il nuzzaru.
– Se vuoi mangiar pane, qui si sta bene, figliuolo mio, – fece lo zi’ Girolamo.
– È figlio di compare Pino Scagghiu, che morì cadendo da un albero di ulivo, l’anno scorso.
Requie materna! – borbottò lo zi’ Girolamo.
I buoi e le vacche coi vitelli si erano fermati su lo spianato, ognuno al suo posto davanti il proprio cavicchio; e lo zi’ Girolamo, prendendo una delle funi, cominciò a legarla alle corna dell’animale che le era più vicino.
– Ora vi mando la minestra, – disse massaio Turi.
– Santa notte, massaio.
Davanti alla porta della casa, la massaia aspettava il suo uomo con la candela a olio già accesa. Dal camino della cucina salivano nugoli di fumo che si assottigliavano e si disperdevano per l’aria sul fondo incupito del cielo.

II

La mattina dopo, la massaia aveva condotto Mommo nel pollaio, a lato del frantoio delle ulive, per fargli la consegna dei tacchini.
All’apparire di lei con la sporta di giunco piena di becchime, le galline le si affollarono attorno chiocciando e starnazzando. Erano uscite nel vasto cortile insieme coi tacchini: ma questi restavano in disparte, quasi non si degnassero di mescolarsi con quei miseri polli che non potevano fare la ruota come loro, e forse anche perchè sapevano che quel becchime non era per loro.
– Socchiudi il cancello e conta. Sai contare?
– Sì, – rispose Mommo.
– Tieni: questa canna ti servirà per guidarli. Li condurrai lassù, dov’è quel prato: sanno la via, vedrai. Domani verrà con te il massaio a insegnarti altri posti. Questa è la colazione: ti farò una bella sacca poi; per oggi metti il pane in una tasca e il companatico nell’altra, se avrai sete, guarda, sotto quel fico, tra le macchie di rovi, là, a dritta, c’è la fontana. E i tacchini, bada! tienli sempre raccolti, per non perderli di vista. Conta dunque.
Spinti avanti dalla massaia, i tacchini cominciarono a sfilare a uno a uno, a traverso il cancello socchiuso, con gran stupore di Mommo. Erano sessantaquattro.
– Il Signore ti benedica! Io do il becchime alle galline.
I tacchini si avviarono. Mommo sollecitava con la canna quelli che si fermavano a leccare tra l’erba ai lati della strada. Arrivati sul prato, si sbrancarono a pascolare; e Mommo, che avrebbe voluto mangiare tranquillamente la sua colazione, doveva rincorrere i maschi che si allontanavano troppo; non voleva perderli di occhio. Le femmine pipiavano dimesse. Poi quando i maschi, ben pasciuti, cominciarono ad aprire le ali e a far la ruota. allungando il bernoccolo rosso pendente sul becco, egli trasse fuori dalle tasche il pane e il formaggio e cominciò a mangiare in piedi, appoggiato alla canna, dando occhiate intorno.
Vedeva arrampicati su pei fianchi della vallata di rimpetto, i buoi e le vacche e lo zi’ Girolamo seduto su un masso, immobile, quasi dormiente.
– Chi sa se è vero, – pensava Mommo, – che egli va con le Nonne?
Laggiù, nella terrazza della casa, la massaia sciorinava i panni lavati, aiutata dalla vecchia serva. Il massaio, davanti a la stalla, faceva rimettere i ferri alle mule dal maniscalco venuto apposta la mattina.
Le galline, sparse sul mucchio del concime, razzolavano al sole.
Di lassù le persone sembravano piccine piccine.
Mommo pensava alle scarpe che il massaio gli avrebbe comprato la domenica prossima, e alle camicie e al vestito promessogli dalla massaia.
Era contento di avere un bugigattolo presso il pollaio, col pagliericcio e la coperta di lana. Quel bugigattolo gli pareva già cosa sua. Egli teneva in tasca la chiave dell’uscio. Colà poteva riporre quel che voleva, senza che nessuno venisse a toccargli niente.
Era contento anche del coltellino col manico di ferro regalatogli dalla massaia per affettare il pane. Tagliava bene quel coltellino. Con esso si sarebbe fatto uno zùfolo di canna, come quello che aveva quando guardava i tacchini del notaio. Lo aveva venduto per un soldo a un ragazzo di Palagonía. Ora ne avrebbe costruito uno migliore.
Per non stare disoccupato, mentre i tacchini, sazi di pascolare, riposavano accoccolati tra le erbe, s’era messo a inseguire farfalle, a chiappare grilli: e quando ne aveva pieno il pugno, li buttava ai tacchini che si azzuffavano per beccarseli.
I tacchini rimessisi a pascolare, andavano verso la fontana, lentamente, disposti in larghe file di otto o dieci ognuna, frugando tra l’erbe, ingoiando insetti. Così potè ricontarli bene erano sessantaquattro, tre ventine e quattro, com’egli diceva.
La fontana sotto il fico che quasi la nascondeva coi suoi rami e circondata da rovi, era piccola, limpidissima, una specie di conca riparata da una grotticella scavata nel tufo, con le pareti coperte di capelvenere. Per bere bisognava chinarsi e tuffarvi le labbra. Un merlo scappò via squittendo dalle macchie di rovi, appena Mommo vi battè su con la canna.
– C’è un nido, – egli pensò.
E volle accertarsene.
Si graffiò le mani per rimuovere i tralci spinosi, ma scoprì il nido con le uova.
– Prenderò poi la covata, – disse sorridendo.
E accortosi che i tacchini erano sbucati su la strada li rincorse e li rimenò indietro nel prato.
I quattordici tacchini del notaio egli li aveva battezzati tutti con nomi diversi. Uno, il più grasso, lo aveva chiamato Notaio; un altro, Cionco, perchè gli mancavano due branche a una zampa e ciampicava; il terzo, Fra Giuseppe, dal colore delle penne somigliante a quello della tonaca del frate cappuccino che veniva in campagna, per la cerca del grano e delle ulive. A una delle tacchine aveva messo nome Signa Rosa (sora Rosa), come si chiamava la serva del notaio, e perchè era grigia come lei. Poi, c’erano la Rossa, la Monacella, la z’a Miseria, magra e malaticcia, e Senza-coda, ridotta tale dai figli del notaio che si erano divertiti a strappargliela.
Quanti mai nomi ci volevano qui! Tre ventine e quattro! Intanto uno dei tacchini poteva benissimo chiamarlo pure Notaio; era grosso e pettoruto proprio come il notaio. A quell’altro avrebbe rimesso il nome di Fra Giuseppe. Rosse c’erano più di sei tra le tacchine. Come fare? Quella più grassa, però, l’avrebbe nominata Massaia. Al resto penserebbe poi.
E, sul tardi, nell’avviare il branco verso la masseria, già adoprava quei nomi.
– Sciò, Notaio! Va diritto, Fra Giuseppe! Lesta, Massaia!
Con la canna dietro il collo e le braccia accavalcate ad essa, visto che i tacchini andavano difilato, Mommo si era messo a zufolare.
La massaia, che lo aveva scorto dalla terrazza, lo aspettava davanti al cancello del cortile per ricontare i tacchini. Di tratto in tratto, afferrava una tacchina, la tastava per accertarsi che la mattina dopo avrebbe fatto l’uovo, e le impediva di entrare con gli altri.
– Queste le faremo salire sui corbelli con la paglia appesi al muro. Domani prenderai le uova.
E le tacchine, già avvezze, appena ella spalancò l’uscio socchiuso, si avviarono verso l’uscio del pollaio, e con una volatina saltarono sui corbelli e si accovacciarono. Allora la massaia fece entrare gli altri tacchini, che andarono ad appollaiarsi sulle travi di agave conficcate agli angoli, uno accanto all’altro.
– Paiono tanti canonici al coro! – disse Mommo ridendo.
– Domattina, spazzerai il cortile. Quella è la granata. La spazzatura la butterai sul mucchio del concime, là.
– Sissignora.
Mommo intanto guardava un fascio di canne addossate a un angolo.
– Posso prenderne una? – domandò.
– Prendila.
Scelse la più grossa, la spezzò a metà. E buttò via la parte superiore.
– Mi faccio uno zùfolo.
– Prima va’ dal massaio, – rispose la padrona. – Quant’è che non ti pettini?
Mommo alzò le spalle.
Massaio Turi, seduto sullo scalino del portone del frantoio teneva sul braccio un grembiule di traliccio della serva e in mano una gran forbice.
– Vieni qua, tu che sembri un gufo con quei capellacci!
Se lo mise tra le ginocchia, gli avvolse attorno alle spalle e al petto il largo grembiule, e gli cacciò le forbici tra i capelli.
Mommo, a ogni forbiciata, aggrinzava gli occhi, ritirava il collo tra le spalle, scoteva la testa per evitare il solletico dei peli che gli cascavano su la faccia.
– Cheto! – lo sgridava il massaio.
Mommo però non poteva star fermo, sentendo su la cute il freddo della lama delle forbici che gli rasavano i capelli fino alla radice.
– Cheto!
E il massaio con una mano gli teneva la testa, e con l’altra menava attorno le forbici, quasi tosasse una pecora.
– Così non hai bisogno di pettine! – esclamò all’ultimo, soffiandogli su la faccia per mandar via i peli cadùtivi.
Mommo si passò le mani sul cucuzzolo mondo, e si trasse indietro senza dir nulla, guardando compassionevolmente i mucchietti di capelli sparsi per terra.
Tutt’a un tratto, preso da strana allegria, fece due capriole, poggiando le mani a terra e levando agilmente le gambe in aria.
Gli sembrava di essere diventato un altro, tosato a quel modo.

