Machiavelli, La golpe et il lione

MACHIAVELLI (Liberamente tratto da Luperini “La scrittura e l’interpretazione” vol. 2° ed. Palumbo e Barberi Squarotti “Letteratura_Progetto modulare”  vol. 2°. Ed. Atlas)

Il trattato politico e la nascita della moderna saggistica: lo scandalo del Principe e Machiavelli come moderno “maestro del sospetto

Con Il Principe di Machiavelli il genere del trattato abbandona le forme della dissertazione filosofica e scientifica fondata su un preesistente “sistema” organico di pensiero e adotta le forme del saggio, in cui l’autore sostiene e dimostra una sua verità individuale, assumendone consapevolmente la responsabilità. Nel caso di Machiavelli, tale verità è basata sulla conoscenza delle leggi della natura e della storia, fornite dall’esperienza diretta e dalle letture dei classici, e trae da tali elementi, e solo da essi, la propria legittimità. Entra in crisi l’autorità sancita tanto dalla religione quanto dai precetti di una moralità laica precostituita. Il primo tipo di autorità era quello della trattatistica politica medievale (per esempio il De Monarchia di e Dante); il secondo era quello della trattatistica quattrocentesca volta a delineare lo  speculum principis [specchio del principe] elencando la serie di virtù morali, seppure laiche, di cui il principe doveva essere espressione. Lo scandalo del Principe  sta nella assoluta spregiudicatezza del suo autore, che fonda l’autorità del proprio  testo solo sulla forza del proprio pensiero.

Un secondo scandalo è questo: la morale del principe dipende dal successo della sua azione politica e dunque viene fatta coincidere con la sorte stessa dello Stato. La politica diventa autonoma dalla religione e dalla morale. Nasce da qui il termine negativo di “machiavellismo1, in uso in tutto il mondo, a indicare il ricorso agli strumenti e ai “mezzi” più spregiudicati pur di raggiungere il “fine” del successo politico. (In realtà, come vedremo, il pensiero di Machiavelli non è affatto riducibile a tale deteriore “machiavellismo”). E tuttavia questa espressione prova tutt’oggi l’impatto dirompente delle teorie dell’autore.

Oggi, come un tempo, colpisce la forza personale della scrittura, che regge e legittima da sola l’assunto dell’opera; e oggi, come un tempo, affascina e inquieta il suo carattere risolutamente anticonformistico e demistificatorio. Proprio questo aspetto induce oggi a vedere Machiavelli in una luce parzialmente diversa rispetto al passato. Nel corso del Novecento ha prevalso a lungo l’idea, elaborata in modi autonomi e distinti all’inizio del secolo da Benedetto Croce e dal sociologo tedesco Max Weber, che Machiavelli vada considerato il teorico oggettivo e scientifico della politica come arte “separata” e autonoma. Oggi tende ad affermarsi un’interpretazione più articolata e complessa: piuttosto che essere un neutrale descrittore dei meccanismi della politica, o un puro “scienziato” specialista della politica, Machiavelli ci appare capace di riconsiderare globalmente il comportamento umano, di sottoporlo a una sua propria personale interpretazione e di fondare poi su di essa una teoria politica inseparabile dall’idea di umanità che ne è il presupposto. Inoltre in Machiavelli il realismo spietato dell’analisi e la serrata logica del discorso convivono con uno stile immaginativo, con la forza impulsiva delle passioni e con una prospettiva decisamente utopica delle soluzioni prospettate. Anche questa straordinaria e contraddittoria fusione di realismo e utopia pertiene strettamente alla scrittura saggistica. Insomma oggi si tende a vedere in Machiavelli non solo o non tanto uno “scienziato” della politica, quanto, piuttosto, il primo saggista – con la carica di passione “soggettiva” e di parzialità che questa parola comporta – e il primo pensatore della modernità.

A tali considerazioni induce anche la carica demistificatoria e provocatoria della scrittura machiavelliana1. Machiavelli invita a cercare sotto le motivazioni ufficiali e le ideologie dichiarate i veri moventi della storia, quelli materiali. Nasce con lui il pensiero del sospetto, che “guarda sotto” le apparenze rovesciando coraggiosamente le convenzioni sociali e culturali. E’ questo un altro aspetto della modernità di Machiavelli: egli apre una strada che sarà ripresa, fra 800 ed inizio del ‘900, dai “critici dell’ideologia” e dai cosiddetti “maestri del sospetto”, vale a dire da filosofi e pensatori come Marx, Nietzsche, Freud.

