Il treno in Pirandello e CECHOV

Il treno in due novelle e nel romanzo
Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello

I passeggeri arrivati da Roma col treno notturno alla stazione di Fabriano dovettero aspettar l’alba per proseguire in un lento trenino sgangherato il loro viaggio su per le Marche.
All’alba, in una lercia vettura di seconda classe, nella quale avevano già preso posto cinque viaggiatori, fu portata quasi di peso una signora così abbandonata nel cordoglio che non si reggeva più in piedi.
Lo squallor crudo della prima luce, nell’angustia opprimente di quella sudicia vettura intanfata di fumo, fece apparire come un incubo ai cinque viaggiatori che avevano passato insonne la notte, tutto quel viluppo di panni, goffo e pietoso, issato con sbuffi e gemiti su dalla banchina e poi su dal montatojo.
Gli sbuffi e i gemiti che accompagnavano e quasi sostenevano, da dietro, a stento, erano del marito, che alla fine spuntò, gracile e sparuto, pallido come un morto, ma con gli occhietti vivi vivi, aguzzi nel pallore.

Così si apre la novella di Luigi Pirandello Quando si comprende, interamente ambientata su di un treno, in uno scompartimento di seconda classe (quella usata dalla media borghesia). In essa è narrato il dialogo tra una coppia, in viaggio per salutare il figlio chiamato al fronte, e gli altri viaggiatori dello scompartimento. La signora, prostrata dal dolore per la quasi certa perdita dell’unico figlio, tace, esprimendosi con gesti scoordinati, mentre il marito cerca di spiegare agli altri passeggeri le ragioni del suo stato. I compagni di viaggio reagiscono freddamente, in particolare un «viaggiatore grasso e sanguigno», che si produce in un lungo discorso sull’ardore della giovinezza, sulla necessità di non piangere i propri figli, nati per la patria, non per i genitori. Suo figlio, afferma, «m’ha mandato a dire […] che è morto contento, e che non stessi a vestirmi di nero, come difatti lor signori vedono che non mi sono vestito». La signora, stordita e sbalordita, gli domanda semplicemente, quasi non avesse inteso: «Ma dunque.. dunque suo figlio è morto?». A questa domanda il viaggiatore comprende l’amara realtà, che il figlio era veramente morto, che per lui non sarebbe più esistito, e scoppia infine in «acuti, strazianti, irrefrenabili singhiozzi».
Sin dalle prima riga l’ambientazione ferroviaria determina l’atmosfera in cui prende avvio la narrazione: una lenta attesa notturna, tra un treno e l’altro, con un senso di sporcizia, di abbandono, di “alienazione” accentuata, che fa da proemio ad una conversazione dolorosissima, straziante, che solo tra estranei, compagni occasionali di viaggio, può aver luogo. Il treno non ha qui, tuttavia, la sola funzione di sfondo della vicenda. Esso è anche un simbolo, una metafora del viaggio ideale, del tormentato itinerario interiore del viaggiatore grasso: il treno trasporta gli uomini da un luogo all’altro, come la domanda repentina della signora conduce l’uomo in una nuova, tragica dimensione di consapevolezza. È un tema qui solo accennato, che Pirandello sviluppa in modo assai più complesso in un’altra delle Novelle per un anno, intitolata Il treno ha fischiato.

L’impiegato Belluca, costretto ad una vita insignificante, arida, «impossibile» dedito solo al proprio lavoro monotono, “impazzisce”, e impazzendo, alienandosi dall’ambiente oppressivo dell’ufficio, riscopre la vita, pagando però il prezzo di non poter più rientrare nella quotidianità. Ciò che nella sua mente determina la “follia” è il fischio di un treno, sentito una sera, lontano. In quel preciso istante avviene il cambiamento:

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvviso gli si fossero sturati.
Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.
S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.
C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava… Firenze, Bologna, Torino, Venezia…

Il treno, in questa novella, perde totalmente la sua dimensione “fisica” per assumerne una prettamente simbolica. Esso è, ancor più che per il viaggiatore grasso in Quando si comprende, il mezzo di passaggio tra due distinte dimensioni esistenziali; apre al Belluca la prospettiva di un’esistenza mai vissuta che superi i confini angusti dell’ufficio, della casa e delle convenzioni piccolo-borghesi, per permettergli di giungere, sia pure solo in sogno, in mondi lontanissimi:

«E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia… oppure oppure… nelle foreste del Congo… Si fa in un attimo, signor Cavaliere!»