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Un vampiro.

— No, non ridere! — esclamò Lelio Giorgi, interrompendosi.

— Come vuoi che non rida? — rispose Mongeri. — Io non credo agli spiriti.
— Non ci credevo… e non vorrei crederci neppur io — riprese Giorgi. — Vengo da te appunto per avere la spiegazione di fatti che possono distruggere la mia felicità, e che già turbano straordinariamente la mia ragione.
— Fatti?… Allucinazioni vuoi dire. Significa che sei malato e che hai bisogno di curarti. L’allucinazione, sì, è un fatto anch’essa; ma quel che rappresenta non ha riscontro fuori di noi, nella realtà. È, per esprimermi alla meglio, una sensazione che va dall’interno all’esterno; una specie di proiezione del nostro organismo. E così l’occhio vede quel che realmente non vede; l’udito sente quel che realmente non sente. Sensazioni anteriori, accumulate spesso inconsapevolmente, si ridestano dentro di noi, si organizzano come avviene nei sogni. Perché? In che modo? Non lo sappiamo ancora… E sogniamo (è la giusta espressione) a occhi aperti. Bisogna distinguere. Vi sono allucinazioni momentanee, rapidissime che non implicano nessun disordine organico o psichico. Ve ne sono persistenti, e allora… Ma non è questo il tuo caso.
— Sì; mio e di mia moglie!.
— Non hai capito bene. Noi scienziati chiamiamo persistenti le allucinazioni dei pazzi. Non occorre, credo, che io mi spieghi con qualche esempio… Il fatto poi che siete due a soffrire la stessa allucinazione, e nello stesso momento, è un semplice caso d’induzione. Probabilmente sei tu che influisci sul sistema nervoso della tua signora.
— No; prima è stata lei.
— Allora vuol dire che il tuo sistema nervoso è più debole o ha più facile ricettività… Non arricciare il naso, poeta mio, sentendo questi vocabolacci che i vostri dizionari forse non registrano. Noi li troviamo comodi e ce ne serviamo.
— Se tu mi avessi lasciato parlare…
— Certe cose è meglio non rimescolarle. Vorresti una spiegazione dalla scienza? Ebbene, in nome di essa, io ti rispondo che, per ora, non ha spiegazioni di sorta alcuna da darti. Siamo nel campo delle ipotesi. Ne facciamo una al giorno; quella di oggi non è quella di ieri; quella di domani non sarà quella di oggi. Siete curiosi voialtri artisti! Quando vi giova, deridete la scienza, non valutate nel loro giusto valore i tentativi, gli studi, le ipotesi che pur servono a farla progredire; poi, se si dà un caso che personalmente v’interessa, pretendete che essa vi dia risposte chiare, precise, categoriche. Ci sono, pur troppo, scienziati che si prestano a questo gioco per convinzione o per vanità. Io non sono di questi. Vuoi che te la dica chiara e tonda? La scienza è la più gran prova della nostra ignoranza. Per tranquillarti, ti ho parlato di allucinazioni, di induzione, di recettività… Parole, caro mio! Più studio e più mi sento preso dalla disperazione di sapere qualcosa di certo. Sembra fatto apposta; quando gli scienziati già si rallegrano di aver constatato una legge, pàffete! ecco un fatto, una scoperta che la butta giù con un manrovescio. Bisogna rassegnarsi. E tu lascia andare, quel che accade a te e alla tua signora è accaduto a tanti altri. Passerà. Che t’importa di sapere perché e come sia avvenuto? T’inquietano forse i sogni?.
— Se tu mi permettessi di parlare…
— Parla pure, giacché vuoi sfogarti; ma ti dico anticipatamente che fai peggio. L’unico modo di vincere certe impressioni è quello di distrarsi, di sovrapporre ad esse impressioni più forti, allontanandosi dai luoghi che probabilmente han contribuito a produrle. Un diavolo scaccia l’altro: è proverbio sapientissimo.
— Lo abbiamo fatto; è stato inutile. I primi fenomeni, le prime manifestazioni più evidenti sono avvenuti in campagna, nella nostra villa di Foscolara… Siamo scappati via. Ma la stessa sera dell’arrivo in città…
— È naturale. Che distrazione poteva darvi la vostra casa? Dovevate viaggiare, far vita d’albergo, un giorno qua, un giorno là; andare attorno l’intera giornata per chiese, monumenti, musei, teatri; tornare all’albergo a sera tardi, stanchi morti…
— Abbiamo fatto anche questo, ma…
— Voi due soli, m’immagino. Dovevate cercare la compagnia di qualche amico, di una comitiva…
— Lo abbiamo fatto; non è valso a niente.
— Chi sa che comitiva!.
— Di gente allegra…
— Gente egoista vuol dire, e vi siete trovati isolatissimi in mezzo ad essa, capisco…
— Prendevamo anzi molta parte alla loro allegria, sinceramente, spensieratamente. Appena però ci trovavamo soli… Non potevamo mica condurre la comitiva a dormire con noi…
— Ma dunque dormivate? Ora non capisco più, se tu intendi parlare di allucinazioni o pure di sogni…
— E picchia con le allucinazioni, coi sogni! Eravamo svegli, con tanto di occhi spalancati, nelle più limpide funzioni dei sensi e dello spirito, come in questo momento che vorrei ragionare con te e tu ti ostini a non volermi concedere…
— Tutto quel che vuoi.
— Vorrei almeno esporti i fatti.
— Li so, me li figuro; i libri di scienza ne sono pieni zeppi. Potranno esservi diversità insignificanti nei minuti particolari… Non contano. L’essenziale natura del fenomeno non muta per ciò.
— Non vuoi darmi neppure la soddisfazione…?.
— Cento, non una, giacché ti fa piacere. Tu sei di coloro che amano di grogiolarsi nei dolori, quasi vogliano centellinarseli… È stupido, scusa!… Ma se ti fa piacere…
— Francamente, mi sembra che tu abbia paura.
— Paura di che? Sarebbe bella!…
— Paura di dover mutare opinione. Hai detto: Io non credo agli spiriti. E se, dopo, fossi costretto a crederci?.
— Ebbene, sì; questo mi seccherebbe. Che vuoi? Siamo così noi scienziati: siamo uomini, caro mio. Quando il nostro modo di vedere, di giudicare ha preso una piega, l’intelletto si rifiuta fin di prestar fede ai sensi. Anche l’intelligenza è affare di abitudine. Tu intanto mi metti con le spalle al muro. Sia. Sentiamo dunque questi famosi fatti.


