la collana e la rosa : Guy de Maupassant, Luigi Pirandello

LA COLLANA

 

Era una di quelle ragazze belle e seducenti che nascono, come per un errore del destino, in una famiglia d’impiegati. Era senza dote, senza speranze, non aveva alcuna possibilità d’essere conosciuta, capita, amata e sposata da un uomo ricco e raffinato; e lasciò che la sposassero a un impiegatuccio del ministero della Pubblica Istruzione.

Non potendo far lussi, si vestì con semplicità, ma fu infelice, come se fosse degradata; perché le donne non appartengono a una casta o a una razza: bellezza, grazia e fascino sostituiscono per loro nascita e famiglia. La congenita finezza, l’eleganza istintiva, l’agilità della mente, ecco l’unica gerarchia, che rende le popolane uguali alle più grandi dame.

Soffriva di continuo, sentendosi destinata a tutte le delicatezze, a tutti i lussi; soffriva per la povertà del suo appartamento, per la miseria delle pareti, per le seggiole consumate, la bruttezza delle stoffe. Tutte queste cose, delle quali un’altra donna delle sue condizioni non si sarebbe nemmeno accorta, la torturavano, la irritavano. Nel vedere la piccola bretone che le faceva il servizio, si destavano in lei desolati rimpianti, vaghi sogni. Pensava ad anticamere silenziose, ovattate da parati orientali, illuminate da grandi torciere di bronzo, a due valletti in polpe che sonnecchiavano nelle grandi poltrone, intorpiditi dal caldo pesante del calorifero. Pensava a grandi sale rivestite di sete antiche, a mobili pregiati adorni di ninnoli preziosi, a salotti civettuoli, profumati, fatti apposta per le conversazioni del pomeriggio cogli amici più intimi, gli uomini più noti e ricercati, coloro che tutte le donne invidiano, desiderano, vorrebbero per sé.

Quando sedeva a desinare davanti alla tavola tonda coperta dalla tovaglia di tre giorni avanti, di fronte al marito che scoperchiava la zuppiera esclamando estasiato: – Ah, che bella minestra!… Non c’è nulla di meglio… – ella pensava a pranzi raffinati, a lucenti argenterie, ad arazzi che popolano i muri di antichi personaggi e strani uccelli in mezzo a foreste incantate; pensava alle vivande squisite servite in meravigliosi piatti, alle galanterie sussurrate ed ascoltate con uno sfingeo sorriso, mangiando la carne rosata d’una trota o un’ala di pollastrella.

Non aveva bei vestiti, non aveva gioielli; ed erano le sole cose che le piacessero, quelle per cui si sentiva nata. Avrebbe tanto desiderato piacere, essere invidiata, essere seducente, corteggiata.

Aveva un’amica ricca, una compagna di convento, e non andava più a trovarla perché dopo ogni visita provava troppo dispiacere. Piangeva per giornate intere, di rimpianto, di disperazione, di sconforto.

Una sera il suo marito ritornò a casa tutto trionfante, tenendo in mano una grande busta:

– Tieni, – disse, – ecco una cosa per te.

Lei strappò nervosamente la busta e ne trasse un cartoncino su cui era scritto:«Il ministro della Pubblica Istruzione e la signora Ramponneau hanno l’onore d’invitare i signori Loisel alla serata che si svolgerà lunedì 18 gennaio nel palazzo del ministero».

Invece d’esser contenta, come si figurava il marito, ella buttò l’invito sulla tavola, mormorando:

– Che vuoi che me ne faccia?

– Ma, tesoro, pensavo che t’avrebbe fatto piacere. Non andiamo mai in nessun posto, e questa è una bella, una magnifica occasione. Ho dovuto faticar molto per ottenere quest’invito; lo vorrebbero tutti, tutti si danno da fare e ce ne son pochissimi per gl’impiegati. Ci sarà tutta la società governativa.

Lei lo fissava corrucciata e disse con voce impaziente:

– Che cosa vuoi che mi metta addosso, per andare in un posto come quello?

Non ci aveva pensato; balbettò:

– Il vestito che ti metti per andare al teatro; mi pare molto bello.

Tacque, stupito e confuso, nel vedere che sua moglie piangeva. Due lacrimone colavano lentamente dagli angoli degli occhi agli angoli della bocca.

– Che hai? che hai? – le chiese Loisel.

Con uno sforzo Mathilde s’era dominata e rispose con voce normale, asciugandosi le guance umide:

– Nulla. Soltanto che non ho vestiti e alla festa non ci posso venire. Dai quell’invito a qualche tuo collega che abbia la moglie messa un po’ meglio di me.

Loisel era dispiaciuto; disse:

– Via, Mathilde… Quanto verrebbe a costare un vestito decente, che ti potrebbe servire anche in altre occasioni, qualcosa di semplice?…

Lei rifletté per qualche istante, facendo i conti e pensando alla somma che avrebbe potuto chiedere senza avere un rifiuto immediato e provocare lo stupore spaventato dell’economo impiegatuccio.

Alla fine rispose, esitando:

– Non saprei con esattezza, ma penso che potrei farcela con quattrocento franchi.

Loisel impallidì leggermente, perché aveva da parte proprio quella somma per comprarsi un fucile con cui andare a caccia, d’estate, nella pianura di Nanterre, insieme a degli amici che tutte le domeniche andavano in quei paraggi a tirare alle allodole.

Eppure rispose:

– Va bene. Ti do quattrocento franchi. Ma guarda di farti fare un bel vestito.

S’avvicinava il giorno della festa e la signora Loisel sembrava triste, inquieta, preoccupata. Eppure il vestito era pronto. Una sera suo marito le chiese:

– Che hai, Mathilde? Sono tre giorni che mi sembri un po’ strana.

Lei rispose:

– Mi dispiace di non avere nemmeno un gioiello, una pietra, una cosa qualunque da mettermi addosso. Chissà come sembrerò misera… Quasi quasi preferirei non andare alla festa.

– Puoi metterti dei fiori freschi, – propose lui. – Di questa stagione sono elegantissimi. Con dieci franchi ti puoi comprare due o tre rose magnifiche.

Mathilde non pareva convinta:

– No, no… Non c’è niente di più umiliante che apparir poveri in mezzo alle donne ricche.

Il marito esclamò:

– Quanto sei sciocca! Vai dalla tua amica, la signora Forestier, e fatti prestare un gioiello da lei. Siete abbastanza amiche perché tu lo possa fare.

Ella mandò un gridolino di gioia:

– È vero. Non ci avevo pensato.

Il giorno dopo andò dalla sua amica e le raccontò in quale imbarazzo si trovasse.

La signora Forestier andò verso l’armadio a specchio, ne trasse un cofanetto, lo aprì e disse alla signora Loisel:

– Ecco, cara: scegli.

Vide braccialetti, una collana di perle, una croce veneziana d’oro e pietre, di mirabile fattura. Si provava i gioielli davanti allo specchio, esitava, non sapeva decidersi a toglierseli, a rimetterli dentro. Chiedeva:

– C’è dell’altro?

– Ma sì: cerca; non so che cosa preferisci…

Ad un tratto Mathilde scoprì in una scatola di raso nero una collana di diamanti, magnifica: sentì una voglia smodata tumultuarle nel cuore. Nel prenderla le tremavano le mani. Se l’agganciò sopra il vestito accollato e stette a rimirarsi, in estasi.

Esitante e piena di paura chiese:

– Potresti prestarmela, questa, questa soltanto?

– Ma sì, certo…

Mathilde saltò al collo dell’amica, la baciò con trasporto, e scappò col tesoro.

Venne la sera della festa. La signora Loisel trionfò. Era la più bella di tutte, elegante, graziosa, sorridente, fuor di sé dalla gioia. Tutti gli uomini la guardavano, chiedevano chi fosse, cercavano d’esserle presentati. Tutti i segretari di gabinetto vollero ballare il valzer con lei. Il ministro la notò.

Ballava, inebriata, con slancio, stordita dal piacere, senza pensare a nulla, nel trionfo della sua bellezza, nella gloria del successo, in una sorta d’aureola di felicità formata dagli omaggi, dall’ammirazione, dai desideri suscitati, dalla sua vittoria così completa e così cara al suo cuore di donna.

Andò via alle quattro di mattina. Suo marito da mezzanotte stava dormendo in un salottino insieme ad altri tre signori le cui mogli si divertivano moltissimo.

Lui le buttò sulle spalle il soprabito che aveva portato, un modesto soprabito che per la sua povertà contrastava con l’eleganza del vestito da ballo. Mathilde se ne accorse e volle scappar via per non essere vista dalle altre donne che si stringevano addosso le loro ricche pellicce.

Loisel la trattenne:

– Aspetta un momento. Piglierai un malanno. Vado a chiamare una carrozza.

Ma lei non gli diede retta e scese rapidamente la scala. Per la strada non c’erano carrozze, e si misero a cercarne una, chiamando i cocchieri che vedevano passare di lontano.