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1 Machiavellismo, machiavellico e machiavelliano

Le teorie etiche e politiche di M. ebbero un rapida diffusione in Europa e suscitarono grandi discussioni e polemiche: molto spesso, soprattutto in Francia ed in Inghilterra, esse furono ridotte ad un comportamento politico sostanzialmente ispirato al cinismo e all’assenza di scrupoli. La teoria espressa nel Principe, secondo cui un governante può prescindere da qualsiasi considerazione morale e servirsi di qualunque mezzo per perseguire il proprio fine, è stata letta non come una constatazione della realtà effettuale della politica, ma come un precetto dell’arte di governare. La formula “il fine giustifica i mezzi”, che comunque non compare mai in questi termini nell’opera di M., si è diffusa come un sinonimo di utilitarismo e di opportunismo, riducendo la portata di un pensiero ben più complesso. In Francia ed in Inghilterra sono nati, e si sono poi diffusi, gli aggettivi derivati dal nome di Machiavelli che ancora oggi usiamo: “machiavellismo”, dal francese “machiavélisme” (1611), “machiavellico”, dal francese “machiavéllique” (1578); e “machiavelliano”, dall’inglese “machiavellian”, (1568).

Questi aggettivi, se da un lato banalizzano e riducono il pensiero di Machiavelli, dall’altro ne evidenziano la portata rivelando la potenza con cui ha inciso anche su culture e tradizioni diverse dalla nostra.

Con : “machiavellismo” si intende la prassi etico-politica ispirata alle teorie esposte nel Principe, ma anche un subdolo e spietato utilitarismo; l’aggettivo “machiavellico” indica propriamente “ciò che si ispira ai principi di amoralità, cinismo e doppiezza tradizionalmente attribuiti al pensiero di Machiavelli” ed è sinonimo di “intrigante, astuto e spregiudicato”; l’aggettivo “machiavelliano”, si riferisce invece in modo neutro, ovvero senza sfumature negative, a ciò che è proprio di Machiavelli e delle sue opere (per esempio “lo stile machiavelliano”)

Critica dell’ideologia e pensiero del sospetto

Karl Marx (1818-1863), Friedrich Nietzsche (1844-1900) e Sigmund Freud (1856- 1939) sono pensatori molto diversi fra loro, ma hanno in comune il “sospetto” nei confronti delle spiegazioni ideologiche e morali che gli uomini danno del loro comportamento. Per esempio per Marx l’ideologia è l’insieme di idee con cui la classe dominante giustifica idealmente il proprio potere, presentandolo come la forma migliore e più giusta di assetto politico, quando in realtà esso esprime solo le sue esigenze di dominio e dunque ha ragioni solo economiche e sociali. Nietzsche chiama “interpretazioni” questa stessa esigenza a capovolgere le motivazioni reali mascherandole alla luce di valori morali. Per Freud l’uomo ricorre a “razionalizzazioni”, a spiegazioni razionali e morali, per giustificare intellettualmente il proprio comportamento, che spesso invece è dovuto solo a motivi nevrotici tutt’altro che razionali o a pulsioni inconsce di affermazione individuale.

Per tutti e tre questi pensatori l’attività intellettuale è anzitutto un’attività critica, che si esercita nello smascheramento e nella rivelazione delle cause profonde nascoste. Tutti e tre diffidano delle apparenze e “guardano con sospetto” alle dichiarazioni ideali con cui i singoli uomini o le classi sociali presentano le proprie scelte. Ebbene, Machiavelli, con il suo materialismo, anticipa questa prassi critica di svelamento delle motivazioni ideologiche e ideali e di riduzione dell’agire umano a fattori storici e naturali concreti.