— Oh!… — esclamò con un largo respiro Lelio Giorgi. — Già sai per quali tristi circostanze dovetti andarmene a cercar fortuna in America. I parenti di Luisa erano contrari alla nostra unione; come tutti i parenti — e non dico che avessero torto — anch’essi badavano, più che ad altro, alla situazione economica di colui che doveva essere il marito della loro figliuola. Non avevano fiducia nel mio ingegno; diffidavano anzi della mia pretesa qualità di poeta. Quel volumetto di versi giovanili pubblicato allora, è stato la mia maggiore disgrazia. Non che pubblicati, non ne ho scritti più da quell’anno in poi; ma anche tu, poco fa, mi hai chiamato caro poeta! L’etichetta mi è rimasta appiccata addosso, quasi fosse stata scritta con inchiostro indelebile. Basta. Suol dirsi che c’è un Dio per gli ubriachi e pei bambini. Bisognerebbe aggiungere: E talvolta anche pei poeti, giacché devo passare per poeta.
— Ecco come siete voialtri letterati! Cominciamo sempre ab ovo!.
— Non spazientirti. Ascolta. Durante la mia dimora di tre anni a Buenos Aires, non aveva più avuto nessuna notizia di Luisa. Piovutami dal cielo quell’eredità di uno zio che non s’era mai fatto vivo con me, tornai in Europa, corsi a Londra… e con dugentomila lire di cartelle della Banca d’Inghilterra volai qui… dove mi attendeva il più doloroso disinganno. Luisa era sposa da sei mesi! Ed io l’amavo più di prima!… La povera creatura aveva dovuto cedere alle insistenti pressioni dei suoi. Ci mancò poco, te lo giuro, che non commettessi una pazzia. Questi particolari, vedrai, non sono superflui… Commisi però la sciocchezza di scriverle una focosissima lettera di rimproveri, e di spedirglierla per posta. Non avevo previsto che potesse capitare in mano del marito. Il giorno dopo egli si presentò a casa mia. Compresi subito l’enormità del mio atto e mi proposi di esser calmo. Era calmo anche lui.
— Vengo a restituirle questa lettera — mi disse. — Ho aperto sbadatamente, non per indiscrezione, la busta che la conteneva; ed è stato bene che sia accaduto così. Mi hanno assicurato che lei è un gentiluomo. Rispetto il suo dolore; ma spero che lei non vorrà turbare inutilmente la pace di una famiglia. Se può fare lo sforzo di riflettere, si convincerà che nessuno ha voluto arrecarle del male volontariamente. Certe fatalità della vita non si sfuggono. Lei intende qual è ormai il suo dovere. Le dico intanto, senza spavalderia, che son risoluto a difendere a ogni costo la mia felicità domestica.
Era impallidito parlando e gli tremava la voce.
— Chiedo perdono dell’imprudenza — risposi. — E, per meglio rassicurarla, le dico che domani partirò per Parigi.
Dovevo essere più pallido di lui; le parole mi uscivano a stento di bocca. Mi stese la mano; gliela strinsi. E mantenni la parola. Sei mesi dopo, ricevevo un telegramma di Luisa: — Sono vedova. T’amo sempre. E tu? — Suo marito era morto da due mesi.
— Il mondo è così: la disgrazia di uno forma la felicità di un altro.
— È quel che egoisticamente pensai anch’io; ma non sempre è vero. Mi era parso di toccare il cielo col dito la sera delle nozze e durante i primi mesi della nostra unione. Evitammo, per tacito accordo, di parlare di colui. Luisa aveva distrutto ogni traccia del morto. Non per ingratitudine, giacché quegli, illudendosi di essere amato, aveva fatto ogni sforzo per renderle lieta la vita; ma perché temeva che l’ombra di un ricordo, anche insignificante, potesse dispiacermi. Indovinava giusto. Certe volte, il pensiero che il corpo della mia adorata era stato in pieno possesso, quantunque legittimo, di un altro mi dava tale stretta al cuore, che mi faceva fremere da capo a piedi. Mi sforzavo di nasconderglielo. Spesso però l’intuito femminile velava di malinconia i begli occhi di Luisa. E per ciò la vidi raggiante di gioia, quando ella fu sicura di potermi annunciare che un frutto del nostro amore le palpitava nel seno. Ricordo benissimo: prendevamo il caffè, io in piedi, ella seduta con una posa di dolce stanchezza. Fu quella la prima volta che un accenno al passato le sfuggì dalle labbra.
— Come sono felice — esclamò — che questo sia avvenuto soltanto ora!
Si udì un gran colpo all’uscio, quasi qualcuno vi avesse picchiato forte col pugno. Trasalimmo. Io corsi a vedere, sospettando una sbadataggine della cameriera o di un servitore; nella stanza allato non c’era nessuno.
— Vi sarà parso colpo di pugno qualche schianto forse prodotto nel legno dell’uscio dal calore della stagione.
— Diedi tale spiegazione, visto il turbamento grandissimo di Luisa; ma non ne ero convinto. Un forte senso di impaccio, non so definirlo altrimenti, si era impossessato di me e non riuscivo a celarlo. Stemmo alcuni minuti in attesa. Niente. Da quel momento in poi, però, notai che Luisa evitava di rimaner sola; il turbamento persisteva in lei, quantunque non osasse di confessarmelo, né io di interrogarla.
— E così, ora comprendo, vi siete suggestionati, inconsapevolmente, a vicenda.
— Niente affatto. Pochi giorni dopo io ridevo di quella sciocca impressione; e attribuivo allo stato interessante di Luisa l’eccessivo eccitamento nervoso che traspariva dai suoi atti. Poi parve tranquillarsi anch’essa. Avvenne il parto. Dopo qualche mese però, mi accorsi che quel senso di paura, anzi di terrore, l’aveva ripresa. La notte, tutt’a un tratto, ella si avvinghiava a me, diaccia, tremante. — Che cosa hai? Ti senti male? — le domandavo ansioso. — Ho paura… Non hai udito? — No. — Non odi?… — insistette la sera appresso. — No. — Invece quella volta udivo un fioco suono di passi per la stanza, su e giù, attorno al letto; dicevo di no per non atterrirla di più. Levavo il capo, guardavo… — Dev’essere entrato qualche topo in camera… — Ho paura!… Ho paura! — Per parecchie notti, ad ora fissa prima della mezzanotte, sempre quello scalpiccio, quell’inesplicabile andare e venire, su e giù, di persona invisibile, attorno al letto. Lo attendevamo.
— E le fantasie riscaldate facevano il resto.
— Tu mi conosci bene; non sono uomo da essere eccitato facilmente. Facevo il bravo anzi, per riguardo di Luisa; tentavo di dare spiegazioni del fatto: echi, ripercussioni di rumori lontani; accidentalità della costruzione della villa, che la rendevano stranamente sonora… Tornammo in città. Ma, la notte appresso, il fenomeno si riprodusse con maggior forza. Due volte la spalliera appiè del letto venne scossa con violenza. Balzai giù, per osservar meglio. Luisa, rannicchiata sotto le coperte, balbettava: — È lui! È lui!
— Scusa — lo interruppe Mongeri — non te lo dico per metter male tra tua moglie e te, ma io non sposerei una vedova per tutto l’oro del mondo! Qualcosa permane sempre del marito morto, a dispetto di tutto, nella vedova. Sì. — È lui! È lui! — Non già, come crede tua moglie, l’anima del defunto. È quel lui, cioè sono quelle sensazioni, quelle impressioni di lui rimaste incancellabili nelle sue carni. Siamo in piena fisiologia.