Il treno come luogo ove hanno luogo i cambiamenti decisivi dell’esistenza umana è presente anche nel romanzo Il fu Mattia Pascal, il cui capitolo VII si intitola Cambio treno. Il protagonista, dopo la serie di vincite al gioco, sale sul treno che da Nizza lo deve ricondurre a Miragno. Durante la corsa pensa alla propria vita futura, al rientro nell’odiosa quotidianità della vita familiare. Giunto alla prima stazione italiana, Mattia acquista il giornale sul quale, una volta risalito in carrozza, legge la notizia del proprio suicidio. Alla stazione successiva (Alegna) balza giù dal treno, comprendendo in quell’istante «la liberazione, la libertà di una vita nuova»; indi, alle grida della gente che lo invita a risalire sul treno prima che riparta, Mattia risponde:

«Ma lo lasci, ma lo lasci ripartire, caro signore!» […] «Cambio treno!»

Ricorre anche qui, dunque, l’ambientazione ferroviaria come sfondo e simbolo degli eventi che determinano le vicende degli uomini. Quel grido gioioso alla stazione è per Mattia un atto liberatorio, carico di significati che vanno oltre quello letterale: il cambio di treno, intervallato dal soggiorno ad Alegna, è in fondo il passaggio da una vita all’altra, il momento in cui Mattia Pascal cessa totalmente di esistere. Nel capitolo successivo, è ancora in uno scompartimento ferroviario, questa volta sul treno per Torino, che si verifica un altro fatto-chiave della vicenda: la scelta del nuovo nome, ispirata da un singolare dialogo tra due viaggiatori. La trasformazione ha il suo compimento definitivo pochi minuti dopo, quando il protagnista, che ormai si chiama Adriano Meis, getta nel gabinetto di una stazione la propria fede nuziale, ultimo, tenue, eppure pesantissimo anello (il valore simbolico dell’oggetto è chiarissimo) della catena che lo lega a Romilda, alla suocera, al paese.
Nel romanzo ricompare tuttavia anche un certo moto di avversione verso la modernità simboleggiata dal trasporto su rotaia: un atteggiamento simile era già presente, sia pure velato, mascherato da artificio narrativo, nei primi capoversi di Quando si comprende. Ne Il fu Mattia Pascal esso ricompare prepotentemente nel cap. IX:

«Oh perché gli uomini,» domandavo a me stesso, smaniosamente, «si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perche tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d’arricchire l’umanità (e la impoverisce, perche costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?»
In un tram elettrico, il giorno avanti, m’ero imbattuto in un pover’uomo, di quelli che non possono fare a meno di comunicare a gli altri tutto ciò che passa loro per la mente. «Che bella invenzione!» mi aveva detto. «Con due soldini, in pochi minuti, mi giro mezza Milano.»
Vedeva soltanto i due soldini della corsa, quel pover’uomo, e non pensava che il suo stipendiuccio se n’andava tutto quanto e non gli bastava per vivere intronato di quella vita fragorosa, col tram elettrico, con la luce elettrica, ecc., ecc.
Eppure la scienza, pensavo, ha l’illusione di render più facile e più comoda l’esistenza! Ma, anche ammettendo che la renda veramente più facile, con tutte le sue macchine così difficili e complicate, domando io: «E qual peggior servizio a chi sia condannato a una briga vana, che rendergliela facile e quasi meccanica?»

Il tram elettrico, in un’epoca in cui assai pochi avevano visto locomotive che non sbuffassero, appariva davvero una novità sensazionale, a differenza del treno che era già un elemento ormai profondamente radicato nell’immaginario collettivo, per di più con una forte connotazione positiva. Così è proprio il tram l’oggetto che più schiettamente assurge a simbolo della modernità con le sue complicazioni, principalmente quelle burocratiche (documenti, banche, ecc.), alle quali Adriano Meis alla fine soccombe. Curiosamente, è proprio su un dettaglio burocratico legato al trasporto su rotaia che la fantasia pirandelliana compie uno svarione: come può Mattia Pascal/Adriano Meis, privo di vita legale e quindi di documenti, spingersi agevolmente oltre le frontiere d’Italia, in tempi in cui l’unione doganale europea non era neppure un miraggio?

http://spazioinwind.libero.it/stradeferrate/dati/pirandello.ht

Una giornata

Edizione di riferimento

Luigi Pirandello Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, Premessa di Giovanni Macchia, I Meridiani vol. III, Arnoldo Mondadori editore, Milano1990

211  –  Una giornata

Strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una stazione di passaggio. Di notte; senza nulla con me.