Un manifesto politico: Il Principe

Aspetti principali del trattato

I. L’analisi storica rivela a Machiavelli la profondità della crisi italiana. Occorre che a essa ponga rimedio un principe che con la sua “virtù” riesca a creare uno Stato nuovo ponendo fine alla inettitudine dei gruppi dirigenti e sconfiggendo le avversità della “fortuna”. Da questo punto di vista, Il Principe è una sorta di manifesto politico che propone un programma d’azione per l’immediato futuro.

2. Per realizzare il programma sopra esposto occorre «andare drieto (dietro) alla verità effettuale delle cose» e non alla «immaginazione di essa». E’ questo il realismo di Machiavelli che si propone di guardare in faccia la realtà, nella sua spiacevole durezza, e di demistificare ogni sua interpretazione idealistica.

3. Lo studio della realtà mostra che la “fortuna“, cioè la mutevolezza del caso e della storia, determina in larga misura le vicende umane. L’uomo può opporle solo la sua “virtù“, cioè il suo ingegno, la sua prudenza, la sua audacia. In certe situazioni occorrerà un atteggiamento “impetuoso“, in altre uno “rispettivo” (cioè cauto); purtroppo l’uomo è dotato di un carattere immodificabile e dunque difficilmente può adattarlo alle circostanze adeguandosi alle varie esigenze imposte dal mutare della sorte e dagli imprevisti della storia. Ma poiché «la fortuna è donna», essa preferisce i giovani e gli impetuosi rispetto agli anziani e ai “respettivi”.

4. Il principe «savio» non può farsi condizionare da preconcetti morali: la sua moralità consisterà nel cercare il bene dello Stato. Viene dunque fondata l’autonomia della politica dalla morale comune. Poiché il principe deve obbedire solo alla “ragion di stato“, può usare a tal fine anche strumenti moralmente riprovevoli. Ciò non significa che Machiavelli sia cinico e senza morale. Il male è sempre visto come male, senza compromessi e ipocrisie. Nel gusto acre e dispettoso con cui Machiavelli denuncia le ipocrisie e le mezze misure, sta appunto la sua moralità. E’ bene che sia «pietoso» ma se necessario anche «crudele»; deve saper «usare la bestia e l’uomo», la ferinità e l’intelligenza; deve essere capace di usare sia l’inganno o l’astuzia (essere come una «golpe», cioè una volpe), sia la forza (essere come un «lione», cioè un leone).

5. Il trattato si conclude con un’esortazione ai Medici perché pongano fine alla situazione di crisi dell’Italia e la liberino dagli stranieri. L’esortazione, che rivela il progetto politico del trattato e insieme la sua prospettiva fortemente utopica, è scritta in uno stile vibrante e appassionato: al posto del ragionamento si fa appello alla forza persuasiva dei sentimenti.

6. Lo stile rivela la forte tensione saggistica della scrittura machiavelliana ove si alternano linguaggio “alto” e “basso” (con un ricorso a latinismi ma soprattutto al parlato e al fiorentino allora in uso), rigore argomentativo (procedente per violente disgiunzioni e per netti dilemmi fra i quali il lettore è chiamato a scegliere risolutamente) e intensità appassionata, procedimenti del ragionamento scientifico e uso frequente di immagini e di figure. Ciò corrisponde ai temi e al tono complessivo del trattato in cui il realismo dell’analisi e la prospettiva dell’utopia sono egualmente presenti.

Il contenuto dell’opera

La famosa lettera di Machiavelli a Vettori del 10 dicembre 1513 permette di comprendere una delle due fondamentali fonti di ispirazione del Principe: gli insegnamenti provenienti dalla lettura dei classici. L’altra, come viene chiarito nell’opera, è l’esperienza della verità effettuale, ovvero delle cose così come sono e non come desidereremmo che fossero. Il libro appartiene al genere del trattato, un tipo di opera, cioè, che tratta in modo sistematico argomenti di carattere storico, artistico, letterario, scientifico; ognuno dei ventisei capitoli ha un titolo latino che indica l’argomento affrontato. L’analisi della realtà viene svolta sulla base di un inconfondibile modo di procedere per dilemmi, ovvero per alternative che si escludono reciprocamente, che i critici hanno definito schema dilemmatico.