Andarono verso la Senna, senza più speranze, tremando di freddo. Finalmente, sul lungosenna, trovarono una di quelle carrozzelle nottambule che a Parigi escono fuori soltanto la notte, come se si vergognassero di mostrare alla luce la loro miseria.

Furono portati fino all’uscio di casa, in via des Martyres, salirono tristemente le scale. Era finito, pensava lei. E lui pensava che alle dieci sarebbe dovuto essere al ministero.

Mathilde si levò il soprabito che le copriva le spalle, davanti allo specchio, per potersi vedere ancora una volta in tutto il suo splendore. Gettò un grido improvviso. Non aveva più la collana!

Suo marito, già mezzo spogliato, le chiese:

– Che c’è?

Mathilde si voltò verso di lui, sgomenta:

– Ho perso la collana… la collana della signora Forestier…

Lui si rizzò, esterrefatto:

– Cosa? Come? non è possibile!

Cercarono tra le pieghe del vestito, del mantello, nelle tasche, dappertutto. Non c’era.

Il marito chiese:

– Sei sicura che l’avevi ancora quando siamo venuti via?

– Sì, me la sono toccata nell’atrio del ministero.

– Ma se l’avessi persa per la strada, si sarebbe sentita cadere. Dev’essere nella carrozza.

– Può darsi… Hai visto che numero aveva?

– No, e tu?

– Nemmeno io.

Si guardarono atterriti. Finalmente Loisel si rivestì.

– Vado a rifare la strada che abbiamo percorso a piedi, – disse, – per vedere se la ritrovo.

E uscì. Lei rimase col vestito addosso senza aver la forza d’andare a letto, afflosciata su una sedia, col cervello vuoto.

Loisel tornò alle sette, senza aver trovato nulla.

Andò alla prefettura di polizia, ai giornali per promettere una ricompensa, alla società delle carrozze, ovunque un barlume di speranza lo sospingesse.

Mathilde aspettò per tutta la giornata nello stesso stato di prostrazione, davanti a quel tremendo disastro.

Loisel tornò a casa la sera, col viso incavato, pallido; non aveva trovato nulla.

– Scrivi alla tua amica, – disse, – che ti s’è rotto il fermaglio della collana, e che l’hai data ad accomodare. Avremo tempo di pensare qualcosa.

Mathilde scrisse quel che lui dettò.

In capo a una settimana avevano perso qualunque speranza.

Loisel, che era invecchiato di cinque anni, disse:

– Dobbiamo comprarne un’altra…

Il giorno dopo presero l’astuccio e andarono dal gioielliere il cui nome era scritto nell’interno. Questi consultò i registri:

– No, signora, questa collana non l’abbiamo venduta noi. Soltanto l’astuccio è nostro.

Allora andarono da un gioielliere all’altro, cercando una collana uguale a quella perduta, cercando di ricordarsi, tutti e due febbricitanti di dolore e d’angoscia.

In una bottega del Palazzo Reale trovarono un rosario di diamanti che pareva preciso a quello che cercavano. Valeva quarantamila franchi. Potevano darlo per trentaseimila.

Pregarono il gioielliere di non venderla per tre giorni. E misero come condizione che l’avrebbe ripresa indietro per trentaquattromila franchi se quella perduta fosse stata ritrovata entro il mese di gennaio.

Loisel possedeva diciottomila franchi che gli aveva lasciato suo padre. Il resto lo avrebbe preso in prestito.

Andò a chiedere mille franchi da questo, cinquecento da quello, cinque luigi qui, tre luigi là. Firmò cambiali, prese impegni disastrosi, ebbe a che fare con usurai e con ogni specie di strozzini. Compromise tutto il resto della sua vita, rischiò la sua firma senza neanche sapere se avrebbe potuto farle onore e, angosciato dal pensiero del futuro, della miseria nera che gli sarebbe caduta addosso, dalla prospettiva delle privazioni fisiche e delle torture morali, andò a comprare la collana nuova, posando sul banco del gioielliere i trentaseimila franchi.

Quando la signora Loisel riportò la collana alla signora, costei le disse con tono seccato:

– Me l’avresti dovuta riportare prima, potevo averne bisogno…

Non aprì l’astuccio, come Mathilde temeva. Se si fosse accorta dello scambio, che cosa avrebbe pensato? che avrebbe detto? Poteva anche considerarla una ladra.

La signora Loisel conobbe l’orribile vita dei bisognosi. Vi si adattò subito, eroicamente. Era necessario pagare quel tremendo debito. Lo avrebbe pagato. Licenziarono la servetta, cambiarono casa: andarono a stare in una soffitta.

Mathilde conobbe le più dure faccende, le più odiose fatiche della cucina. Rigovernò, rovinandosi le unghie rosa sui piatti unti, sui tegami. Lavò la biancheria sudicia, le camicie, gli stracci, stendendoli ad asciugare su una corda stesa. Tutte le mattine portava giù la spazzatura e portava su l’acqua, fermandosi ad ogni piano per ripigliar fiato. Vestita come una donna del popolo, andava dall’erbaiolo, dal droghiere, dal macellaio, col paniere sottobraccio, tirando sui prezzi, ricevendo ingiurie pur di difendere a soldo a soldo il suo miserabile denaro.

Tutti i mesi dovevano pagare cambiali, rinnovarne altre, guadagnar tempo.

Il marito lavorava di sera: teneva la contabilità d’un negoziante, e spesso, di notte, faceva il copista a cinque soldi per pagina.

Questa vita durò dieci anni.

Dopo dieci anni avevano restituito tutto, compresi gl’interessi degli strozzini e tutto l’insieme degli interessi composti.

Mathilde pareva una vecchia. Era diventata la donna forte, dura, rude, delle famiglie povere. Spettinata, con la gonnella di traverso, le mani rosse, parlava a voce alta, lavava i pavimenti buttandoci l’acqua col secchio. Eppure, qualche volta, quando suo marito era in ufficio, si sedeva accanto alla finestra e pensava a quella serata, a quel ballo in cui era stata tanto bella e tanto festeggiata.

Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chi lo sa? Com’è strana la vita, e mutevole! Quanto poco ci vuole per perdersi o salvarsi!

Una domenica era andata agli Champs-Elysées per distrarsi un po’ dalle faccende; ad un tratto scorse una signora che stava passeggiando, con un fanciullo. Era la signora Forestier, sempre giovane, sempre bella, sempre attraente.

La signora Loisel si sentì turbata. Le avrebbe rivolto la parola? Sì, certamente. Anzi, ora che aveva pagato, poteva dirle tutto: perché no?

Le si avvicinò.

– Buongiorno, Jeanne.

L’altra non la riconosceva, ed era stupita di sentirsi chiamare con tanta confidenza da quella popolana.

– Ma, signora… – balbettò; – non… Credo che vi siate sbagliata…

– No. Sono Mathilde Loisel.

L’amica mandò un grido:

– Oh! Povera Mathilde, come sei cambiata!

– Sì… ho passato giornate dure, da quando non ci siamo più viste, e tanta miseria… per colpa tua.

– Mia? Per colpa mia?

– Ti ricordi quella collana di diamanti che mi prestasti per andare alla festa del ministero?

– Sì; ebbene?…

– Ebbene, la persi…

– Ma com’è possibile! Se me l’hai resa!

– Te n’ho comprata un’altra uguale. Sono dieci anni che la stiamo pagando. E capisci che per noi non è stata una cosa facile. Non avevamo nulla. Ora però è finito, e sono proprio contenta.

La signora Forestier s’era fermata.

– Mi dici che hai comprato una collana di diamanti per sostituire la mia?

– Sì: non te n’eri accorta, vero? Era proprio uguale.

E sorrideva, orgogliosa e ingenuamente felice.

La signora Forestier, sconvolta, le afferrò le mani:

– Oh, mia povera Mathilde! La mia era falsa! Valeva tutt’al più cinquecento franchi…

Guy de Maupassant

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  La rosa

I

Nel bujo fitto della sera invernale il trenino andava col passo di chi sa che tanto ormai non arriva piú a tempo.

In verità la signora Lucietta Nespi, vedova Loffredi, per quanto annojata e stanca del lungo viaggio in quella sudicia vettura di seconda classe, non aveva alcuna fretta d’arrivare a Péola.

Pensava… pensava…

Si sentiva trasportata da quel trenino, ma con l’anima era ancora nella lontana casa di Genova, abbandonata, le cui stanze, sgombre della bella mobilia ancor quasi nuova, miseramente svenduta, invece di sembrarle piú grandi, le erano sembrate piú piccole. Che tradimento!

Aveva bisogno di vederle grandi, lei, molto grandi e belle, quelle stanze, nell’ultima visita d’addio, dopo lo sgombero, per poter dire un giorno, con orgoglio, nella miseria a cui discendeva:

– Eh, la casa che avevo a Genova…

Lo avrebbe detto lo stesso, di certo; ma in fondo all’anima, le era rimasta la disillusione di quelle stanze sgombre, così meschine.

