Salamone Rossi detto l’Hebreo

Più che un soprannome Salamone Rossi aveva avuto imposta una stigma: nato da un’abbiente famiglia giudea di Mantova portava, come tutti i suoi consanguinei, quasi il nomen gentis di hebreo. Il valore di tale precisazione genetico-culturale, certamente adoperata soprattutto negli atti ufficiali, aveva un’utilità pratica immediata: gli ebrei non sono cristiani, e quindi non sono soggetti, o lo sono solo a certe condizioni, a tutte quelle norme imposte per la salvezza delle anime, e cioè principalmente a tutti quei divieti vòlti a scongiurare attività considerate immorali, quando non del tutto contrarie alla buona osservanza della religione. Su tutte la cosa peggiore, moralmente e giuridicamente, era il prestito di danaro a interesse, come si dice ancor oggi usando un eufemismo, e cioè il mutuo ad usura, o feneratizio, non previsto direttamente dal Diritto Romano (che tollerava, semmai, la stipulazione di un contratto a parte per gli interessi) e senza dubbio inammissibile per il diritto canonico: non così quindi per gli ebrei, che non essendo cristiani, e quindi comunque destinati a triste sorte nell’aldilà, non solo non sottostavano al diritto canonico, ma erano pure ampiamente sollevati da qualsivoglia cautela prevista dal legislatore civile per compatibilità con l’ordinamento religioso. Da qui la perdurante continuità delle dirigenze ebraiche nelle maggiori banche, e quindi l’evidenza della generale utilità ad imporre il motto di hebreo: con questi signori si potevano fare affari vietati alla generalità dei sudditi senza temerne effetti collaterali di natura civile, canonica o penale. Salamone Rossi, l’hebreo appunto, poco ebbe a che fare con simili problemi. Nato nella Mantova dei Gonzaga verso il 1570 crebbe in un clima per nulla ostile ai giudei, e superate le barriere quasi autoimposte da una comunità che sempre ha teso a separarsi dalla massa della popolazione (elemento forse trascurato nelle ricostruzioni storiche odierne) impresse nuova vita alla cultura ebraica dei suoi tempi attraverso innate abilità musicali e la frequentazione soprattutto della scuola monteverdiana che trovò già avviata e fiorente. Gli ebrei europei vivevano in un orizzonte culturale assai ristretto: siamo ancora lontani dall’emersione di personalità come Spinoza, e la gran parte della popolazione giudaica si divide nettamente in un ceto imprenditoriale (gioiellieri, mercanti, banchieri, etc.) ed in uno basso-artigianale (falegnami, vasai, cenciaioli ed altri deputati ad attività espressamente riservate loro dalla restrittiva legislazione del tempo). I pochi intellettuali ebrei generalmente non vengono a patti con la cultura dominante, perseverando nella conservazione di stilemi autonomi quasi insensibili al mondo circostante ed alle sue novità. Salamone Rossi rappresenta quindi un’interessante eccezione, almeno in Italia, le cui innovazioni furono di straordinaria portata rispetto ai risultati, comunque scarsi, che la sua attività produsse in seno all’ebraismo italiano. Il 14 luglio 1555 Papa Paolo IV emana la bolla Cum nimis absurdum, che troverà passiva applicazione anche a Mantova, con la quale instituisce il ghetto di Roma su modello di quello veneziano, ed invita i Principi cristiani a fare lo stesso; non è di certo l’inizio della legislazione antigiudaica, ma certamente la misura comportò l’ulteriore segregazione culturale degli ebrei. In un clima di avversione, più o meno palese, al sistema sociale che li aveva relegati ai margini della vita civile, il Rossi non solo viene introdotto a corte, ma per di più vi presta servizio abitualmente tra i musici preferiti dal Duca Vincenzo I (1562 – 1612), componendo musiche da ballo e suonando il violino nella Cappella Ducale, dove otterrà successi tanto grandi da meritargli, nel 1606, l’esenzione dal portare addosso i distintivi imposti agli ebrei fuori dal ghetto. Mantova era in fermento, soprattutto grazie alle qualità del grande Monteverdi, alla cui scuola Rossi appartenne, e con il quale collaborò nella composizione del pasticcio sacro La Maddalena, su testo dell’Andreini (1617), le cui musiche sono in larga misura perdute; solamente nell’opuscolo coevo Musiche di alcuni eccellentissimi musici composte per La Maddalena rimane un piccolo balletto finale del Rossi, mentre sappiamo che il suo apporto fu assai maggiore.