Lo sviluppo dei capitoli non segue rigorosamente lo schema trattatistico e dilemmatico enunciato nel l’introduzione, giacché l’autore non intende in realtà scrivere un trattato teorico, ma mira a mettere a fuoco il problema fondamentale illustrato nell’Esortazione conclusiva: egli si propone, cioè, di indicare le vie per un’azione politica vincente.

Dopo aver dichiarato l’intenzione di tralasciare il discorso sulle Repubbliche, poiché già affrontato in altra opera (l’autore pensa, certamente, ai Discorsi), Machiavelli analizza la costituzione dei principati, accenna sinteticamente a quelli ereditari e, nei capitoli dal III al V, esamina i principati misti (in parte ereditari, in parte nuovi), nonché, con esempi tratti dalla storia contemporanea o antica, i problemi che si pongono nell’acquisizione e nel governo di principati o città annesse.

Nei capitoli dal VI all’XI, l’autore tratta del governo dei principati nuovi, distinguendo i casi in cui essi sono acquistati con l’arme proprie e virtuosamente da quelli in cui essi s’acquistano colle armi e fortuna di altri: riferendosi a grandi figure storiche e perfino mitologiche come Teseo, Machiavelli esalta coloro che hanno costruito Stati con la propria virtù e che perciò meno faticheranno a governare rispetto a coloro che hanno saputo cogliere l’occasione diventando per fortuna  ..  principi, o hanno contato sugli eserciti altrui (essi, afferma, resteranno al potere solo con gran difficoltà). Nel capitolo VII, ampio spazio è dedicato alla figura di Cesare Borgia (1475-1507), dei quale si dice che ha approfittato delle arme e fortune altrui (in primo luogo del padre, papa Alessandro VI) per creare nel volgere di brevi anni un principato, ma ha saputo poi conservarlo grazie alla propria virtù; se infine il suo Stato è andato in rovina, ciò è dovuto ad una straordinaria ed estrema malignità di fortuna, che ha condotto a morte il padre e, dopo pochi anni, il giovane Valentino stesso. Lo scrittore conclude l’analisi, supportata da una ricca messe di dati storici e concreti, dell’opera della discussa figura del Valentino, ritenendo opportuno preporlo imitabile a tutti coloro che per fortuna e con l’armi d’altri sono ascesi allo imperio.

Nel capitolo successivo vengono condannati quelli che per scelleratezze sono giunti al principato: il giudizio negativo non dipende però da ragioni morali, ma di inopportunità politica delle ripetute azioni scellerate (esse si devono fare tutte insieme, acciò che, assaporandosi meno, offendino meno; vanno, viceversa, dilazionati i benefici). Nel capitolo X si loda il principato civile, acquisito con il favore popolare. I due successivi capitoli analizzano soprattutto le particolarità dei principati ecclesiastici.

Nei capitoli dal XII al XIV, l’autore prende in considerazione i problemi della difesa militare dello Stato (ritenuta di importanza determinante: egli ha precedentemente affermato che i profeti disarmati non hanno alcuna possibilità di successo). Dopo aver analizzato dettagliatamente i vari tipi di milizie, lo scrittore giunge alla conclusione che sanza avere arme proprie, nessun principato è sicuro e, sulla scorta di opportuni esempi, mira a mostrare che la sottovalutazione dei problemi militari e l’affidarsi ad armi straniere o mercenarie da parte dei Principi sono cause fondamentali della rovina dell’Italia.

Con il capitolo XV, Machiavelli inizia a prendere in considerazione il tema centrale dell’opera, che sviluppa fino al capitolo XXIII: le caratteristiche e il comportamento del Principe in grado di governare efficacemente il proprio principato, di ampliare i propri domini e di difendere dalle invasioni la patria; lo scrittore precisa che, nel trattare l’argomento, gli pare meglio seguire la verità effettuale della cosa anziché l’immaginazíone di essa, perché è tanto diverso come si vive da come si doverebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare impara come andare in rovina e non come salvarsi: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono finisce in rovina fra tanti che non sono buoni. Il Principe deve, dunque, imparare a essere non buono, quando è necessario per vincere e mantenere lo stato; se riuscirà nell’intento, e’mezzi saranno sempre  ..  laudati.