E pensava anche alle buone amiche, dalle quali, all’ultimo, non era andata a licenziarsi, perché anch’esse, tutte, l’avevano tradita, pur dandosi l’aria di volerla ajutare a gara Oh sì, ajutarla, conducendole in casa tanti compratori onesti, a cui certo, prima, avevano magnificato l’occasione di potere aver per cinque ciò che era costato venti e trenta.

Così pensando, la signora Lucietta ora restringeva ora dilatava i begli occhietti vispi e, di tratto in tratto, con una rapida, speciosa mossetta che le era abituale levava una mano e si passava l’indice sul nasetto ardito e sospirava.

Era stanca veramente. Avrebbe voluto addormentarsi.

I suoi due bimbi orfani, loro sì, poveri amorini, s’erano addormentati: uno, il maggiore, disteso sul sedile sotto un mantelletto; l’altro qua, rinchioccito, col capino biondo su le gambe di lei.

Chi sa, si sarebbe forse anch’ella addormentata, se avesse potuto in qualche modo appoggiare un gomito o il capo, senza svegliare il piccino, a cui le sue gambe facevano da guanciale.

Il sedile di fronte serbava l’impronta de’ suoi piedini, che vi avevano trovato un comodo sostegno, prima che fosse venuto a prender posto – ce n’erano tante di vetture, nossignori! – proprio lì, un omaccione su i trentacinque anni, barbuto, bruno in viso, ma con occhi chiari, verdastri: due occhi grandi, intenti e tristi.

La signora Lucietta ne aveva provato subito un grande fastidio. Il color chiaro di quei grandi occhi le aveva chi sa perché – destato confusamente l’idea che il mondo, ovunque ella andasse, le sarebbe rimasto sempre estraneo ormai, e come lontano, lontanissimo e ignoto; e ch’ella vi si sarebbe sperduta, invano chiedendo ajuto, tra tanti occhi che sarebbero rimasti a guardarla, come quelli, con qualche velo di tristezza, sì, ma in fondo indifferenti.

Per non vederli, teneva da un pezzo la faccia voltata verso il finestrino, quantunque di fuori non si scorgesse nulla.

Si vedeva solo, in alto, sospeso nella tenebra, il riflesso preciso della lampada a olio della vettura, con la rossa fiammella fumosa e vacillante, il vetro concavo dello schermo e l’olio caduto, che vi sguazzava.

Pareva proprio che ci fosse un’altra lampada di là, la quale seguisse con pena, nella notte, il treno, quasi per dargli insieme conforto e sgomento.

– La fede…  – mormorò, a un certo punto, quel signore. La signora Lucietta si voltò con aria stordita:  – Che cosa?

– Quel lume che non c’è.

Ravvivando il sorriso e lo sguardo, la signora Lucietta levò un dito a indicar la lampada nel cielo della vettura.

– Eccolo qua!

Quel signore approvò piú volte col capo, lentamente; poi aggiunse, con un sorriso triste:

– Eh sì, come la fede… Accendiamo noi il lume di qua, nella vita; e lo vediamo anche di là; senza pensare che se si spegne qua, di là non c’è piú lume.

– È filosofo lei!  – esclamò la signora Lucietta.

Quegli alzò una mano dal pomo del bastone a un gesto vago e sospirò con un altro sorriso:

– Osservo…

Il treno si fermò per un gran pezzo davanti a una stazionuccia di passaggio. Non s’udiva alcuna voce e, cessato il rumor cadenzato delle ruote, l’attesa in quel silenzio pareva eterna e sbigottiva.

– Mazzano,  – mormorò il signore. – S’aspetta al solito la coincidenza.

Alla fine, giunse da lontano, lamentoso, il fischio del treno in ritardo.

– Eccolo…

Nel lamento di quel treno, che correva nella notte per la stessa via su cui tra poco anche lei sarebbe passata, la signora Lucietta udì per un momento la voce del suo destino, che, sì, proprio, la voleva sperduta nella vita insieme con quelle due creaturine.

Si riscosse dall’angoscia momentanea e domandò al compagno di viaggio:

– Ci vorrà ancor molto a Péola?

– Eh, – rispose quegli, – piú di un’ora… Scende a Péola anche lei?

– Io sì. Sono la nuova telegrafista io. Ho vinto il concorso Son riuscita la quinta, sa? M’hanno destinata a Péola!

– Ah, guarda… Sì, sì, la aspettavamo difatti per jeri sera.

La signora Lucietta s’animò tutta:

– E difatti, già,  – cominciò a dire; ma subito frenò lo slancio per non rompere il sonno al suo piccino. Aprì le braccia e, indicandolo con lo sguardo e poi indicando l’altro di là: – Ma vede come sono legata? – soggiunse.  – E da me sola… a dovermi staccare da tante cose…

– Lei è la vedova Loffredi, è vero?

– Sì…

E la signora Lucietta chinò gli occhi.

– Ma non si è saputo piú nulla? – domandò, dopo un breve e grave silenzio, quel signore.

– Nulla. Ma c’è chi sa!  – disse con un lampo negli occhi la signora Lucietta. – Il vero assassino del Loffredi, creda, non fu il sicario che lo colpì alle spalle e scomparve. Hanno voluto insinuare, per motivo di donne… No, sa! Vendetta. È stata una vendetta politica. Per il tempo che il Loffredi aveva da pensare alle donne, una gli era anche di troppo. Gli bastavo io. Si figuri, mi prese a quindici anni!

In così dire, il viso della signora Lucietta si fece rosso rosso, gli occhi le brillarono inquieti, sfuggirono di qua, di là, e alla fine si chinarono come dianzi.

Quel signore stette un pezzo ad osservarla, impressionato del rapido passaggio dall’eccitazione improvvisa all’improvvisa mortificazione.

Ma via! come prendere a lungo sul serio quell’eccitazione e questa mortificazione? Benché mamma di quei due piccini, pareva ancora una bambina, anzi una bamboletta; e s’era forse mortificata lei stessa d’aver con tanta fermezza e così in prima, asserito che il Loffredi, avendo per moglie una cosina così fresca e vispa come lei, non aveva potuto pensare ad altre donne.

Doveva essere sicura che nessuno, vedendola e sapendo che uomo era stato il Loffredi, le avrebbe creduto. Vivo il Loffredi, ella aveva dovuto averne, certo, una gran soggezione; forse, ricordandolo, ne aveva ancora. Ma non poteva soffrire si sospettasse che il Loffredi aveva potuto non curarsi di lei, e che ella era stata per lui una bamboletta e nient’altro. Voleva esser l’erede unica almeno di tutto il chiasso, che la tragica fine del fiero e impetuoso giornalista genovese aveva sollevato, circa un anno addietro, in tutta la stampa quotidiana d’Italia.

Fu molto soddisfatto quel signore d’avere così bene indovinato l’animo e l’indole di lei, allorché, spintala con brevi e accorte domande a parlare de’ suoi casi, n’ebbe la conferma dalla sua stessa bocca.

Una gran tenerezza s’impadronì allora di lui per le arie di libertà che si dava quella calandrella or ora uscita dal nido, inesperta ancora del volo; per le fiere proteste che faceva del suo avvedimento e del suo gran coraggio. Ah, che! che! non sarebbe mai perita lei. Figurarsi, dall’oggi al domani, sbalzata da uno stato all’altro, tra l’orrore e il trambusto della tragedia, non s’era perduta un momento; era corsa qua, era corsa là; aveva fatto questo e quest’altro, non tanto per se, no, quanto per quei due poveri piccini… ma via, sì, un po’ anche per sé, che in fin dei conti aveva appena vent’anni. Venti, già, e non li mostrava nemmeno. Un altro ostacolo, questo, e il piú dispettoso di tutti. Perché ognuno, vedendola accanita e disperata, si metteva a ridere, quasi ella non avesse il diritto d’accanirsi tanto, di disperarsi tanto. Ah che rabbia! Ma piú s’arrabbiava, e piú gli altri ridevano. E, ridendo, chi le prometteva una cosa e chi un’altra; ma tutti avrebbero voluto accompagnare la promessa con una carezzina che non osavano farle, ma che ella leggeva loro chiaramente negli occhi. S’era stancata, alla fine; e, pur d’uscirsene, eccola là: telegrafista a Péola!

– Povera signora! – sospirò, sorridendo anche lui, il compagno di viaggio.

– Povera perché?

– Eh… perché… vedrà, non si divertirà molto, a Péola!

E le diede qualche ragguaglio del paesello.

Per tutte le viuzze e le piazzette la noja, a Péola, era visibile e tangibile, sempre.

– Visibile? Come?

In una infinita moltitudine di cani, che dormivano da mane a sera, sdrajati su l’acciottolato delle vie.

Non si svegliavano neanche per grattarsi, quei cani; o meglio, si grattavano, seguitando a dormire.