La presenza congiunta di Monteverdi e dell’hebreo in quella circostanza non fu per nulla un caso, quando anche la sorella Ester o Europa (nome d’arte) partecipò attivamente alla vita musicale di corte, trovandosi presente fin’anche nel primo cast della celebre Arianna. Salamone prese dal suo famoso maestro tutti i vezzi dell’arte, e non mancò molto che finì con il cimentarsi più impegnativamente con il genere rappresentativo, componendo qualche intermezzo che purtroppo non possediamo; aleggia tuttavia la sua presenza qua e là in molte opere superstiti della fucina musicale mantovana, e non è mancato chi ha voluto vedere la sua mano, o quella d’un altro famoso ebreo di corte, l’Isacchino (al secolo Isacco Massarano), nelle pompose danze dell’Orfeo, benché le partiture siano chiare nell’attribuire l’intera composizione al solo Monteverdi (cfr. A proposito della Moresca dell’Orfeo di Monteverdi, di Lorenzo Tozzi, in Affetti musicali: studi in onore di Sergio Martinotti). Guardando ai testi di certa paternità il genere rappresentativo appare del tutto assente dagli immediati interessi del Nostro, mentre abbondano le pubblicazioni a stampa delle prevedibili raccolte di madrigali e canzonette, nonché ovviamente di composizioni strumentali in cui il Rossi eccelse.