Dalle premesse sulla natura umana che, come il centauro, in sé racchiude una parte bestiale, discendono le regole sul l’atteggiamento che deve tenere il Principe, mirando a fuggire principalmente quelli vizii che li torrebbano lo stato (“i vizi che gli farebbero perdere lo Stato”).

Conviene perciò al Principe amministrare con parsimonia più che essere liberale, essere temuto più che essere amato e gli è lecito non tenere fede alla parola data: sempre se tale comportamento è adeguato alla realtà effettuale. Il Principe deve essere temuto, ma non farsi inutilmente odiare: deve perciò, ad esempio, astenersi dall’appropriarsi della roba d’altri, perché li uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio; non si deve però preoccupare di avere fama di crudele, perché senza questo nome non si tenne mai esercito unito. In ultima analisi, il Principe deve, a seconda delle circostanze, saper usare bene la bestia e l’uomo che sono presenti in lui, come in ogni essere umano: quando dovrà usare la bestia, talora dovrà essere astuto e prudente come la golpe (volpe) talora forte come il lione.

In seguito, l’autore esamina più in dettaglio il comportamento che il Principe deve avere nei confronti di nemici e amici, sudditi e consiglieri, come egli possa conquistare la stima e perché debba fuggire gli adulatori.

Il capitolo XXIV analizza, con dovizia di esempi, i motivi per cui li Princípi d’Italia hanno perso li Stati loro, attribuendoli soprattutto all’incapacità di organizzare l’esercito e di assicurarsi il favore del popolo o dei grandi: in sostanza, ad errori dovuti ad ignavia e mancanza di virtù.

Fondamentale è il XXV e penultimo capitolo nel quale, riprendendo un problema filosofico caro a tutta la cultura umanistico-rinascimentale, Machiavelli analizza, con riferimento all’opera dei Principe, il conflitto fra vírtù e fortuna. Egli ritiene potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi, e sviluppa la propria tesi con un celebre paragone: la sorte è come quei fiumi che, quando s’adirano, travolgono ogni cosa; se però a tempo opportuno gli uomini costruiscono ripari ed argini, l’impeto loro non sarebbe  ..  sì dannoso. La fortuna, analogamente, dimostra la sua potentia dove non esiste virtù che le resista, e infuria dove la sa che non sono fatti li argini e li ripari a tenerla. il paragone viene subito dopo riferito all’Italia, che è come una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo, a differenza delle nazioni europee.

La fortuna, aggiunge Machiavelli, determina talora il successo e la rovina di un Principe, senza che egli abbia cambiato atteggiamento: ciò dipende dal fatto che l’uomo fatica a modificare la propria natura per adeguare comportamento e azione al cambiamento delle circostanze. Come l’autore illustra con esempi storici, chi è prudente va in rovina se le circostanze richiedono un’azione impetuosa, e viceversa: se si mutassi di natura con li tempi e con le cose, non si muterebbe fortuna (“se si sapesse cambiare natura secondo i tempi e le circostanze, la sorte non cambierebbe). Estendendo la propria riflessione sui Principi a tutti gli uomini, lo scrittore chiude questo capitolo di respiro filosofico affermando che variando la fortuna, e stando li uomini ne’ loro modi ostinati, sono felici quando la loro azione coincide con ciò che la fortuna chiede; quando discordano con ciò che la realtà esige, falliscono. In generale, afferma però Machiavelli, è meglio essere impetuoso che respettivo (“prudente’), perchè la fortuna è donna  ..  ed è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla.

li capitolo XXVI consiste in un’importantissima Esortazione conclusiva rivolta a un principe nuovo della casata dei Medici, signori di Firenze e favoriti da Dio e dalla Chiesa, affinché si faccia carico delle sorti dell’Italia e la liberi dal barbaro dominio, ottenendo così l’ossequio di ogni Italiano.

La condizione dell’Italia è ritenuta così disperata da favorire l’azione di un redentore, di un Principe prudente e virtuoso. Con alcuni commossi versi di Petrarca, il rigoroso “scienziato della politica” Niccolò Machiavelli conclude infine il capitolo e il trattato.