E guaj a chi, a Péola, apriva la bocca per sbadigliare! Gli restava aperta per un’infilata di almeno cinque sbadigli alla volta. Entrata in bocca a uno, la noja non si risolveva a uscirne facilmente. E tutti, a Péola, per ogni cosa da fare chiudevano gli occhi e sospiravano:

– Domani..

Perché oggi o domani era lo stesso, cioè domani non era mai.

– Vedrà quanto poco avrà da fare all’ufficio del telegrafo, – concluse. – Non se ne serve mai nessuno. Vede questo trenino? Va col passo d’una diligenza. E anche la diligenza rappresenterebbe un progresso per Péola. La vita, a Péola, va ancora in lettiga.

– Dio Dio, lei mi spaventa! – disse la signora Lucietta.

– Non si spaventi, via! – sorrise quel signore. – Ora le do una buona notizia: fra pochi giorni avremo al Circolo una festa da ballo.

– Ah…

E la signora Lucietta lo guardò come colta in un lampo dal sospetto, che anche questo signore si volesse burlar di lei.

– Ballano i cani?  – domandò.

– No: i “civili” di Péola… Ci vada: si divertirà. Giusto il Circolo è su la piazza, vicino all’ufficio del telegrafo. Ha trovato l’alloggio?

La signora Lucietta rispose di sì, che lo aveva trovato, nella stessa casa che prima ospitava l’ufficiale telegrafico suo predecessore. Poi domandò:

– E lei, scusi… il suo nome?

– Silvagni, signora. Fausto Silvagni. Sono il segretario comunale.

– Oh guarda! Piacere.

– Mah!

E il Silvagni levò una mano dal pomo del bastone a un gesto sconsolato, atteggiando il volto d’un sorriso amarissimo, che gli velò d’intensa malinconia i grandi occhi chiari.

Il treno salutò con un fischio lamentoso la stazionuccia di Péola.

– Qua?

II

Tra quell’ampia chiostra di monti azzurrini qua e là spaccata da vaporose vallate, fosche di guerci e d’abeti, gaje di castagni, Péola, col suo mucchietto di tetti roggi e i suoi quattro campaniletti scuri, le anguste piazzette sbieche e le viuzze scoscese tra case piccole vecchie e case un po’ piú grandi nuove, aveva dunque il privilegio d’ospitare la vedova di quel giornalista Loffredi, della cui tragica morte ancora avvolta nel mistero si seguitava di tanto in tanto a parlare nei giornali delle grandi città. Privilegio non comune, poter sapere dalla viva voce di lei tante cose che gli altri, nelle grandi città, non sapevano; ma anche solamente vederla e poter dire:

– Il Loffredi, vivo, tenne stretta fra le braccia quella cosina lì!

I “civili” di Péola ne erano tutti insuperbiti. Quanto ai cani, credo che in verità avrebbero seguitato a dormire pacificamente sdrajati per le viuzze e le piazzette del paese senza il minimo sentore di quel privilegio non comune, se tutt’a un tratto, essendosi sparsa la voce della cattiva impressione che avevano fatto e facevano col loro sonno continuo alla signora Lucietta la gente, specie i giovinetti ma anche gli uomini maturi, non si fossero messi a disturbarli, e cacciarli via a calci, o pestando i piedi e battendo le mani, per chiasso.

Le povere bestie si levavano da terra, piú stupite che seccate; guardavano di traverso, alzando appena un’orecchia: poi, alcune, ballonzolando su tre zampe con la quarta aggranchita e rattratta, andavano a sdrajarsi piú là. Ma che cos’era accaduto?

Forse l’avrebbero capito, se fossero stati cani un poco piú intelligenti e meno imbalorditi dal sonno. Bastava, santo Dio, fermarsi un po’ a guardare dalle imboccature della Piazzetta ove a nessuno di loro era piú permesso, non che di sdrajarsi, ma neppur di passare di corsa.

C’era in quella Piazzetta l’ufficio del telegrafo.

Si sarebbero accorti (se fossero stati cani un poco più intelligenti) che tutti, passando di là, specialmente i giovinotti, ma anche gli uomini maturi, pareva entrassero in un’altra aria, piú vivida, per cui il passo, i moti della persona, diventavano subito piú svelti, piú agili; e le teste si rigiravano come se, per un tuffo di sangue improvviso, non trovassero piú da rassettarsi entro il giro del colletto inamidato, e le mani si davano un gran da fare per tirar giú il panciotto e accomodar la cravatta.

Attraversata la piazzetta, erano poi tutti com’ebbri, ilari e nervosi; e, vedendo un cane:

– Passa via!

– Fuori dai piedi!

– Via di qua, brutta bestiaccia!

E anche sassate – non bastavano i calci – anche sassate tiravano, ohè!

Per fortuna, in ajuto di quei poveri cani, qualche finestra si spalancava di furia, e una testa di donna, con occhi feroci, tra due pugna tese rabbiosamente s’avventava a gridare:

– Ma che v’ha preso, manigoldi, contro codeste povere bestie?

Oppure:

– Anche lei? Anche lei, signor notajo? Come non si vergogna, scusi? Ma guarda che calcio a tradimento, povera bestiolina! Qua, cara, vieni qua… La zampina, guardate… le ha storpiata la zampina e se ne va col sigaro in bocca, come se non sapesse niente, vergogna, un uomo serio!

In breve, una vivissima simpatia venne a stabilirsi tra le brutte donne di Péola e quei poveri cani presi così tutt’a un tratto a perseguitare da’ loro uomini, mariti, padri, fratelli, cugini, fidanzati e in fine, per contagio, anche da tutti i ragazzacci.

Quell’aria nuova, che i loro uomini respiravano da alcuni giorni e per cui avevano gli occhi così lustri e l’aspetto stralunato, esse sì, le donne, un poco piú intelligenti dei cani (almeno alcune) l’avevano avvertita subito. S’era come diffusa sui raggi tetti ammuffiti e in ogni angolo del vecchio sonnolento paesello e lo ilarava tutto (agli occhi degli uomini, s’intende).

Ma sì. La vita… – angustie, noje, amarezze… – poi, tutt’a un tratto, ecco, si ride… Oh Dio, così… per niente – si ride. Se dopo giorni e giorni di bruma e di pioggia spunta un occhio di sole, non s’allegrano tutti i cuori? non traggono tutti i petti un respiro di sollievo? Ebbene, che cos’è? Niente, un occhio di sole; e la vita appare subito un’altra. Il peso della noja s’alleggerisce; i pensieri piú cupi s’inazzurrano; chi non è voluto uscir di casa, viene all’aperto… Ma sentite che buon odore di terra bagnata? Oh Dio come si respira bene… Frescura di funghi, eh? E tutti i disegni per la conquista dell’avvenire diventano facili, agevoli; e ciascuno si scrolla d’addosso il ricordo delle bussate piú solenni, riconoscendo che, via, aveva dato ad esse troppa importanza. Che diamine, su, su! Che, su? Ma sì, bisogna tenersi su… I baffi? Ma sì, anche i baffi su!

– Cara, perché non ti pettini un pochino meglio?

Effetti dell’occhio di sole spuntato improvvisamente a Péola nella piazzetta dell’ufficio telegrafico. Oltre la persecuzione ai cani, questa domanda di tanti mariti alla loro moglie:

– Perché, cara, non ti pettini un pochino meglio?

E mai, certo, da anni e anni, al Circolo, per via, nelle case, a passeggio, avevano canticchiato tanto, senza volerlo, senza saperlo, i “civili” di Péola.

La signora Lucietta vedeva e sentiva tutto questo. Il guizzare di tanti desiderii da occhi accesi che la seguivano in tutte le mosse e la carezzavano con lo sguardo voluttuosamente’ il calore di simpatia che la avvolgeva, inebriarono in breve anche lei.

Non ci sarebbe voluto tanto, perché già fremeva, friggeva di per sé, la signora Lucietta. Che impiccio le davano certe ciocchette di capelli. che le cadevano su la fronte appena chinava il capo per seguire con gli occhi il nastro di carta punteggiato che si svolgeva dalla macchinetta ticchettante sul tavolino dell’ufficio! Scrollava il capo e quasi sobbalzava, come per un vellicamento di sorpresa. E che improvvise caldane e che subitanei arresti di respiro, che finivano a un tratto in una stanca risatina! Oh, ma piangeva anche, sì, sì, piangeva in certi momenti, senza saper perché. Lagrime calde, brucianti, per un oscuro improvviso scompiglio nella mente, per uno strano orgasmo, che le dava un serpeggiar di smanie per tutto il corpo, un’insofferenza… Non poteva frenarle, quelle lagrime, e sbuffava, sbuffava di stizza, ma poi, subito dopo, per un nonnulla, ecco, si rimetteva a ridere.