Non riesco a riavermi dallo sbalordimento. Ma ciò che più mi impressiona è che non mi trovo addosso alcun segno della violenza patita; non solo, ma che non ne ho neppure un’immagine, neppur l’ombra confusa d’un ricordo.

Mi trovo a terra, solo, nella tenebra d’una stazione deserta; e non so a chi rivolgermi per sapere che m’è accaduto, dove sono.

Ho solo intravisto un lanternino cieco, accorso per richiudere lo sportello del treno da cui sono stato espulso. Il treno è subito ripartito. È subito scomparso nell’interno della stazione quel lanternino, col riverbero vagellante del suo lume vano. Nello stordimento, non m’è nemmeno passato per il capo di corrergli dietro per domandare spiegazioni e far reclamo.

Ma reclamo di che?

Con infinito sgomento m’accorgo di non aver più idea d’essermi messo in viaggio su un treno. Non ricordo più affatto di dove sia partito, dove diretto; e se veramente, partendo, avessi con me qualche cosa. Mi pare nulla.

Nel vuoto di questa orribile incertezza, subitamente mi prende il terrore di quello spettrale lanternino cieco che s’è subito ritirato, senza fare alcun caso della mia espulsione dal treno. È dunque forse la cosa più normale che a questa stazione si scenda così?

Nel bujo, non riesco a discernerne il nome. La città mi è però certamente ignota. Sotto i primi squallidi barlumi dell’alba, sembra deserta. Nella vasta piazza livida davanti alla stazione c’è un fanale ancora acceso. Mi ci appresso; mi fermo e, non osando alzar gli occhi, atterrito come sono dall’eco che hanno fatto i miei passi nel silenzio, mi guardo le mani, me le osservo per un verso e per l’altro, le chiudo, le riapro, mi tasto con esse, mi cerco addosso, anche per sentire come son fatto, perché non posso più esser certo nemmeno di questo: ch’io realmente esista e che tutto questo sia vero.

Poco dopo, inoltrandomi fin nel centro della città, vedo che a ogni passo mi farebbero restare dallo stupore, se uno stupore più forte non mi vincesse nel vedere che tutti gli altri, pur simili a me, ci si muovono in mezzo senza punto badarci, come se per loro siano le cose più naturali e più solite. Mi sento come trascinare, ma anche qui senz’avvertire che mi si faccia violenza. Solo che io, dentro di me, ignaro di tutto, sono quasi da ogni parte ritenuto. Ma considero che, se non so neppur come, né di dove, né perché ci sia venuto, debbo aver torto io certamente e ragione tutti gli altri che, non solo pare lo sappiano, ma sappiano anche tutto quello che fanno sicuri di non sbagliare, senza la minima incertezza, così naturalmente persuasi a fare come fanno, che m’attirerei certo la maraviglia, la riprensione, fors’anche l’indignazione se, o per il loro aspetto o per qualche loro atto o espressione, mi mettessi a ridere o mi mostrassi stupito. Nel desiderio acutissimo di scoprire qualche cosa, senza farmene accorgere, debbo di continuo cancellarmi dagli occhi quella certa permalosità che di sfuggita tante volte nei loro occhi hanno i cani. Il torto è mio, il torto è mio, se non capisco nulla, se non riesco ancora a raccapezzarmi. Bisogna che mi sforzi a far le viste d’esserne anch’io persuaso e che m’ingegni di far come gli altri, per quanto mi manchi ogni criterio e ogni pratica nozione, anche di quelle cose che pajono più comuni e più facili.

Non so da che parte rifarmi, che via prendere, che cosa mettermi a fare.

Possibile però ch’io sia già tanto cresciuto, rimanendo sempre come un bambino e senz’aver fatto mai nulla? Avrò forse lavorato in sogno, non so come. Ma lavorato ho certo; lavorato sempre, e molto, molto. Pare che tutti lo sappiano, del resto, perché tanti si voltano a guardarmi e più d’uno anche mi saluta, senza ch’io lo conosca. Resto dapprima perplesso, se veramente il saluto sia rivolto a me; mi guardo accanto; mi guardo dietro. Mi avranno salutato per sbaglio? Ma no, salutano proprio me. Combatto, imbarazzato, con una certa vanità che vorrebbe e pur non riesce a illudersi, e vado innanzi come sospeso, senza potermi liberare da uno strano impaccio per una cosa – lo riconosco – veramente meschina: non sono sicuro dell’abito che ho addosso; mi sembra strano che sia mio; e ora mi nasce il dubbio che salutino quest’abito e non me. E io intanto con me, oltre a questo, non ho più altro!

