LA VIOLENZA LAVORO CORRELATA

 

LA VIOLENZA LAVORO CORRELATA

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Tredici anni fa,  Il 16 aprile del 2000, moriva dopo un mese di agonia Ion Cazacu, ingegnere in Romania, piastrellista a Gallarate. Un mese prima, insieme ad altri compagni di lavoro, aveva osato chiedere un contratto regolare all’imprenditore Cosimo Iannece che li teneva in nero. La risposta: un gavettone di benzina, poi il fuoco.

Il 4 dicembre 2009 è la volta di Ibrahim M’bodi, senegalese 35enne trapiantato a Zumaglia, vicino a Biella. Era stato assunto in cantiere per 500 euro al mese, ma dopo tre mesi non aveva ancora visto un soldo. Quando è andato a reclamare da Franco D’Onofrio, titolare della ditta, invece del salario si è beccato nove coltellate. Il suo corpo è stato trovato abbandonato in una risaia.

Il 29 giugno 2011 Imad El Kaalouli, 19 anni, si presenta al ristorante di Desenzano del Garda (BS) dove ha lavorato per 5 mesi. Vuole il saldo dello stipendio e del TFR, che gli servono per le spese del matrimonio, visto che sta per sposarsi.  Gioacchino Farruggio, padre del titolare del ristorante, lo  abbatte con 3 colpi di pistola, ferendo anche la consulente del lavoro che lo accompagna.

Il 28 ottobre 2012 il sudanese Salah Kamal Ali Mohamed Mahmoud, 30 anni, si incontra in un parco di Roma col suo ex datore di lavoro Giovanbattista Cricelli. Ha lavorato per lui come factotum in uno stabilimento balneare di Tropea, e ora che si sta regolarizzando con l’ultima sanatoria minaccia vertenza. Cricelli gli spara tre colpi e lo ammazza.

E’ singolare questa particolare forma di “trattamento di fine rapporto” riservata a lavoratori migranti, a quanto pare le massicce dosi di razzismo iniettate da anni nelle vene di questa società hanno allentato ai quattro padroncini ogni freno inibitorio.

Sia per Ion che per Ibrahim, Imad e Salah la violenza raggiunge l’apice di fronte alla richiesta del riconoscimento di diritti. E’ una violenza che parte ben prima della sua conclusione in omicidio, parte con la negazione di un contratto o del salario, nella convinzione che la ricattabilità economica e normativa del migrante renda lecito fargli di tutto.

E’ la stessa convinzione degli agrari pugliesi e dei loro caporali, raccontati qualche anno fa da Fabrizio Gatti.

“L’incidente accade all’improvviso. Michele è il più anziano tra i rumeni. Ha una sessantina d’anni, i capelli grigi. Sta caricando cassette piene sul rimorchio del trattore. Il legno è troppo sottile, è secco. E una cassetta si sfonda rovesciando dodici chili di pomodori. Michele non fa in tempo ad abbassarsi a raccoglierli. Leonardo (il padrone) , con la mano chiusa a pugno, lo colpisce. Una sventola sulla testa. “Stai attento, coglione”, urla, “credi che noi stiamo ad aspettare mentre tu butti le cassette?”.

Pavel ha braccia veloci. L’anno scorso è riuscito a riempire fino a 15 cassoni al giorno: 45 quintali di pomodori, lavorando dall’alba a notte. Ma il 20 luglio Asis (il caporale) gli impedisce di ripetere il record. Qualcuno gli ha riferito che Pavel ha protestato per la faccenda dei soldi e per lo sfruttamento dei braccianti. Il tunisino lo colpisce nel sonno, in una giornata senza lavoro, alle due del pomeriggio. Pavel si protegge la testa con le braccia. La sbarra di ferro gli rompe le ossa e apre profonde ferite nella carne. Lui è sicuro di non essere stato ucciso soltanto per l’intervento dei suoi compagni di stanza. Ma lo lasciano lì a sanguinare sul materasso fino all’una di notte. Gli altri stranieri hanno troppa paura di Asis. Anche di chiamare la polizia e correre il rischio di essere rimpatriati. Alle otto di sera qualcuno finalmente telefona di nascosto all’ospedale. L’ambulanza e una pattuglia dei carabinieri, al Villaggio Amendola, arrivano soltanto cinque ore dopo…. “Quell’uomo”, racconta Pavel terrorizzato, “mirava alla testa. Voleva uccidermi”.

Qualche bracciante morto da queste parti l’hanno già trovato. Slavomit R., polacco, aveva 44 anni quando è stato bruciato il 2 luglio 2005 in un campo a Stornara. Un caso irrisolto. Come quello di due cadaveri mai identificati abbandonati a Foggia. Le scomparse sono un altro capitolo dell’orrore. Nessuno sa quanti siano i lavoratori rumeni, bulgari o africani spariti. I caporali, quando li ingaggiano o li massacrano di botte, non sanno nemmeno come si chiamano. Gli unici casi sono stati scoperti grazie alle denunce dell’ambasciata di Polonia. Hanno dovuto insistere i diplomatici di Varsavia. È dal 2005 che cercano notizie di tredici connazionali. Erano venuti a lavorare come stagionali nel triangolo degli schiavi. E non sono più tornati a casa” .

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DOCUMENTI

Video/intervista del 2011 a Nicoleta Cazacu .

Comitato Mani Sporche,  Con le mani sporche. Dossier sullo sfruttamento dei braccianti nelle campagne della Capitanata, ottobre 2006, 113 p.

http://illavorodebilita.wordpress.com/2013/04/16/la-violenza-lavoro-correlata/

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