Per non pensare a niente, per non andare svolazzando con la fantasia dietro ogni immagine comica o pericolosa, per non sorprendersi assorta in certe previsioni inverosimili, l’unica era d’attendere giudiziosamente al suo ufficio; raccogliersi, prendere a due mani e tener ben ferma l’attenzione; perché tutto procedesse là dentro in perfetta regola, con perfetto ordine. E ricordarsi, ricordarsi sempre che a casa intanto, affidati a una vecchia serva molto stupida e rozza, c’erano i suoi due poveri piccini orfani. Che pensiero era questo! Tirarli su, da sola, col suo lavoro, col suo sacrificio, quei figliuoli! miseramente, pur troppo; oggi qua, domani là, randagia con essi… E poi, quando sarebbero cresciuti, quando si sarebbero fatta una vita per loro, forse del suo sacrificio, di tutte le sue pene non avrebbero tenuto alcun conto. No, via! via! Erano ancor tanto piccini… Perché immaginare queste cose brutte? Sarebbe stata vecchia, lei, allora; sarebbe passato comunque il suo tempo; e quando il tempo è passato e si è vecchi, anche ai ricordi tristi siamo già abituati a far buon viso…

Chi diceva così? Lei, lo diceva. Ma non perché veramente le sorgessero spontanee nell’animo queste considerazioni affliggenti. Passava ogni mattina dall’ufficio, e talvolta anche sul tramonto, quando usciva dal Municipio, il segretario comunale, quel signor Silvagni incontrato sul treno. Si tratteneva un momento, lì sull’uscio o davanti lo sportello; le parlava di cose aliene, anche liete; rideva con lei della caccia che si dava ai cani, per esempio, e delle difese che ne prendevano le donne brutte del paese. Ma negli occhi di quell’uomo, in quei grandi occhi chiari, intenti e tristi che le restavano a lungo impressi nella memoria dopo ch’egli se n’era andato via, la signora Lucietta leggeva quelle considerazioni affliggenti. Il pensiero dei figliuoli, ogni volta, chi sa perché?, glielo richiamava lui, angosciosissimo; pur senza ch’egli ne avesse chiesto affatto o glien’avesse fatto parola per incidenza.

Tornava a sbuffare, a ripetersi che i suoi figliuoli erano ancor tanto piccini… e dunque, via! perché avvilirsi? non doveva e non voleva. Là, su, su, coraggio! Era giovine lei, per ora.. tanto giovine… e dunque…

– Come dice, signore? Ma sì: conti le parole del telegramma, e poi calcoli due soldi di piú. Vuole un modulo a stampa? No? Ah, tanto per saperlo… Ho capito. A rivederla, signore… Ma di niente, si figuri…

Quanti ne entravano all’ufficio a rivolgerle di quelle stupide domande! Come non ridere? Eran pur buffi davvero tutti quei signori di Péola. E quella commissione di giovinetti, soci del Circolo di compagnia, col loro bravo presidente anziano, entrata all’ufficio una mattina per invitarla alla famosa festa da ballo annunziatale in treno dal signor Silvagni! Che scena! Tutti con gli occhi spiritati, che da un canto pareva se la volessero mangiare e dall’altro provassero una strana maraviglia nell’accorgersi che da vicino ella aveva il nasetto così e così, così e così la bocca e gli occhi e la fronte, per non parlare che della testa soltanto! Ma i piú impertinenti erano anche i piú impacciati. Nessuno sapeva come cominciare:

– Vorrà farci l’onore… – È consuetudine annuale, signora…  – Una piccola soirée dansante… – Oh, ma senza pretese, si figuri! – Festa in famiglia… – Ma sì, lasciate dire!  – È consuetudine annuale, signora…  – Ma via, che dice! basta che voglia veramente onorarci…

Si torcevano, si strizzavano le mani, si guardavano in bocca l’un l’altro nell’atto che si buttavano a parlare, mentre il presidente, che era anche il sindaco del paese, s’intozzava sempre piú, paonazzo dalla stizza. S’era preparato il discorso, lui, e non glielo lasciavano dire. S’era passato anche il cerotto con gran cura su la lunga ciocca di capelli rigirata sul cranio e aveva infilato i guanti canarini e inserito due dita, dignitosamente, tra i bottoni del panciotto.

– È consuetudine annuale, signora…

La signora Lucietta, confusa, per quanto con una gran voglia di ridere e tutta vermiglia in volto per quei pressanti inviti, piú degli occhi cupidi che delle labbra impacciate, cercò di schermirsi in prima: era ancora a lutto, lo sapevano… e poi, i due figliuoli… stava con loro la sera soltanto… non li vedeva per tutto il giorno… era usa metterli a letto lei… e poi aveva tante cose a cui attendere…

– Ma via! per una sera… – Poteva anche venire dopo averli messi a letto… – E non c’era la serva?… per una sera!

A uno dei giovanotti, nella furia, scappò detto finanche:

– Il lutto? Ma che sciocchezza!

Ebbe una gomitata in un fianco e non fiatò piú.

La signora Lucietta promise in fine che sarebbe andata, o piuttosto che avrebbe fatto di tutto per andare; ma poi, quando tutti se ne furono andati, rimase a guardarsi nella manina bianca posata su la veste nera il cerchietto d’oro che il Loffredi sposando le aveva messo al dito. La sua manina era allora così gracile: manina di ragazzetta; e ora che le dita erano un po’ ingrossate, quell’anellino le faceva male. Così stretto era, che non poteva cavarselo piú.

III

Nella camera da letto del vecchio quartierino mobigliato la signora Lucietta ora stava a dire a se stessa di no, che non sarebbe andata; e intanto dondolava  – aòh  – su le ginocchia il suo angioletto biondo, vestito di nero  – aòh, aòh – questo suo piú piccino, caro caro. che voleva ogni sera addormentarsi in braccio a lei.

L’altro, il maggiore, spogliato dalla vecchia serva taciturna, s’era messo da sé per benino nel suo tettuccio e… sì? Sì sì, che bellezza! già dormiva.

Con la maggior leggerezza di mano possibile la signora Lucietta prendeva ora a svestire il piccino già addormentato anch’esso in grembo a lei; pian pianino le scarpette, una e due; Pian pianino i calzini, uno… e due, e via ora i calzoncini insieme con le mutandine… e ora, ah ora veniva il difficile: sfilare i braccini dalle maniche del giubbetto alla cacciatora: su, piano piano, con l’ajuto della serva… non così, di qua… sì, giú… piano… piano, ecco fatto! E ora da quest’altra parte…

– No, amore… Sì, qua, qua con la mamma tua… è mamma tua qua… Lasciate, faccio da me… Rimboccate la coperta, piuttosto… sì, costà, pian pianino…

Ma perché poi così tanto pian pianino?

A un anno appena dalla tragica morte del marito voleva proprio andare a ballare? No, non sarebbe andata forse la signora Lucietta, se tutt’a un tratto, uscita dalla camera da letto nell’attigua saletta d’ingresso, non avesse visto davanti la finestra chiusa di quella saletta un prodigio, un vero prodigio.

Stava da tanti giorni in quel quartierino d’affitto, e non s’era neanche accorta che davanti la finestra della saletta d’ingresso ci fosse un vecchio portafiori di legno, tutto impolverato.

In quel portafiori, quasi all’improvviso, fuor di stagione, era sbocciata una magnifica rosa rossa.

La signora Lucietta restò dapprima a mirarla, stupita tra lo smortume della tappezzeria grigiastra, di quella sudicia soletta. Poi, dalla gioja di quella rosa rossa ebbe come un tuffo nel sangue. Vide vivo lì in quella rosa il suo desiderio ardente di godere una notte almeno. E liberatasi d’un tratto dalla perplessità che finora la aveva tenuta, dall’orrore dello spettro del marito, dal pensiero dei figli, corse, staccò dal gambo quella rosa e istintivamente, presentandosi davanti allo specchio su la mensola, se la accostò al capo.

Sì, là! Con quella sola rosa tra i capelli sarebbe andata alla festa, e i suoi vent’anni, e la sua gioja vestita di nero…

– Via!

IV

Fu l’ebbrezza. fu il delirio, fu la pazzia.

Al suo primo apparire, quando già quasi tutti avevano perduto la speranza ch’ella venisse, le tre cupe sale del Circolo a pianterreno. divise da due larghe arcate, mala

mente illuminate da lampade a petrolio e da candele, parve che all’improvviso sfolgorassero di luce, tant’era acceso e quasi sbigottito dal fremito interno del sangue il suo visino, e così fulgidamente le sfavillarono gli occhi e così pazza di gioja le strideva quella rosa di fuoco tra i capelli neri.