Torno a cercarmi addosso. Una sorpresa. Nascosta nella tasca in petto della giacca tasto come una bustina di cuojo. La cavo fuori, quasi certo che non appartenga a me ma a quest’abito non mio. È davvero una vecchia bustina di cuojo, gialla scolorita slavata, quasi caduta nell’acqua di un ruscello o d’un pozzo e ripescata. La apro, o, piuttosto, ne stacco la parte appiccicata, e vi guardo dentro. Tra poche carte ripiegate, illeggibili per le macchie che l’acqua v’ha fatte diluendo l’inchiostro, trovo una piccola immagine sacra, ingiallita, di quelle che nelle chiese si regalano ai bambini e, attaccata ad essa quasi dello stesso formato e anch’essa sbiadita, una fotografia. La spiccico, la osservo. Oh! È la fotografia di una bellissima giovine, in costume da bagno, quasi nuda, con tanto vento nei capelli e le braccia levate vivacemente nell’atto di salutare. Ammirandola, pur con una certa pena, non so, quasi lontana, sento che mi viene da essa l’impressione, se non proprio la certezza, che il saluto di queste braccia, così vivacemente levate nel vento, sia rivolto a me. Ma per quanto mi sforzi, non arrivo a riconoscerla. È mai possibile che una donna così bella mi sia potuta sparire dalla memoria, portata via da tutto quel vento che le scompiglia la testa? Certo, in questa bustina di cuojo caduta un tempo nell’acqua, quest’immagine, accanto all’immagine sacra, ha il posto che si dà a una fidanzata.

Torno a cercare nella bustina e, più sconcertato che con piacere, nel dubbio che non m’appartenga, trovo in un ripostiglio segreto un grosso biglietto di banca, chi sa da quanto tempo lì riposto e dimenticato, ripiegato in quattro, tutto logoro e qua e là bucherellato sul dorso delle ripiegature già lise.

Sprovvisto come sono di tutto, potrò darmi ajuto con esso? Non so con qual forza di convinzione, l’immagine ritratta in quella piccola fotografia m’assicura che il biglietto è mio. Ma c’è da fidarsi d’una testolina così scompigliata dal vento? Mezzogiorno è già passato; casco dal languore: bisogna che prenda qualcosa, ed entro in una trattoria.

Con maraviglia, anche qui mi vedo accolto come un ospite di riguardo, molto gradito. Mi si indica una tavola apparecchiata e si scosta una seggiola per invitarmi a prender posto. Ma io son trattenuto da uno scrupolo. Fo cenno al padrone e, tirandolo con me in disparte, gli mostro il grosso biglietto logorato. Stupito, lui lo mira; pietosamente per lo stato in cui è ridotto, lo esamina; poi mi dice che senza dubbio è di gran valore ma ormai da molto tempo fuori di corso. Però non tema: presentato alla banca da uno come me, sarà certo accettato e cambiato in altra più spicciola moneta corrente.

Così dicendo il padrone della trattoria esce con me fuori dell’uscio di strada e m’indica l’edificio della banca lì presso.

Ci vado, e tutti anche in quella banca si mostrano lieti di farmi questo favore. Quel mio biglietto – mi dicono – è uno dei pochissimi non rientrati ancora alla banca, la quale da qualche tempo a questa parte non dà più corso se non a biglietti di piccolissimo taglio. Me ne danno tanti e poi tanti, che ne resto imbarazzato e quasi oppresso. Ho con me solo quella naufraga bustina di cuojo.

Ma mi esortano a non confondermi. C’è rimedio a tutto. Posso lasciare quel mio danaro in deposito alla banca, in conto corrente. Fingo d’aver compreso; mi metto in tasca qualcuno di quei biglietti e un libretto che mi dànno in sostituzione di tutti gli altri che lascio, e ritorno alla trattoria. Non vi trovo cibi per il mio gusto; temo di non poterli digerire. Ma già si dev’esser sparsa la voce ch’io, se non proprio ricco, non sono certo più povero; e infatti, uscendo dalla trattoria, trovo una automobile che m’aspetta e un autista che si leva con una mano il berretto e apre con l’altra lo sportello per farmi entrare. Io non so dove mi porti. Ma com’ho un’automobile, si vede che, senza saperlo, avrò anche una casa. Ma sì, una bellissima casa, antica, dove certo tanti prima di me hanno abitato e tanti dopo di me abiteranno. Sono proprio miei tutti questi mobili? Mi ci sento estraneo, come un intruso. Come questa mattina all’alba la città, ora anche questa casa mi sembra deserta; ho di nuovo paura dell’eco che i miei passi faranno, movendomi in tanto silenzio. D’inverno, fa sera prestissimo; ho freddo e mi sento stanco. Mi faccio coraggio; mi muovo; apro a caso uno degli usci; resto stupito di trovar la camera illuminata, la camera da letto, e, sul letto, lei, quella giovine del ritratto, viva, ancora con le due braccia nude vivacemente levate, ma questa volta per invitarmi ad accorrere a lei e per accogliermi tra esse, festante.