Se è vero che i madrigali di sua produzione hanno la peculiarità di essere accompagnati, caratteristica particolare ma non esclusiva della sua musica (l’idea che si cantasse solo a cappella e con parti raddoppiate o triplicate è tutta moderna), la pubblicazione più interessante è certamente quella che va sotto il nome di ?????? ??? ?????, o Cantici di Salamone (1623), il cui titolo è volutamente equivoco. In essa Rossi attua il più ardito progetto di europeizzazione dei costumi ebraici mai visto fino ad allora, arrivando a toccare quella parte della cultura giudaica che era rimasta del tutto impermeabile alle rivoluzioni rinascimentali: la liturgia. I Cantici di Salamone altro non sono che i salmi biblici propri della liturgia ebraica riscritti secondo lo stile contrappuntistico e destinati espressamente all’uso in sinagoga, ad emulare in tutto le grandiose Messe contemporanee che già da secoli si avvalevano della polifonia accanto all’antico canto gregoriano. In un contesto musicale che ignora del tutto generi sacri diversi dalla tradizionale salmodia, i cantici di Rossi sono paragonabili alle partes della liturgia cattolica, condividendo con essa l’uso d’una lingua sacra (il Latino come l’Ebraico, allora appannaggio dei soli rabbini) e dei tradizionali registri vocali occidentali. La peculiarità di questa singolare produzione non si trova quindi nella musica propriamente detta, bensì nell’uso assolutamente rivoluzionario della lingua ebraica, dal suono particolarissimo, negli stessi testi ch’erano stati musicati, in Latino, da Palestrina come da Monteverdi. Su tutti spicca certamente il Salmo 137, dal famoso versetto iniziale “super flumina Babylonis”, in ebraico “Al naharòt Bavel”, la cui versione palestriniana del 1581 in forma di mottetto a 5 voci è davvero celeberrima: quella di Rossi è corposa, potente nella sua lineare ieraticità, penetrante al punto da ricordare proprio la polifonia rinascimentale e la scuola romana più che quella monteverdiana; ma pure l’intera composizione è pervasa da una costante cantabilità e da dissonanze (non sempre udibili purtroppo nelle esecuzioni moderne) che non si possono portare fuori dalla realtà musicale dei suoi tempi, o meglio, proprio di quei giorni. Un Monteverdi ebreo quasi, benché lo stile nei pezzi vocali sia perfettamente riconoscibile e diverso, rispetto a quelli strumentali. Sarebbe interessante sapere come venissero praticamente eseguite composizioni come questa: esistevano dei castrati ebrei per la parte del soprano, o usavano dei falsettisti, o anzi dei bambini? Di certo il primo soprano raramente supera il Re acuto, rendendo questi canti insolitamente densi e pastosi per la media dell’epoca: sembra impossibile vedere qualche grasso rabbino sfalsettare nel bel mezzo d’una compita cerimonia, ma probabilmente Rossi è riuscito ad ottenere anche questo, una volta che i suoi connazionali si abituarono all’idea d’una fluente polifonia sacra in ebraico. Interessantissimo a tal proposito il canto tradizionale Barechu, e cioè l’invito alla preghiera che gli officianti rivolgono all’assemblea prima dell’intonazione dello Shemà, la professione di fede ebraica (paragonabile al nostro Credo): in un turbinio di tre voci, con un soprano come al solito insolitamente basso ed un basso insolitamente alto, certamente entrambi per ragioni contingenti riferibili ai cantori della particolare sinagoga per cui il Rossi compose, l’idea generalizzata della greve liturgia rabbinica è del tutto assente, rimpiazzata da sobri contrappunti dalla vaga eco fiamminga, forse per la singolare limitazione dei registri. Stessa impressione sorge all’ascolto del Kaddish Yitgadal, uno dei Kaddishim, o Santificazioni, antichissime preghiere ebraiche da cantarsi solo in presenza di uomini (almeno dieci, e che abbiano compiuto il tredicesimo anno d’età): qui Rossi è arrivato davvero al cuore del giudaismo, musicando una preghiera in aramaico risalente agli albori dei rituali tramandati per secoli nelle sinagoghe, ascrivibile addirittura al gran tempio di Re Salomone. Guardando indietro simili scelte sembrano attualissime, e non par quasi possibile che per una comunità ghettizzata e tendente già di suo all’isolamento qualcuno abbia immaginato una musica tanto vicina ai modelli europei e cristiani. Salamone Rossi resta un esempio isolato di integrazione, che durò ben poco. Vincenzo I, oggi famoso solo per i ridicoli “test di virilità” cui fu sottoposto dalla suocera, ma al tempo valido mecenate che ebbe a corte fin’anche il grandissimo Rubens, morirà nel 1612 lasciando una discendenza poco all’altezza delle aspettative, quando non del tutto indegna. Il figlio Francesco IV stette sul trono per dieci mesi, giusto il tempo di ammalarsi di vaiolo e morire a sua volta, passando lo scettro al fratello Ferdinando, cardinale diacono che si ritrovò improvvisamente immerso negli intrighi familiari, dovendo ben presto rinunciare alla porpora. Mentre Monteverdi scappava dalla città, con il Duca intento a vendere a prezzo stracciato le collezioni d’arte di famiglia agli inglesi, Rossi e la sorella rimasero a Mantova attendendo tempi migliori, che non vennero mai. Nel 1626 morì anche Francesco IV, e gli successe il fratello Vincenzo, anch’egli cardinale, ma sposato, e con una cugina del doppio dei suoi anni. Il neoduca, di salute tanto cagionevole da condurlo tosto a prematura morte, regnerà per un anno scarso, attribuendosi come unico atto sovrano la ratifica della successione nelle mani d’un cugino parigino, Carlo I di Revers; inutile dire che quest’ingerenza francese nelle vicende italiche suscitò le immediate ire dell’Imperatore asburgico. Con la sua schiatta finì anche il mecenatismo mantovano, e con esso la fortuna della famiglia Rossi: mentre i terribili lanzichenecchi imperiali invadevano la città ed un’improvvisa epidemia di peste decimava la popolazione del ghetto, Salamone Rossi da qualche parte si spegneva, non è dato sapere se per mano di qualche soldato sprovveduto o per quel terribile morbo. I libri di storia pongono convenzionalmente il 1630 come data della sua morte, facendola coincidere con l’assedio voluto da Ferdinando II d’Asburgo; eppure a qualcuno piace immaginare che il simpatico hebreo mantouano sia riuscito a scappare dalla città in rovina assieme alla sorella, per iniziare una nuova vita sotto mentite spoglie. E però in questo forse lo storico si confonde con l’ammiratore, ed al rigore della ricerca si sostituisce l’affetto per i propri mentori musicali.