Tutti gli uomini perdettero la testa. Irresistibilmente, sciolti d’ogni freno di convenienza, d’ogni riguardo alla gelosia delle mogli o delle fidanzate, all’invidia delle zitellone, figliuole, sorelle, cugine, sotto colore che bisognava accogliere con festa l’ospite forestiera, accorsero a lei in folla, con vivaci esclamazioni, e lì per lì, subito, poiché già le danze erano cominciate, senza neanche darle tempo di volgere un’occhiata attorno, presero a contendersela tra loro. Quindici, venti braccia le s’offrirono col gomito teso. Tutti da prendere; ma quale per primo? A uno per volta, sì… Avrebbe un po’ per volta ballato con tutti. Ecco, largo! largo! Su, e la musica? Ma che facevano i musicanti? S’erano anch’essi incantati a mirare? Musica! musica!

E via, tra i battimani, ecco spiccata la prima danza col vecchio sindaco e presidente del Circolo, in abito lungo.

– Ma bravo! ma bravo!

– Che scosci, guardate!

– Uh, le falde della finanziera… guardate, guardate quelle falde, come s’aprono e chiudono su i calzoni chiari!

– Ma bravo! ma bravo!

– Oh Dio, la ciocca! la ciocca incerottata… gli si stacca la ciocca!

– Che? La conduce a sedere? Digià? – E altre quindici, venti braccia col gomito teso le si parano davanti.

– Con me! con me!

– Un momento! un momento’

– L’ha promesso a me!

– No, prima a me!

Dio, che scandalo! Per miracolo non facevano a strattarsi l’un l’altro.

I respinti, in attesa che venisse il loro turno, si recavano mogi mogi a invitare altre dame, delle loro; qualcuna piú brutta, accettava ingrugnata; le altre, indignate, stomacate rifiutavano con un:

– Grazie tante!  – a schizzo.

E si scambiavano tra loro con occhi feroci sguardi di schifo, qualcuna scattava da sedere, faceva cenni violenti di volersene andare; invitava questa o quell’amica a seguirla: via tutte! via tutte! Non s’era mai vista simile indecenza!

Alcune quasi piangenti, altre tremanti di rabbia, si sfogavano con certi omicelli stremenziti nei vecchi abitucci lustri, di taglio antico, odoranti di pepe e di canfora. Come foglie secche, per non esser rapiti dal turbine, s’erano costoro ritratti al muro, riparati tra le oneste gonne di seta delle loro mogli o cognate o sorelle, goffe gonne a sbuffi e a falbalà, stridenti dei piú vivaci colori, verdi, gialle, rosse, celesti, che ermeticamente, con gran conforto delle loro nari e della loro coscienza, custodivano, così prese dal tanfo delle onorate cassapanche, gli arcigni pudori provinciali.

Il caldo a poco a poco nelle tre sale s’era fatto soffocante. Quasi una nebbia s’era diffusa dal vaporare della bestialità di tutti quegli uomini; bestialità ansante, bollente, paonazza, sudata, che del sudore, nelle brevi tregue allucinate, profittava con occhi folli per rassettarsi, incollarsi, rilisciarsi con mani tremanti sul capo, su le tempie, su la nuca i capelli bagnati, irsuti. E si ribellava ormai, quella bestialità con tracotanza inaudita a ogni richiamo della ragione: veniva una volta l’anno la festa! Del resto, nulla di male! Zitte e a posto le donne!

Fresca. leggera, tutta compresa nella sua gioja che respingeva ogni contatto brutale, ridendo e guizzando con scatti improvvisi, per appagarsi di se stessa, intatta e pura in quel suo momento di follia, agile fiamma volubile in mezzo al tetro fuoco di tutti quei ciocchi congestionati, la signora Lucietta, vinta la vertigine, divenuta lei stessa vertigine, ballava, ballava, senza piú nulla vedere, senza piú distinguere nessuno; e gli archi delle tre sale, i lumi, i mobili, le stoffe gialle, verdi, rosse, celesti delle signore, gli abiti neri e i candidi sparati delle camice degli uomini, tutto le s’avvolgeva ormai attorno in strisci vorticosi. Si staccava d’un balzo dalle braccia d’un ballerino, appena lo sentiva stanco, pesante, ansimante, e subito si buttava tra altre braccia, le prime che si vedeva tese davanti, e via, via per riavvolgersi in quegli strisci vorticosi, per farsi girare ancora attorno in frenetico scompiglio tutti quei lumi e tutti quei colori.

Seduto nell’ultima sala, accosto al muro in un canto quasi in ombra, Fausto Silvagni, con le mani sul pomo del bastone e su le mani la grossa barba fulva, da circa due ore la seguiva coi grandi occhi chiari, animati da un benigno sorriso. Egli solo intendeva tutta la purezza di quella folle gioja, e ne godeva; ne godeva come se quel tripudio innocente fosse un dono della sua tenerezza a lei.

Tenerezza solo? ancora solo tenerezza? non gli palpitava già troppo dentro, per essere ancora solo tenerezza?

Da anni e anni Fausto Silvagni con quei suoi occhi intenti e tristi guardava come da lontano ogni cosa; come remote ombre evanescenti, gli aspetti vicini; e dentro di sé, i suoi stessi pensieri e i suoi sentimenti.

Fallita per avversità di casi, per gravosi obblighi meschini la sua vita, spenta sul piú bello la luce di tanti sogni tenuta fin da ragazzo accesa con l’ardore di tutta l’anima (sogni che ora non poteva richiamare al suo ricordo senza strazio e senza rossore), rifuggiva dalla realtà, nella quale era costretto a vivere. Ci camminava; se la vedeva attorno; la toccava; ma nessun pensiero, nessun sentimento ne veniva piú a lui; e anche se stesso vedeva come lontano da sì, perduto in un esilio angoscioso.

Ora, in questo esilio, un sentimento all’improvviso era venuto a raggiungerlo; un sentimento ch’egli avrebbe voluto tener discosto per non riconoscerlo ancora. Non avrebbe voluto riconoscerlo, ma non osava piú neanche scacciarlo.

Non era forse volata da’ suoi sogni lontani, questa cara folle Atina vestita di nero, con una rosa di fiamma tra i capelli? Potevano anche essere i suoi sogni stessi, divenuti vivi, ora, in questa Atina, perchè egli, non avendo potuto raggiungerli allora sott’altra forma, in questa se li stringesse vivi e spiranti tra le braccia… Chi sa! Non poteva fermarla, trattenerla e ritornare per essa e con essa finalmente dal suo lontano esilio? Se egli non la fermava, se egli non la tratteneva, chi sa dove e come sarebbe andata a finire, quella povera fatina folle. Aveva bisogno d’ajuto, anche lei, bisogno di guida e di consiglio, così sperduta anche lei in un mondo non suo, e con quella gran voglia di non perdersi, ma anche ahimé, di godere. Quella rosa lo diceva, quella rosa rossa tra i capelli…

Fausto Silvagni guardava da un pezzo, costernato, quella rosa. Non sapeva perché. La vedeva su quel capo come una fiamma… Si scoteva tanto quella testolina folle; come non cascava quella rosa? Ebbene, temeva di questo? Non sapeva dirselo, e seguitava a guardarla, costernato.

Dentro, intanto, sotto sotto, il cuore gli diceva, tremando:

– “Domani; domani o uno di questi giorni, parlerai… Ora lascia ch’ella balli così, come una fatina folle…”

Ma ormai la maggior parte dei cavalieri cascavano a pezzi dalla stanchezza; si dichiaravano vinti e si voltavano attorno, come ubriachi, in cerca delle loro donne andate via. Solo sei o sette ancora resistevano, accaniti, tra cui due anziani – chi l’avrebbe creduto? – il vecchio sindaco in abito lungo e il notajo vedovo, tutt’e due in uno stato miserando, con gli occhi schizzanti dalle orbite, le facce sudate, infocate, impiastricciate di tintura, la cravatta di traverso, la camicia spiegazzata, tragici in quel loro furore senile. Erano stati finora respinti dai giovanotti; ora, frenetici, si rilanciavano per farsi buttare uno dopo l’altro come balle su le seggiole, appena compiuti due giri.

Era la stretta finale, l’ultima danza.

Se li vide tutti e sette attorno, sopra, aggressivi, furibondi, la signora Lucietta.

– Con me! con me! con me! con me!

N’ebbe sgomento. D’un tratto le s’avventò agli occhi la bestiale sovreccitazione di quegli uomini, e al pensiero ch’essi avessero potuto bestialmente accendersi per la sua innocente festività, provò ribrezzo, onta. Volle fuggire, sottrarsi a quell’aggressione: ma, allo scatto di cerbiatta, i capelli già un po’ allentati le cascarono; e la rosa giú – a terra.

Fausto Silvagni si tirò su a guardare, come sospinto dal presentimento oscuro d’un imminente pericolo. Ma già quei sette s’eran precipitati a raccogliere la rosa. Riuscì a ghermirla il vecchio sindaco, a costo d’un tremendo sgraffio alla mano.

– Eccola! – gridò, e corse con gli altri a porgerla alla signora Lucietta riparata in fondo alla seconda sala per ricomporsi alla meglio i capelli. – Eccola qua… Ma no, che grazie! Ora lei… – (non aveva piú fiato da parlare, il vecchio sindaco; la testa gli ciondolava)  – … ora lei deve far la scelta… ecco… deve offrirla, qua, a uno…

– Bravo! bene!