È un sogno?

Certo, come in un sogno, lei su quel letto, dopo la notte, la mattina all’alba, non c’è più. Nessuna traccia di lei. E il letto, che fu così caldo nella notte, è ora, a toccarlo, gelato, come una tomba. E c’è in tutta la casa quell’odore che cova nei luoghi che hanno preso la polvere, dove la vita è appassita da tempo, e quel senso d’uggiosa stanchezza che per sostenersi ha bisogno di ben regolate e utili abitudini. Io ne ho avuto sempre orrore. Voglio fuggire. Non è possibile che questa sia la mia casa. Questo è un incubo. Certo ho sognato uno dei sogni più assurdi. Quasi per averne la prova, vado a guardarmi a uno specchio appeso alla parete dirimpetto, e subito ho l’impressione d’annegare, atterrito, in uno smarrimento senza fine. Da quale remota lontananza i miei occhi, quelli che mi par d’avere avuti da bambino, guardano ora, sbarrati dal terrore, senza potersene persuadere, questo viso di vecchio? Io, già vecchio? Così subito? E com’è possibile?

Sento picchiare all’uscio. Ho un sussulto. M’annunziano che sono arrivati i miei figli.

I miei figli?

Mi pare spaventoso che da me siano potuti nascere figli. Ma quando? Li avrò avuti jeri. Jeri ero ancora giovane. È giusto che ora, da vecchio, li conosca.

Entrano, reggendo per mano bambini, nati da loro. Subito accorrono a sorreggermi; amorosamente mi rimproverano d’essermi levato di letto; premurosamente mi mettono a sedere, perché l’affanno mi cessi. Io, l’affanno? Ma sì, loro lo sanno bene che non posso più stare in piedi e che sto molto molto male.

Seduto, li guardo, li ascolto; e mi sembra che mi stiano facendo in sogno uno scherzo.

Già finita la mia vita?

E mentre sto a osservarli, così tutti curvi attorno a me, maliziosamente, quasi non dovessi accorgermene, vedo spuntare nelle loro teste, proprio sotto i miei occhi, e crescere, crescere non pochi, non pochi capelli bianchi.

– Vedete, se non è uno scherzo? Già anche voi, i capelli bianchi.

E guardate, guardate quelli che or ora sono entrati da quell’uscio bambini: ecco, è bastato che si siano appressati alla mia poltrona: si son fatti grandi; e una, quella, è già una giovinetta che si vuol far largo per essere ammirata. Se il padre non la trattiene, mi si butta a sedere sulle ginocchia e mi cinge il collo con un braccio, posandomi sul petto la testina.

Mi vien l’impeto di balzare in piedi. Ma debbo riconoscere che veramente non posso più farlo. E con gli stessi occhi che avevano poc’anzi quei bambini, ora già così cresciuti, rimango a guardare finché posso, con tanta tanta compassione, ormai dietro a questi nuovi, i miei vecchi figliuoli.