— Sia pure. Ma io — riprese Lelio Giorgi — come c’entro con la tua fisiologia?.
— Tu sei suggestionato; ora è evidente, evidentissimo.
— Suggestionato soltanto la notte? A ora fissa?.
— L’attenzione aspettante, oh! fa prodigi.
— E come mai il fenomeno varia ogni volta, con particolari imprevisti, poiché la mia immaginazione non lavora punto?.
— Ti pare. Non abbiamo sempre coscienza di quel che avviene dentro di noi. L’incosciente! Eh! Eh! fa prodigi anch’esso.
— Lasciami continuare. Riserva le tue spiegazioni a quando avrò finito. Nota che la mattina, nella giornata, noi ragionavamo del fatto con relativa tranquillità. Luisa mi rendeva conto di quel che aveva sentito lei, per raffrontarlo con quel che avevo sentito io, appunto per convincerci, come tu dici, se mai le fantasie sovraeccitate ci facessero, nostro malgrado, quel brutto scherzo. Risultava che avevamo sentito l’identico rumore di passi, nella stessa direzione, ora lento, ora accelerato; la stessa scossa alla spalliera del letto, lo stesso strappo alle coperte e nella stessissima circostanza, cioè quando io tentavo, con una carezza, con un bacio, di calmare il suo terrore, d’impedirle di gridare: — È lui! È lui! — quasi quel bacio, quella carezza provocassero lo sdegno della persona invisibile. Poi, una notte, Luisa, aggrappandosi al collo, accostando le labbra al mio orecchio, con un suono di voce che mi fece trasalire, mi sussurrò: — Ha parlato! — Che dice? — Non ho sentito bene… Odi? Ha detto: Sei mia! — E siccome anch’io la stringevo più fortemente al petto, sentii che le braccia di Luisa venivano tratte indietro, violentemente, da due mani poderose; e dovettero cedere non ostante la resistenza che mia moglie opponeva.
— Che resistenza poteva opporre, se era lei stessa che agiva in quel modo, senza averne coscienza?.
— Va bene… Ma ho sentito l’ostacolo anche io, di persona che si frapponeva tra me e lei, di persona che voleva impedire, a ogni costo, il contatto tra me e lei… Ho visto mia moglie rigettata indietro con una spinta… Giacché Luisa voleva stare in piedi, per via del bambino che dormiva nella culla accanto al letto, ora che sentivamo scricchiolare i ferri a cui la culla era sospesa e vedevamo la culla dondolare, traballare e le copertine volare via per la camera, buttate per aria malamente… Non era allucinazione questa. Le raccoglievo; Luisa, tremante, le rimetteva al posto; ma di lì a poco esse volavano per aria di nuovo, e il bambino, destato dalla scossa, piangeva. Tre notti fa, peggio… Luisa sembrava vinta dal malefico fascino di colui… Non mi udiva più, se la chiamavo, non si accorgeva di me che le stavo davanti… Parlava con colui e, dalle sue risposte, capivo quel che colui le diceva. — Che colpa ho io, se tu sei morto? Oh! no, no!… Come puoi pensarlo? Avvelenarti io?… Per sbarazzarmi di te?… È un’infamia! E il bambino che colpa ha? Soffri? Pregherò per te farò dire delle messe… Non vuoi messe?… Me, vuoi?… Ma come mai? Sei morto!… — Invano io la scotevo, la chiamavo per destarla da quella fissazione, da quell’allucinazione… Luisa si ricomponeva tutt’a un tratto. — Hai sentito? — mi diceva — Mi accusano di averlo avvelenato. Tu non ci credi… Tu non mi sospetterai capace… oh Dio! E come faremo pel bambino? Lo farà morire! Hai sentito? — Io non avevo udito niente, ma capivo benissimo che Luisa non era pazza, non delirava… Piangeva, abbracciando stretto stretto il bambino levato dalla culla per proteggerlo dal maleficio di colui — Come faremo? Come faremo?
— Il bambino però stava bene. Questo avrebbe dovuto tranquillarvi.
— Che vuoi? Non si assiste a fatti di tale natura senza che la mente più solida non ne riceva una scossa. Io non sono superstizioso, ma non sono neppure un libero pensatore. Sono di quelli che credono e non credono, che non si occupano di quistioni religiose perché non hanno tempo né voglia di occuparsene… Ma nel mio caso e sotto l’influenza delle parole di mia moglie: — Farò dire delle messe — pensai naturalmente all’intervento di un prete.
— L’hai fatta esorcizzare?.
— No, ma ho fatto ribenedire la casa, con gran spargimento di acqua benedetta… anche per impressionare l’immaginazione della povera Luisa, se mai si fosse trattato d’immaginazione esaltata, di nervi sconvolti… Luisa è credente. Tu ridi, ma avrei voluto veder te nei miei panni.
— E l’acqua benedetta?.
— Inefficace. Come se non fosse stata adoperata.
— Non l’avevi pensato male. Anche la scienza ricorre talvolta a mezzi simili nelle malattie nervose. Abbiamo il caso di quel tale che credeva gli si fosse allungato enormemente il naso. Il medico finse di fargli l’operazione, con tutto l’apparato di strumenti, di legatura di vene, di fasciature… e il malato guarì.
— L’acqua benedetta invece fece peggio. La notte dopo… Oh!… Mi sento rabbrividire al solo pensarci. Ora tutto l’odio di colui era rivolto contro il bambino… Come proteggerlo?… Appena Luisa vedeva…
— O le sembrava di vedere…
— Vedeva, caro mio, vedeva… Vedevo anche io… quasi. Giacché mia moglie non poteva più avvicinarsi alla culla; una strana forza glielo impediva… Io tremavo allo spettacolo di lei che tendeva desolatamente le braccia verso la culla, mentre colui — me lo diceva Luisa — chinato sul bambino dormente, faceva qualcosa di terribile, bocca con bocca, come se gli succhiasse la vita, il sangue… Sono tre notti di seguito che la nefanda operazione si ripete e il bambino, il caro figliuolino… non si riconosce più. Bianco, da roseo che era! come se realmente colui gli abbia aspirato il sangue; deperito in modo incredibile, in tre sole notti! È immaginazione questa? È immaginazione? Vieni a vederlo.
— Si tratta dunque?…
Il Mongeri rimase alcuni minuti pensoso, a testa bassa, aggrottando le sopracciglia. Il sorriso un po’ sarcastico e un po’ compassionevole apparsogli su le labbra mentre Lelio Grandi parlava, si era spento tutt’a un tratto. Poi alzò gli occhi, fissò l’amico che lo guardava con ansiosissima attesa e ripetè:
— Si tratta dunque?… Ascoltami bene. Io non ti spiego niente, perché sono convinto di non poter spiegarti niente. È difficile essere più schietto di così. Ma posso darti un consiglio… empirico, che forse ti farà sorridere alla tua volta, specialmente venendoti da me… Fanne l’uso che credi.
— Lo eseguirò subito, oggi stesso.