– A uno… a sua scelta… bravissimo!

– Vediamo! Vediamo!

– A chi ’offre? A sua scelta!

– Il giudizio di Paride!

– Silenzio! Vediamo a chi l’offre!

Anelante, col braccio teso e la bellissima rosa alta nella mano, la signora Lucietta guardò quei sette infuriati, come, voltandosi nel sentirsi sopraffatta, una preda inseguita i suoi assalitori. Intuì subito che volevano a ogni costo ch’ella si compromettesse.

– A uno? a mia scelta? – gridò all’improvviso, con un lampo negli occhi.  – Ebbene, sì… a uno l’offrirò… Ma scostatevi prima… scostatevi tutti! No, piú… piú… ecco, così… L’offrirò… l’offrirò…

Saettava con lo sguardo ora l’uno ora l’altro, come fosse incerta nella scelta e incerti e goffi, con le mani protese e nelle facce brutali e stravolte una smorfia d’implorazione sguajata, quei sette pendevano dal visino di lei ora sfolgorante di malizia, allorché d’un balzo ella, sguizzando tra gli ultimi due alla sua manca, prese la corsa verso la prima sala. Aveva trovato lo scampo: offrire la rosa a uno di quelli che se n’erano stati tutta la serata quieti a guardare, seduti accosto al muro: a uno qual si fosse, il primo che capitava in direzione della corsa.

– Ecco qua! L’offro qua a…

Si trovò davanti i grandi occhi chiari di Fausto Silvagni. Smorì d’un tratto; restò un momento come sospesa, confusa, tremante, alla vista del volto di lui; le sfuggì un’esclamazione sommessa: – Oh Dio… – ma si riprese subito:

– Sì, per carità… ecco, a lei, prenda, prenda signor Silvagni!

Fausto Silvagni prese la rosa e si voltò con un sorriso vano, squallido, a guardare quei sette che s’erano precipitati appresso a lei gridando come ossessi:

– No, che c’entra lui?  – A uno di noi!  – Doveva offrirla a uno di noi!

– Non è vero!  – protestò la signora Lucietta battendo un piede fieramente.  – S’è detto a uno, e basta! E io l’ho offerta qua al signor Silvagni!

– Ma questa è una dichiarazione d’amore bell’e buona!  – gridarono allora quelli.

– Che?  – ripigliò la signora Lucietta, facendosi in volto di bragia.  – Ah, nossignori, prego! Sarebbe stata una dichiarazione, se la avessi offerta a uno di loro! Ma l’ho offerta al signor Silvagni, che non s’è mosso, tutta la serata, e che dunque non può crederlo, è vero? non può crederlo! Come non possono crederlo neanche loro!

– Ma sì, ma sì che noi lo crediamo! Lo crediamo invece benissimo! Anzi! tanto piú lo crediamo; – protestarono quelli a coro. – Proprio a lui oh! proprio a lui!

La signora Lucietta si sentì tutta sconvolgere da un dispetto feroce. Non era piú uno scherzo ormai! la malignità schizzava da quegli occhi, da quelle bocche; era chiara nei loro ammiccamenti, nei loro grugniti l’allusione alle visite del Silvagni all’ufficio, alla bontà ch’egli le aveva dimostrato fin dal suo arrivo. E quel pallore, intanto, quel turbamento di lui davano esca ai sospetti maligni. Perché quel pallore, quel turbamento Poteva forse credere anche lui, che ella?… Non era possibile! E perché allora? Forse perché lo credevano gli altri! Invece d’impallidire e di turbarsi a quel modo, avrebbe dovuto protestare! Non protestava; impallidiva sempre piú, e una crudele sofferenza gli s’acuiva di punto in punto negli occhi.

Intuì tutto in un lampo la signora Lucietta, e n’ebbe come uno schianto. Ma in quell’attimo d’angosciosa perplessità, di fronte alla sfida di quei sette impudenti sconfitti che seguitavano a strillarle intorno con furia dilaniatrice:

– Ecco! ecco, vede? Lo dice lei, ma non lo dice lui!

– Come non lo dice?  – gridò, lasciando prevalere, tra il guizzare e il cozzare di tanti opposti sentimenti, il dispetto.

E, facendosi innanzi al Silvagni, agitata da un fremito convulso, guardandolo negli occhi, gli domandò:

– Può lei credere sul serio che, offrendole codesta rosa, io abbia voluto farle una dichiarazione?

Fausto Silvagni restò un momento a guardarla con quel sorriso squallido di nuovo sulle labbra.

Povera Atina, forzata dall’impeto bestiale di quegli uomini a uscire dal cerchio magico di quella pura gioja, di quell’innocente ebbrezza, nella quale come una pazzerella s’era aggirata! Ecco che ora, pur di difendere di tra l’accanimento dei brutali appetiti di quegli uomini l’innocenza del dono di quella rosa, l’innocenza di quella sua folle gioja d’una sera, esigeva da lui la rinunzia a un amore che sarebbe durato per tutta la vita, una risposta che valesse per ora e per sempre, la risposta che doveva far subito appassire tra le sue dita quella rosa.

Sorgendo in piedi e guardando con fredda fermezza quegli uomini negli occhi, disse:

– Non solo non posso crederlo io; ma stia sicura che non lo crederà mai nessuno, signora. Ecco a lei la rosa; o non posso, la butti via lei.

La signora Lucietta riprese con mano non ben ferma quella rosa e la buttò via in un canto.

– Ecco, sì grazie – disse; sapendo bene ormai ciò che con quella rosa d’un momento aveva buttato via per sempre.

http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/13_178.htm

“La rosa”, novella di Luigi Pirandello

Di MariaAmici

 

Novella di Luigi Pirandello pubblicata ne La lettura (rivista mensile del Corriere della Sera) di Novembre 1914, poi in E domani, lunedì, Treves, Milano 1917; quindi confluita in Novelle per un anno, La candelora, edita nel 1928.

In tale redazione è reperibile qui, sul più che meritorio PirandelloWeb

La protagonista, Lucietta, sin dall’esordio della novella si rivela personaggio già variato. In treno – il luogo pirandelliano tipico dei momenti di ‘rivelazione’ e di ‘svolta’ –, si reca alla sua nuova destinazione, in cui è stata assunta quale telegrafista, con i due figli piccoli: è vedova di un uomo che la sposò, giovanissima, suggerisce Nettuno, Anni ’30 . Effetto seppia – Diritti appartenenti ai rispettivi proprietaril’Autore, come una «bamboletta»; la morte di quegli, dai contorni ambigui, l’ha costretta a vender casa, e l’‘occhio sociale’, cui non sa sfuggire, a considerare da un lato la vita di prima più agiata di quanto non fosse, e dall’altro la condotta del marito più onesta, la sua morte più lineare se non addirittura eroica, «una vendetta politica».

Nelle pieghe della narrazione, trapela la critica alla disagiata condizione femminile reificata e manipolata per sottintesi interessi sessuali, così come la reazione della donna, che ad un livello morale mediocre e alle convenzioni non sfugge.

Pirandello nel 1932?Sul treno, la donna incontra il segretario comunale dello stesso paese verso cui sta viaggiando, un uomo malinconico, che la colpisce superficialmente per la sua aria e le sue parole da pensatore, da «filosofo»; i suoi «due occhi grandi, intenti e tristi», anzi, senza che lui lo voglia la infastidiscono, come segno dell’estraneità del mondo che le sarebbe sempre rimasto «lontano, lontanissimo e ignoto».

Ugualmente, l’uomo appare remoto, lui e le sue osservazioni vaghe – come una di esse, interessante per i richiami intertestuali pirandelliani che evoca, a specchio come il riflesso del lanternino dello scompartimento che appare, ‘dietro il vetro’, come una luce esterna che segue l’essere umano ed esiste solo con lui e per lui:

    «come la fede… [ – quegli nota – ].  Accendiamo noi il lume di qua, nella vita; e lo vediamo anche di là; senza pensare che se si spegne qua, di là non c’è più lume».

Il sonnacchioso paese è pressoché sconvolto dall’arrivo della nuova telegrafista, sia nella componente maschile, che entra in uno stato di sovraeccitazione che non ha come sfogarsi se non, nel tocco paradossale e corrosivo di Pirandello, con ..pedate a tradimento ai cani randagi, quegli stessi che, nella conversazione in treno, alla vedova avevano significato l’accidia costante del paese; sia in quella femminile, specialmente tra le «brutte donne», improvvisamente, per reazione di gelosia, solidale alle «povere bestie».