Caratteristiche e importanza del capolavoro di Machiavelli

La fondamentale novità del Principe consiste nell’intendere la politica come una scienza, autonoma da ogni concezione morale o religiosa, fondandola invece sull’analisi della verità effettuale, studiata, secondo lo spirito umanistico, alla luce dell’esperienza derivante dalla lettura dei classici. In ciò si manifesta una radicale rottura con le opere politiche del Medioevo che, come il De Monarchia di Dante, fanno invece discendere le proprie tesi dalle concezioni teologiche e dalle Sacre Scritture. Controverse sono le caratteristiche della personale fede cristiana di Machiavelli: è comunque indiscutibile che le eventuali credenze religiose dell’autore non influenzano minimamente le sue analisi, neppure quando egli tratta del ruolo politico della Chiesa.

Il trattato è innovativo anche rispetto ad opere umanistiche come il De vero principe (“Il vero principe”) del romano Platina (1421-1481), astratto repertorio di qualità del buon governante, che tengono conto solo di come dovrebbe essere un ideale monarca, ignorando la verità effettuale, ovvero il concreto contesto politico della sua azione.

Machiavelli considera l’uomo come un fenomeno naturale e va alla ricerca delle autonome leggi della politica; ne deriva che il comportamento di chi governa non viene giudicato in base a principi religiosi o di etica individuale, poiché il Principe, secondo lo scrittore, deve avere lo scopo di rafforzare il proprio potere per realizzare il fine dell’azione politica: il raggiungimento del bene comune che a suo avviso consiste (e in ciò si riscontra la traccia del materialismo edonistico epicureo di Lucrezio) nel soddisfacimento degli interessi materiali della collettività e, nella situazione italiana del tempo, nel consolidamento dello Stato e nella costruzione di una monarchia nazionale nella penisola, al fine di stornare la ruina (‘rovina”, “catastrofe”) delle invasioni straniere.

digilander.libero.it/leo.eli/classe%20III…/013_MACHIAVELLI.doc

N. Machiavelli, Il Principe, cap. XVIII

Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende: non di manco si vede per esperienza, ne’ nostri tempi, quelli príncipi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: et alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà.

Dovete adunque sapere come sono dua generazione [modi] di combattere: l’uno con le leggi, l’altro, con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamente [ricorrendo alla mitologia] dalli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille, e molti altri di quelli principi antichi, furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li costudissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile.

Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe et il lione; perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può per tanto uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanzia li torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, perché sono tristi e non la osservarebbano a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancarono cagioni legittime di colorire [simulare] la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni, e monstrare quanta pace, quante promesse sono state fatte irrite [prive di valore legale], e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare.

Io non voglio delli esempli freschi tacerne uno. Alessandro VI non fece mai altro, non pensò mai ad altro che ad ingannare uomini, e sempre trovò subietto da poterlo fare. E non fu mai uomo che avessi maggiore efficacia in asseverare, e con maggiori giuramenti affermarsi una cosa, che l’osservassi meno; non di meno, sempre li succederono li inganni ad votum [secondo il suo desiderio], perché conosceva bene questa parte del mondo.

A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le soprascritte qualità, ma è bene necessario parere di averle. Anzi, ardirò di dire questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile; come parere pietoso, fedele, umano, intero, relligioso, et essere; ma stare in modo edificato [predisposto] con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbi uno animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono, e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato.

Debbe adunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto relligione. E non è cosa piú necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità [la religione]. E li uomini in universali iudicano piú alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu se’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti, che abbino la maestà dello stato che li difenda: e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio da reclamare [un tribunale a cui presentare una protesta], si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra è inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, li arebbe piú volte tolto o la reputazione o lo stato.

N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi, Feltrinelli, Milano, 1960, pagg. 73-74

http://www.filosofico.net/antologia_file/antologiam/machiavelli_%20la%20golpe%20et%20il%20lion.htm

Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma

http://www.controappuntoblog.org/2012/07/17/io-dico-che-coloro-che-dannono-i-tumulti-intra-i-nobili-e-la-plebe-mi-pare-che-biasimino-quelle-cose-che-furono-prima-causa-del-tenere-libera-roma/

LA FRODE

http://www.controappuntoblog.org/2012/08/25/la-frode/

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