— Ci vorrà qualche giorno, per parecchie pratiche che occorrono. Ti aiuterò a sbrigarle nel più breve tempo possibile. I fatti che mi hai riferito non li metto in dubbio. Devo aggiungere che, per quanto la scienza sia ritrosa di occuparsi di fenomeni di tale natura, da qualche tempo in qua non li tratta con l’aria sprezzante di prima: tenta di farli rientrare nella cerchia dei fenomeni naturali. Per la scienza non esiste altro, all’infuori di questo mondo materiale. Lo spirito… Essa lascia che dello spirito si occupino i credenti, i mistici, i fantastici che oggi si chiamano spiritisti… Per la scienza c’è di reale soltanto l’organismo, questa compagine di carne e di ossa formante l’individuo e che si disgrega con la morte di esso, risolvendosi negli elementi chimici da cui riceveva funzionamento di vita e di pensiero. Disgregati questi… Ma appunto la quistione si riduce, secondo qualcuno, a sapere se la putrefazione, la disgregazione degli atomi, o meglio la loro funzione organica si arresti istantaneamente con la morte, annullando ipso facto la individualità, o se questa perduri, secondo i casi e le circostanze, più o meno lungamente dopo la morte… Si comincia a sospettarlo… E su questo punto la scienza verrebbe a trovarsi d’accordo con la credenza popolare… Io studio, da tre anni, i rimedi empirici delle donnicciuole, dei contadini per spiegarmi il loro valore… Essi, spessissimo, guariscono mali che la scienza non sa guarire… La mia opinione oggi sai tu qual è? Che quei rimedi empirici, tradizionali siano i resti, i frammenti della segreta scienza antica, e anche, più probabilmente, di quell’istinto che noi possiamo oggi verificare nelle bestie. L’uomo, da principio, quando era molto vicino alle bestie più che ora non sia, divinava anche lui il valore terapeutico di certe erbe: e l’uso di esse si è perpetuato, trasmesso di generazione in generazione, come nelle bestie. In queste opera ancora l’istinto; nell’uomo, dopo che lo svolgimento delle sue facoltà ha ottenebrato questa virtù primitiva, perdura unicamente la tradizione. Le donnicciuole, che sono più tenacemente attaccate ad essa, ci han conservato alcuni di quei suggerimenti della natura medicatrice; ed io credo che la scienza debba occuparsi di questo fatto, perché in ogni superstizione si nasconde qualcosa che non è unicamente fallace osservazione dell’ignoranza… Perdonami questa lunga disgressione. Quello che qualche scienziato ora ammette, cioè che, con l’atto apparente della morte di un individuo, non cessi realmente il funzionamento dell’esistenza individuale fino a che tutti gli elementi non si siano per intero disgregati, la superstizione popolare – ci serviamo di questa parola – lo ha già divinato da un pezzo con la credenza nei Vampiri, ed ha divinato il rimedio. I Vampiri sarebbero individualità più persistenti delle altre, casi rari, sì, ma possibili anche senza ammettere l’immortalità dell’anima, dello spirito… Non spalancar gli occhi, non crollare la testa… È fatto, non insolito, intorno al quale la così detta superstizione popolare – diciamo meglio – la divinazione primitiva potrebbe trovarsi d’accordo con la scienza… E sai qual è la difesa contro la malefica azione dei Vampiri, di queste persistenti individualità che credono di poter prolungare la loro esistenza succhiando il sangue o l’essenza vitale delle persone sane?… L’affrettamento della distruzione del loro corpo. Nelle località dove questo fatto si produce, le donnicciuole, i contadini corrono al cimitero, disseppelliscono il cadavere, lo bruciano… È provato che il Vampiro allora muore davvero; e infatti il fenomeno cessa… Tu dici che il tuo bambino…
— Vieni a vederlo; non si riconosce più. Luisa è pazza dal dolore e dal terrore… Mi sento impazzire pure io, anche perché invasato dal diabolico sospetto… Ma… Invano mi ripeto: Non è vero! Non può esser vero!… Invano ho tentato di confortarmi pensando: E dato pure che fosse vero?… È una gran prova d’amore. Si è fatta avvelenatrice per te!… – Invano! Non so né posso più difendermi da una vivissima repugnanza, da una straziante violenza di allontanamento, altra malefica opera di colui!… Egli insiste nel rimprovero: lo capisco dalle risposte di Luisa, quando colui la tiene sotto il suo orrido fascino, e la poverina protesta. — Avvelenarti? Io?… Come puoi crederlo?… — Oh! Non viviamo più, amico mio. Sono mesi e mesi che sopportiamo questo tormento, senza farne parola a nessuno per timore di far ridere di noi le persone che si dicono spregiudicate… Tu sei il primo a cui ho avuto il coraggio di farne la confidenza per disperazione, per invocare un consiglio, uno scampo… E avremmo ancora pazientemente sopportato tutto, lusingandoci che così strani fenomeni non avrebbero potuto prolungarsi troppo, se ora non corresse pericolo la nostra innocente creaturina.
— Fate cremare il cadavere. È una prova che m’interessa, oltre che come amico, come scienziato. Alla moglie, quantunque non più vedova, sarà facilmente concesso; ti aiuterò nelle pratiche occorrenti presso le autorità. E non mi vergogno per la scienza di cui sono un meschino cultore. La scienza non scapita di dignità ricorrendo anche all’empirismo, facendo tesoro di una superstizione, se poi potrà verificare che è superstizione soltanto in apparenza; ne riceverà impulsi a ricerche non tentate, a scoprire verità non sospettate. La scienza deve essere modesta, buona, pur di aumentare il suo patrimonio di fatti, di verità. Fate cremare il cadavere. Ti parlo seriamente — soggiunse il Mongeri, leggendo negli occhi del suo amico il dubbio di esser trattato da donnicciuola, da popolano ignorante.
— E il bambino intanto? — esclamò Lelio Giorgi torcendosi le mani. — Una notte io ebbi un impeto di furore; mi slanciai contro colui seguendo la direzione degli sguardi di Luisa, quasi egli fosse persona da potersi afferrare e strozzare; mi slanciai urlando: — Va’ via! Va’ via, maledetto!… — Ma fatti pochi passi, ero arrestato, paralizzato, inchiodato là, a distanza con le parole che mi morivano in gola e non riuscivano a tradursi neppure in indistinto mugolio… Tu non puoi credere, tu non puoi immaginare…
— Se volessi permettermi di tenervi compagnia questa notte…
— Ecco: me lo chiedi con tale accento di diffidenza…
— T’inganni.
— Forse faremo peggio: temo che la tua presenza non serva che ad irritarlo di più, come la benedizione della casa. Questa notte no. Verrò a riferirti domani…
E, il giorno dopo, egli tornò così spaventato, così disfatto che il Mongeri concepì qualche dubbio intorno all’integrità delle facoltà mentali del suo amico.
— Egli sa! — balbettò Lelio Giorgi appena entrato nello studio. — Ah, che nottata d’inferno! Luisa lo ha sentito bestemmiare, urlare, minacciare terribili gastighi se noi oseremo.
— Tanto più dobbiamo osare — rispose il Mongeri.
— Se tu avessi visto quella culla scossa, agitata in modo che io non so spiegarmi come il bambino non sia cascato per terra! Luisa ha dovuto buttarsi ginocchioni, invocando pietà, gridandogli: — Si, sarò tua, tutta tua!… Ma risparmia quest’innocente… — E in quel momento mi è parso che ogni mio legame con lei fosse rotto, ch’ella non fosse davvero più mia, ma sua, di colui!.
— Càlmati!… Vinceremo. Càlmati!… Voglio esser con voi questa notte.
Il Mongeri era andato con la convinzione che la sua presenza avrebbe impedito la manifestazione del fenomeno. Pensava: — Accade quasi sempre così. Queste forze ignote vengono neutralizzate da forze indifferenti, estranee. Accade quasi sempre così. Come? Perché? Un giorno certamente lo sapremo. Intanto bisogna osservare, studiare.