E domani lunedì, Treves rist. 1919 (prima ed. 1917) . copertina

E domani lunedì, Treves rist. 1919 (prima ed. 1917) . copertina

Significativamente stretta dall’anellino nuziale che non riesce più a levarsi dalla mano cresciuta, l’attraente vedova rinuncerebbe all’invito a una festa da ballo rivoltole dai soliti ‘ronzoni’ così spesso impietosamente ritratti dall’Autore, se inaspettata, in un vaso dentro casa, altrettanto allusivamente non fosse spuntata una «magnifica rosa rossa» a risvegliare vanità, forse sensualità, desiderio di ammirazione, la sua «gioja vestita di nero», la «gioja» dei suoi «vent’anni».

Già durante il viaggio il segretario aveva preannunciato alla signora l’avvenimento:

    «fra pochi giorni avremo al Circolo una festa da ballo.

    – Ah…

    E la signora Lucietta lo guardò come colta in un lampo dal sospetto, che anche questo signore si volesse burlar di lei.

    – Ballano i cani? – domandò.

    – No: i “civili” di Pèola…»

Appunto tra questi «“civili”», causticamente virgolettati, nell’amaro umorismo pirandelliano «tragici in quel loro furore senile», appena la vedova fa il suo ingresso, di nuovo

    «Fu l’ebbrezza, fu il delirio, fu la pazzia».

L’arrivo della donna, della sua femminilità sbocciata come la rosa – non una metafora sconosciuta, per lo studioso di letteratura – e, involontariamente?, offerta, sfrena le invidie cariche di ripicca delle donne e soprattutto il parossismo del desiderio nei maschi eccitati.

Nella sala, si diffonde la «nebbia» vaporante della

    «bestialità di tutti quegli uomini; bestialità ansante, bollente, paonazza, sudata, che del sudore, nelle brevi tregue allucinate, profittava con occhi folli per rassettarsi, incollarsi, rilisciarsi con mani tremanti sul capo, su le tempie, su la nuca, i capelli bagnati, irsuti»,

innescata dal richiamo erotico come dall’occasionalità, dall’eccezionalità del ballo: una vertigine che in diverso modo coinvolge anche la vedova.

Come dall’esterno, incarnazione mai vieta del pirandelliano osservatore spersonalizzato, estraneo, forestiero quasi, ancora una volta – ma ‘a specchio’ dacché la notazione era stata della vedova – «da lontano», il segretario comunale, distaccatosi dall’«esilio» che gli avevano imposto la delusione e l’infrangersi dei sogni, la segue con occhi inteneriti, ammirati, accesi da ben altro sentimento che i presenti, e che già l’aveva spinto a timide attenzioni nei giorni passati: «costernato» dall’attrazione che pur sente per quella rosa e ciò che essa in fondo significa nella vedova, in quel che egli reputa il suo coraggioso avventurarsi nella vita, eppure senza sapersi convincere ad avvicinarsi a quella «cara folle fatina vestita di nero», a distoglierla da quell’arena e i suoi fumi di bruta libidine, a proteggerla da quelli e da se stessa.

Non riesce: ma è lei, «con uno scatto da cerbiatta» – di biblica memoria di purezza – ad allontanarsi, nello «sgomento» che le suscita quella «bestiale sovreccitazione» maschile, nel «ribrezzo» e nell’«onta», entrambe, nel loro diverso portato accomunate, spesso parole chiave legate alla sfera della sensualità in Pirandello quando non sorvegliata dalla coscienza e dall’umanità.

Particolarmente «ribrezzo» è termine pirandelliano tipico a lessicalizzare la reazione della coscienza pura alla pulsione sessuale non solo non controllata ma di fatto svilita, disumanizzata, fondata su una visione strumentale dell’essere umano che la suscita, occasionale, di scarsa rilevanza e (ma si tratta piuttosto di un segno esteriore) non contestualizzata nell’unione matrimoniale.

E’, questo, uno degli indizi potenti del ‘pudore’, del ‘candore’* di Pirandello, non del suo moralismo – com’è stato spesso frettolosamente liquidato – ma di una concezione della donna e dei rapporti personali particolarmente elevata e vocata alla purezza, alla castità persino nel e dell’atto sessuale.

– Si sa peraltro che si ha difficoltà, e l’hanno anche i critici, a cogliere ciò che non appartiene.

Nell’atto subitaneo della vedova, la rosa, la magia e il mistero, soprattutto la naturalità e l’innocenza dell’attrattiva, le cade dai capelli ed è il sindaco, simbolicamente, a «ghermirla» con la mano animalesca perché la offra e si offra, lei, al suo favorito. La donna si ritrae, non sa come reagire a quel losco tentativo di compromissione.

Scorge allora – una scelta ben più rassicurante –, più «lontano», il segretario comunale, del quale non teme il coinvolgimento nella ridda dei desideri: gli altri insorgono per vendetta, con «sospetti maligni», denunciando, ma è un’illazione, l’intenzione riposta di quella scelta, nella donna: e, altrimenti, che comunque essa inveri il desiderio dell’uomo.

Il turbamento del segretario, «la crudele sofferenza nei suoi occhi», a sua volta le inoculano il timore e il fastidio che quei sospetti, quella maldicenza gretta, fossero sì fondati, ma non su di lei, bensì nell’animo del timido segretario: che non aveva forse osato, per quella sua disposizione timida e distaccata, lontana, rivelarlesi e irresoluto non riesce adesso a schermirsi né ad opporsi alle insinuazioni, rivendicando la propria estraneità, peraltro non sentita.

Ecco allora che la vedova si rivolge a lui con incredulità e «dispetto», a difendere la propria onorabilità e nondimeno a ridimensionare e inibire, opponendo un veto implicito, i sentimenti e i desideri dell’uomo:

    «E, facendosi innanzi al Silvagni, agitata da un fremito convulso, guardandolo negli occhi, gli domandò:

    – Può lei credere sul serio che, offrendole codesta rosa, io abbia voluto farle una dichiarazione?»

Ugualmente la donna, in definitiva, non sa sfuggire alla propria – già paventata – estraneità a quel mondo che in lei vede solo un corpo da possedere e tale fraintendimento estende decisamente, ciecamente, all’‘altro’, a chiunque; il «dispetto» ribadisce il suo «fastidio» già provato in precedenza per il segretario e per ciò che egli significava del mondo che, per lei, sarebbe stato sempre «indifferente» nei suoi confronti, o di lei avrebbe approfittato, ‘burlandosene’.

Entrambi condizionati dalla pressione inesorabile, e tràdita da secoli dalla Grecia omerica, di una tale ‘società di vergogna’, sintagma di doddsiana memoria*,

come lei ma con un più profondo senso di consapevolezza, anche l’uomo si trova intrappolato nella maschera impostagli successivamente da essa, dalla donna amata e dalla volontà di costei d’essere tutelata.

Pur di preservare, ancora, non solo l’onorabilità ma l’innocenza e la purezza della donna e dell’amore stesso, per fissare per sempre quell’amore nel «cerchio magico»* che lo sottragga allo svilirsi sulle bocche altrui e specialmente alla deperibilità e al decadimento della tensione spirituale e della dirittura morale, il segretario si rende conto che, così come lei imponeva, anche quel momento vertiginoso e critico della scelta

    «esigeva da lui la rinunzia a un amore che sarebbe durata per tutta la vita, una risposta che valesse per ora e per sempre, la risposta che doveva far subito appassire tra le sue dita quella rosa».

Così, nell’atto di restituirle la rosa perché la butti via, da allora e per il futuro il segretario rinuncia alla vita, alla reciprocità dell’amore, e in fondo a sottrarsi alla sua dimensione di «lontano».

Luigi Pirandello L’amore, peraltro, per come Pirandello pare intenderlo, è sentimento così assoluto, eterno ed elevato e imprendibile, e in definitiva ‘altro’, da rivelarsi fragilissimo se trasferito sul piano del contingente e del temporale: se il vagheggiamento si traduce in relazione effettiva, l’amore, che non sopporta la materialità ma neanche la realizzazione, ne è vulnerato spesso irreparabilmente, fino a svanire: così la scelta possibile, l’unica, è la rinuncia, restare «lontano».

«La signora Lucietta riprese con mano non ben ferma quella rosa e la buttò via in un canto.

– Ecco, sì… grazie… – disse [il segretario]; sapendo bene ormai ciò che con quella rosa d’un momento aveva buttato via per sempre».

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L’esito cinematografico*

Nel 1921 da La rosa sarà tratto, a cura di Stefano Landi (nome d’arte di Stefano Pirandello figlio), un film, per la regia di Arnaldo Frateili: nel cast tra vari D’Amico figurano gli attori Lamberto Picasso e Olimpia Barroero e, oggi diremmo quale special guest, lo scrittore Bruno Barilli.

 

Nello stesso anno, ancora da novelle di Pirandello, sarà tratto il soggetto di Ma non è una cosa seria di Augusto Camerini (adattamento e cura di Camerini e Frateili) e Il viaggio di Gennaro Righelli.

http://nephelais.wordpress.com/2012/12/04/la-rosa-novella-di-luigi-pirandello/








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