http://www.classicitaliani.it/pirandel/novelle/15_211.htm

IL GRASSO E IL MAGRO    di A. CECHOV

A una stazione della linea ferroviaria di Nikolàev si incontrarono due amici: uno grasso e l’altro magro. Il
grasso aveva allora allora pranzato alla stazione e le sue labbra, unte di burro, erano lucide come ciliege mature. Sentiva di Xères e di fleur d’orange. Il magro era allora allora sceso dal vagone ed era carico di valigie, di fagotti e di scatole.
Sentiva di prosciutto e di fondi di caffè. Di dietro la sua schiena sbirciavano una donna magrolina con un lungo mento sua moglie e uno studente di ginnasio, alto, con un occhio socchiuso suo figlio.
«Porfirij!» esclamò il grasso, vedendo il magro. «Sei tu? Tesoro mio! Da quanti anni non ci vediamo!»
«Santi del Paradiso!» fece il magro pieno di meraviglia. «Miša! Il mio amico d’infanzia! Di dove sbuchi?»
Gli amici si abbracciarono tre volte e si scrutarono a vicenda negli occhi pieni di lacrime. Tutti e due erano
piacevolmente sbalorditi.
«Mio caro!» cominciò il magro dopo gli abbracci. «Non me l’aspettavo davvero! Questa sì che è una sorpresa!
Be’, guardami un po’ per benino! Sempre bello come prima! Sempre elegante e profumato! Ah, Dio mio! Ebbene, che
fai? Sei ricco? Ammogliato? Io ho già moglie, come vedi… Ecco, questa è mia moglie, Luisa, nata Vantsenbach…
luterana… E questo è mio figlio Nafanaìl, alunno della terza classe. Questo, Nafànja, é un amico d’infanzia! Al ginnasio
abbiamo studiato insieme!»
Nafanaìl rifletté un po’ e si levò il berretto.
«Abbiamo studiato insieme al ginnasio!» continuò il magro. «Ti ricordi come ti avevamo soprannominato? Ti
chiamavamo Erostrato perché avevi bruciato con la sigaretta il diario di scuola; quanto a me, mi chiamavano Efialte
perché mi piaceva far la spia. Oh, oh!… Eravamo bambini! Non aver paura, Nafànja! Fatti più vicina, Luisa… Questa è
mia moglie, nata Vantsenbach… luterana.»
Nafanaìl rifletté un po’ e si nascose dietro il padre.
«Be’, come te la passi, caro?» domandò il grasso, guardando estasiato l’amico. «Sei impiegato? Hai fatto
carriera?».
«Sono impiegato, mio caro! Già da due anni sono assessore collegiale e ho la croce di Santo Stanislao! Lo
stipendio è misero… be’, sia fatta la volontà di Dio! Mia moglie dà lezioni di musica, ed io nella mia vita privata
fabbrico dei portasigari di legno! Splendidi portasigari! Li vendo un rublo l’uno. Per chi ne compra dieci o più, tu lo
capisci, c’è uno sconto. Sbarchiamo il lunario. Sono stato impiegato, sai, al ministero, ma ora mi hanno trasferito qui
come capuflicio nella stessa amministrazione… Lavorerò qui. E tu come te la passi? M’immagino, sarai già consigliere
di Stato? Eh?»
«No, mio caro, va un po’ più in su» disse il grasso. «Sono già arrivato a consigliere segreto… Ho due stelle.»
Il magro a un tratto impallidì, restò di sasso, ma ben presto il suo viso si deformò da tutte le parti nel più ampio
dei sorrisi; dal viso e dagli occhi pareva che sprizzasse faville. Tutta la sua persona si contrasse, si piegò, si fece piccola
piccola… Le sue valigie, i suoi fagotti e le sue scatole si rimpicciolirono e si rattrappirono… Il lungo mento della moglie
diventò ancora più lungo; Nafanaìl si mise sull’attenti e si abbottonò tutti i bottoni della divisa…
«Io, Eccellenza… Sono felicissimo! Era, si può dire, un amico d’infanzia e ora a un tratto è diventato una
personalità. Ih, Ih!»
«Via, basta!» fece il grasso accigliandosi. «Perché questo tono? Noi siamo amici d’infanzia, perché questo
cerimoniale?»
«Scusate… Vi pare…» e il magro ridacchiò, facendosi ancor più piccolo. «La graziosa attenzione di vostra
Eccellenza… come un umore vivificante… Ecco, Eccellenza, questo e mio figlio Nafanaìl… mia moglie Luisa, luterana,
in un certo qual modo…»
Il grasso avrebbe voluto rispondere qualche cosa, ma sul viso del magro era dipinta tanta reverenza, tanta
dolcezza e tanta rispettosa acidità, che il consigliere segreto si sentì nauseato. Si staccò dal magro e gli porse la mano
per congedarsi.
Il magro strinse tre dita, si inchinò con tutto il corpo e riprese a ridacchiare come un cinese: «Ih, ih, ih!» Sua
moglie sorrise, Nafanaìl strisciò un piede per inchinarsi e lasciò cadere il berretto. Tutti e tre.erano piacevolmente
sbalorditi.

A. Cechov

http://balbruno.altervista.org/index-603.html

Questa voce è stata pubblicata in cultura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.