E, nelle prime ore di quella notte, accadeva proprio com’egli aveva pensato. La signora Luisa girava gli spauriti occhi attorno, tendeva ansiosamente l’orecchio… Niente. La culla rimaneva immobile: il bambino, pallido pallido, dimagrito, dormiva tranquillamente. Lelio Giorgi, frenando a stento l’agitazione, guardava ora sua moglie, ora il Mongeri che sorrideva soddisfatto.
Intanto ragionavano di cose che, nonostante la preoccupazione, arrivavano in alcuni momenti a distrarli. Il Mongeri aveva cominciato a raccontare una sua divertentissima avventura di viaggio.
Bel parlatore, senza nessun’affettazione di gravità scientifica, egli intendeva di deviare così l’attenzione di quei due, e intanto non perderli d’occhio, per notare tutte le fasi del fenomeno caso mai dovesse ripetersi, e già cominciava a persuadersi che il suo intervento sarebbe stato salutare, quando nell’istante che il suo sguardo si era rivolto verso la culla, egli si accorse di un lieve movimento di essa, il quale non poteva esser prodotto da nessuno di loro perché la signora Luisa e Lelio gli sedevano dirimpetto e discosti dal posto dov’era la culla. Non poté far a meno di fermarsi, di farsi scorgere, e allora Luisa e Lelio balzarono in piedi.
Il movimento era aumentato gradatamente e quando la signora Luisa si volse a guardare là, dove gli occhi di Mongeri si erano involontariamente fissati, la culla si dondolava e sobbalzava.
— Eccolo! — ella gridò. — Oh, Dio! Povero figliuolino!
Fece per accorrere, ma non poté. E cadde rovesciata su la poltrona dov’era stata seduta fin allora. Pallidissima, scossa da un fremito per tutta la persona, con gli occhi sbarrati e le pupille immobili, balbettava qualcosa che le gorgogliava nella gola e non prendeva suono di parola, e sembrava dovesse soffocarla.
— Non è niente! — disse Mongeri, levatosi in piedi anche lui e stringendo la mano di Lelio che gli si era accostato con vivissimo atto di terrore, quasi per difesa.
La signora Luisa, irrigiditasi un istante, ebbe un tremito più violento e subito parve ritornasse allo stato ordinario; se non che la sua attenzione era tutta diretta a guardare qualcosa che gli altri due non scorgevano, a prestar ascolto a parole che quelli non udivano, e delle quali indovinavano il senso dalle risposte di lei.
— Perché dici che voglio continuare a farti del male?… Ho pregato per te!… Ho fatto dir delle messe!… — Ma non si può sciogliere! Tu sei morto… — Non sei morto?… Dunque perché mi accusi di averti avvelenato?… — D’accordo con lui? Oh!… — Ti aveva promesso, sì; ed ha mantenuto… Per finzione? C’intendevamo da lontano? Lui m’ha spedito il veleno?… È assurdo! Non dovresti crederlo se è vero che i morti vedono la verità… — Va bene. Non ti stimerò morto… Non te lo ripeterò più.
— È in istato di trance spontanea! — disse Mongeri all’orecchio di Lelio. — Lasciami.
Presala pei pollici, dopo qualche minuto, e ad alta voce, chiamò:
— Signora!…
Alla voce cupa e irritata, voce robusta, maschile, con cui ella rispose, Mongeri dié un salto indietro. La signora Luisa si era rizzata sul busto con tal viso rabbuiato, con tale espressione di durezza nei lineamenti, da sembrare altra persona. La speciale bellezza della sua fisionomia, quel che di gentile, di buono, quasi di verginale che risultava dalla dolcezza dello sguardo dei begli occhi azzurri e dal lieve sorriso errante su le labbra, come un delicato palpito di esse, quella speciale bellezza era compiutamente sparita.
— Che cosa vuoi? Perché t’intrometti tu?
Mongeri riprese quasi subito padronanza di sé. L’abituale sua diffidenza di scienziato gli faceva sospettare di aver dovuto sentire anche lui, per induzione, per consenso dei centri nervosi, l’influsso del forte stato di allucinazione di quei due, se gli era parso di veder dondolare e sobbalzare la culla che, ora, egli vedeva benissimo immobile, con dentro il bambino tranquillamente addormentato, ora che la sua attenzione veniva attirata dallo straordinario fenomeno della personificazione del fantasma. Si accostò, con un senso di dispetto contro se stesso per quello sbalzo indietro al rude suono di voce che lo aveva quasi investito, e rispose imperiosamente:
— Finiscila! Te l’ordino!
Aveva messo nell’espressione tale sforzo di volontà che il comando avrebbe dovuto imporsi all’esaltamento nervoso della signora, superarlo – egli pensava -. La sardonica e lunga risata che rispose subito a quel te l’ordino, lo scosse, lo fece titubare un istante.
— Finiscila! Te l’ordino! — replicò poi con maggior forza.
— Ah! Ah! Vuoi essere il terzo… che gode… Avvelenerete anche lui?.
— Mentisci! Infamemente!
Mongeri non aveva potuto trattenersi di rispondere come a persona viva. E la lucidità della sua mente già un po’ turbata, non ostante gli sforzi ch’egli faceva per rimanere osservatore attento e imparziale, venne sconvolta a un tratto quando si sentì battere due volte su la spalla da mano invisibile, e nel medesimo istante si vide apparire davanti al lume una mano grigiastra, mezza trasparente, quasi fosse fatta di fumo, e che contraeva e distendeva con rapido moto le dita assottigliandosi come se il calore della fiamma la facesse evaporare.
— Vedi? Vedi? — gli disse Giorgi. E aveva il pianto nella voce.
Improvvisamente ogni fenomeno cessò. La signora Luisa si destava dal suo stato di trance, quasi si svegliasse da sonno naturale, e girava gli occhi per la camera, interrogando il marito e Mongeri con una breve mossa del capo. Essi s’interrogavano, alla lor volta, sbalorditi di quel senso di serenità, o meglio di liberazione che rendeva facile il loro respiro e regolari i battiti del cuore. Nessuno osava parlare. Solamente un fioco lamento del bambino li fece accorrere ansiosi verso la culla. Il bambino gemeva, gemeva, dibattendosi sotto l’oppressione di qualcosa che sembrava aggravarglisi sulla bocca e gli impedisse di gridare… Improvvisamente, cessò anche questo fenomeno, e non accadde più altro.