Bibliografia

Forse proprio perché unico musicista ebreo di spicco dell’età c.d. barocca Salamone Rossi ha avuto dedicate diverse monografie, specialmente dagli studiosi di musica giudaica, benché le fonti principali in merito alla sua opera restino plausibilmente gli studi su Monteverdi e sulla scuola mantovana.

Abraham Zebi Idelsohn: Jewish music: its historical development (famosa opera di divulgazione, il cui autore è morto nel 1936; è presente in varie edizioni e tradotta in varie lingue)

Don Harrán: Salamone Rossi, Jewish musician in late Renaissance Mantua, Oxford U. P., 1999

Paolo Fabbri: Monteverdi, E. D. T., 1985

Marc Vignal: Dizionario di musica classica italiana, Gremese, 2002

Discografia scelta

Le incisioni di Rossi sono state compiute quasi interamente da ensemble ebraiche per il repertorio sacro, con esiti altalenanti soprattutto per l’abitudine a riorchestrarle anche dove non necessario. Quanto alle composizioni strumentali Rossi è abbondantemente presente in molte antologie.

Salamone Rossi: The Songs of Solomon, Dorian Recordings, 2001

Salamone Rossi Hebreo: Baroque Music for the Synagogue and the Royal Court, Boston Early Music Ensemble, Hazamir, 1998 (comprende pezzi sacri, profani e strumentali)

Ascolti

Proponiamo un esempio della musica del Rossi: l’ammonizione Barechu, prima in veste “normale” e poi “storica”. La veste “normale” è in buona sostanza la mera lettura della partitura conservataci, alla solita velocità delle esecuzioni odierne (metronomo a 120) ed al nostro diapason (440 Hz).

Salamone Rossi – Barechu (veste normale)

La veste “storica” è stata da me sistemata per dare un’idea molto approssimativa dell’effettiva esecuzione coeva: appoggiature dissonanti, abbellimenti, velocità leggermente inferiore (100 invece che 120), e diapason a 415 Hz. Certamente quest’ultima scelta è discutibile: da varie fonti desumiamo per il Nord Italia un diapason genericamente definito come più alto rispetto alla norma romana; da qui però a postulare un La a 460 o 466 com’è proposto da taluni studiosi ne passa. Al più si potrebbe accettare il nostro 440 rispetto ad un romano a 415, ma non è questa la sede di simili dibattimenti, che rimandiamo ad altro luogo. Si accetti per dato di fatto che il diapason a 415 è oggettivamente adatto a queste composizioni, la cui esecuzione diviene oggettivamente assai più credibile. In ultimo la veste “storica” ripete due volte l’ultimo versetto, com’è ancor oggi previsto dalla liturgia ebraica.

Salamone Rossi – Barechu (veste storica)

http://www.dietrolequinteonline.it/musica/il-carneade-musicale-salamone-rossi-detto-lhebreo



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