La mattina, andando via, Mongeri non pensava soltanto che gli scienziati hanno torto di non voler studiare da vicino casi che coincidono con le superstizioni popolari, ma tornava a ripetersi mentalmente quel che aveva detto due giorni avanti ai suo amico: Non sposerei una vedova per tutto l’oro del mondo.
Come scienziato è stato ammirevole, conducendo l’esperimento fino all’ultimo senza punto curarsi se (nel caso che la cremazione del cadavere del primo marito della signora Luisa non avesse approdato a niente) la sua reputazione dovesse soffrirne presso i colleghi e presso il pubblico. Quantunque l’esperimento abbia confermato la credenza popolare e dal giorno della cremazione dei resti del cadavere i fenomeni siano compiutamente cessati, con gran sollievo di Lelio Giorgi e della buona signora Luisa, nella sua relazione, non ancora pubblicata, il Mongeri però non ha saputo mostrarsi interamente sincero. Non ha detto: — I fatti sono questi, e questo il resultato del rimedio: la pretesa superstizione popolare ha avuto ragione su le negazioni della scienza: il Vampiro è morto completamente appena il suo corpo venne cremato — No. Egli ha messo tanti se, tanti ma nella narrazione delle minime circostanze, ha sfoggiato tanta allucinazione, tanta suggestione, tanta induzione nervosa nel suo ragionamento scientifico, da confermare quel che aveva confessato l’altra volta, cioè: che anche la intelligenza è affare d’abitudine e che il mutar di parere lo avrebbe seccato.
Il più curioso è che non si è mostrato più coerente come uomo. Egli che proclamava: — Non sposerei una vedova per tutto l’oro del mondo — ne ha poi sposata una per molto meno, per sessantamila lire di dote! E a Lelio Giorgi che ingenuamente gli disse: — Ma come?… Tu!… — rispose: — A quest’ora non esistono insieme neppure due atomi del corpo del primo marito. È morto da sei anni! — senza accorgersi che, parlando così, contraddiceva l’autore della memoria scientifica — Un preteso caso di Vampirismo — cioè se stesso.

http://capuana.letteraturaoperaomnia.org/

 

Capuana, Luigi – Giacinta – ebook – Collana Bacheca eBook

Scritto da Silvia Masaracchio

 Ebook del primo vero romanzo di Luigi Capuana, Giacinta, pubblicato nel 1879 e ripubblicato nel 1886.
Il romanzo si apre con una dedica a Zola, ed è considerato il primo romanzo naturalista in Italia (nella versione del ’79, poiché quella dell’86 segue la corrente verista).

Il libro narra la vita di Giacinta, figlia di una donna avida di denaro e di un padre inetto.

Violentata ancora bambina, Giacinta solo più tardi si ricorderà di ciò che le è accaduto, avendone perso la memoria.
Scossa da quel ricordo, decide di non voler sposare il ragazzo che ama, Andrea, continuando a condividere con lui solo momenti di passione.

Giacinta sposa un vecchio e mantiene la relazione con Andrea. Dal rapporto nasce una bambina che però muore qualche anno dopo di difterite.

Andrea non reagisce con amore paterno alla disgrazia, ma si allontana da Giacinta. La donna si rende allora conto che Andrea non la ama più e, incapace di dare un senso alla sua vita, si uccide.

Leggi subito il libro online

 
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DELITTO IDEALE

A FEDERICO DE ROBERTO.

– E la giustizia? – esclamò Lastrucci.

– Quale? – replicò Morani. – Di quella del mondo di là, nessuno

sa niente; la nostra, l’umana, è cosa talmente rozza, superficiale,

barbarica, da non meritar punto di essere chiamata giustizia.

Condanna o assolve alla cieca, per fatti esteriori, su testimonianze

che affermano soltanto l’azione materiale, quel che meno importa in

un delitto. Il vero delitto, lo spirituale, resultato del pensiero e della

coscienza, le sfugge quasi sempre; e così essa spessissimo condanna

quando dovrebbe assolvere e assolve, pur troppo! quando dovrebbe

condannare.

– Ecco i tuoi soliti paradossi! La giustizia umana fa quel che può.

Vorresti dunque punire fin le intenzioni nascoste?

– Certamente. Un omicidio pensato, maturato con lunga

riflessione in tutti i suoi minimi particolari e poi non eseguito

perchè l’energia dell’individuo si è già esaurita nell’idearlo e

prepararlo, è forse delitto meno grave d’un omicidio realmente

compiuto?

– Tu foggi un caso strano, eccezionale.

– Più comune di quanto immagini. Ed io ho conosciuto un uomo,

degno veramente di questo nome, il quale si è giudicato da sè per un

delitto di tal genere, e si è punito come se avesse proprio commesso

l’omicidio soltanto fantasticato e progettato.

– Era pazzo costui.

– Era un gran savio, dovresti dire. La sua coscienza non gli dava

pace. E siccome egli non poteva presentarsi a un giudice e accusarsi

– il giudice avrebbe ragionato come te e lo avrebbe fatto chiudere in

un manicomio – così per attutire i rimorsi, si è giudicato e si è

condannato da sè ad espiare la stessa pena che il magistrato gli

avrebbe inflitta, se avesse potuto giudicarlo secondo la legge

ordinaria.

– Come ha fatto? E perchè avea voluto ammazzare?

– Per gelosia.

– Si sarà accordato almeno le attenuanti! – disse Lastrucci

sorridendo.

– Nessuna attenuante – riprese Morani. – Oh! Non era uomo

volgare. La profonda cultura e la esperienza della vita avrebbero

dovuto metterlo in guardia contro i subdoli suggerimenti di quella

bassa passione; infatti, riconosciutosi illuso dalle apparenze, egli

pensava che sarebbe stato suo dovere sottrarsi al loro inganno.

Invece, non aveva fatto nessuno sforzo; si era lasciato travolgere

senza resistenza; e ciò rendeva imperdonabile agli occhi suoi

l’intenzionale delitto


Delitto ideale by Luigi Capuana – Free Ebook – Project Gutenberg

Luigi CapuanaDelitto ideale (1902) – Scribd

 

Malìa di Luigi Capuana. Il germe della modernità in «un caso di passione patologica» Musiche di Francesco Paolo Frontini

http://www.controappuntoblog.org/2013/07/30/malia-di-luigi-capuana-il-germe-della-modernita-in-%C2%ABun-caso-di-passione-patologica%C2%BB-musiche-di-francesco-paolo-frontini/

 

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