Seconda Guerra Mondiale: quanta fame!
Chi viveva in campagna, era un po’ più fortunato perché aveva di che vivere. Mentre in città esisteva la borsa nera dove quei pochi cibi che c’erano venivano acquistati a caro prezzo perché con la tessera annonaria si riceveva poco e niente.
casa, tenevano queste pagnotte nella sala fino a quando non finiva e poi facevano di nuovo un’altra infornata. Invece io che ero in città neanche quello. Noi, nelle città, niente. Non potevano venire i contadini a Torino a portare da mangiare a noi, e allora noi niente in città, proprio niente.
Quelli si son fatti i soldi, son diventati ricchi, invece noi quel po’ di soldi che avevamo, per poter tirare avanti, riuscivamo a malapena a comprarci qualcosa per aggiungere quel poco che avevamo già da mangiare per la tessera.
Tutte le volte che andavamo a comperare, tagliavano un pezzetto, un tagliandino. Come i bollini, quelli che danno adesso al supermercato. La tessera ce la dava il Comune, staccavano il bollino ad ogni prodotto che tu acquistavi, il negoziante tagliava il pezzetto, e non avevi più diritto a comprare dell’altro, ecco, per quel giorno, per il pane un bollino, per il latte l’altro bollino, ecc.Si facevano le code per aspettare eh, non è che uno andasse lì a prendere il latte e glielo davano subito, si facevan delle code di ore prima che arrivasse il bidone del latte, e poi ce ne davano un quartino a testa, mica tanto di più. Sì, perché il latte non veniva distribuito come adesso con latte sterilizzate. Nel mestolino con cui si versava il latte, poi si metteva un po’ d’acqua per risciacquarlo e per aggiungerne, eh si, non si sprecava niente, eh; tutto era necessario, perfino la carta e il cartone.
Era mensile la tessera.E se finivi la tessera stavi senza. Non mangiavi più. Non avevi diritto ad acquistare altro. Ecco perché si andava fuori a rifornirci di altre cose, eh già! perché con la tessera era talmente poco che non poteva soddisfare le nostre esigenze.
Quello che si poteva avere, si mangiava quello che si poteva trovare, Marco, la carne, almeno io parlo per mia esperienza non vorrei magari parlare per gli altri, la carne la si mangiava una volta la settimana, ed era già uno fortunato, se c’era la possibilità di farlo appunto, non si sprecava nulla e quando si andava dal macellaio si lesinava l’osso, l’osso della carne per avere la possibilità di fare un brodo
Il caffè, o qualcosa di simile.
Non essendoci molto pane, chi aveva la fortuna di avere la farina, faceva la polenta, la polenta, o qualcos’altro perché il pane, come vi ho detto prima, ce n’era una pagnottina a testa, la si mangiava nella giornata, perché il giorno dopo era immangiabile, era talmente duro che era come una pietra. Quindi chi aveva la fortuna mangiava la polenta e la polenta a volte la si mangiava anche con il caffelatte, pensate un po’; poi parlo di caffè però forse ho sbagliato dicendo caffè, il caffè! Era un surrogato di caffè, un insieme di semi che ti faceva un caffè.
Addirittura con le bucce delle arance si faceva il caffè, mia mamma prendeva il mandarino o l’arancio, lo sbucciava, poi metteva sulla stufa le bucce e le faceva abbrustolite, venivano come nere, poi c’era il macinacaffè, lo macinava, con il macinacaffè, non elettrico a mano, e poi veniva fuori come una polverina nera e quello mia mamma faceva il caffè.
Normalmente c’era un attrezzo che serviva per la tostatura dell’orzo, dei semi, si metteva dentro ‘sto recipiente sul fuoco, si girava e quello veniva tostato, si faceva poi il caffè con quello. Sì, diciamo che era il surrogato di tutto.
A proposito di cosa mangiavamo, io mi ricordo che mia mamma a quei tempi, era rimasta vedova e lavorava in fabbrica, per poter mangiare un pezzo di carne, cosa faceva, si faceva dare dai suoi parenti, che abitavano in campagna, una gallina piccola, un pulcino, e lo teneva in casa legato con una zampa ad una sedia, un pezzo di corda e lo ingrassava, gli dava gli avanzi. Alla fine quando arrivava poi Natale o Pasqua, e ammazzava quella gallina lì e si mangiava la carne, si mangiava tutto. Le budella le lavava bene e le faceva cuocere, si mangiavano anche quelle.”
“Quella volta che ho mangiato il sapone”
“Io voglio raccontare un episodio riguardo al dolce, a casa mia fame ce n’è stata tanta, tanta, tanta, perché mio padre era in guerra.
Ha visto che non mi son voluto avvicinare, ha preso la saponetta e me l’ha lanciata. Io l’ho presa, perché avevo tanta fame: la saponetta l’ho portata direttamente in bocca e quando ho visto che era saponetta, allora me la son messa in tasca perché ho detto “anche questa è buona!”
NO IO E SAPONETTE TROVAVO SEMPRE A CHI RIVENDERLE!
Quel signore americano, son cose che non si possono dimenticare, ha visto la scena, ha detto “quello lì avrà una fame proprio da morire!” ha preso una pagnotta di pane, quel pane di spagna diciamo dolce, come un dolce, intero e mi diceva sempre “si avvicini, venga qua che gliela do” però io non mi sono mai avvicinato perché ero molto spaventato.
Allora ha preso la pagnotta e ha fatto proprio così dalla finestra, me l’ha lanciata. Io quando ho visto quella pagnotta lì, sono ritornato a casa, me la son portata a casa, non è che l’ho toccata e quello è il dolce che ho assaggiato in quel periodo lì, che poi a casa mia non c’era né pane né niente.
Lo zucchero
Il signore diceva, noi avevamo, non so, la gallina, a casa mia no, perché mia madre quando riusciva ad avere un chilo di grano o un chilo di granoturco, un qualcosa, i mulini, non è che poteva portarlo al mulino perché aveva paura che se lo fregavano un po’, lo cucinava, metteva un po’ di zucchero, perché lo zucchero non mancava, lo zucchero da noi non mancava e ti davano lo zucchero quasi nero, rosso, rossastro era, io mi ricordo in tempo di guerra avevo dei pezzi di zucchero così in mano, pieno, come una pietra, e lo mangiavi, sì lo zucchero da noi non mancava e mia madre prendeva una pietra di quello zucchero lì lo schiacciava, lo faceva a farina e ne metteva un po’ di zucchero sul grano o granoturco e si mangiava quella roba lì. Ecco il dolce che avevamo noi! Però eravamo sporchi, non avevamo robe da vestirci, scarpe, nudi, un po’ di tutto, non mancava niente, pidocchi non ne parliamo, ce n’erano tanti, sì. Non c’è niente da nascondere!”
A ME MI RAPARONO A ZERO!
Un piatto per tutti
“A casa mia eravamo in dieci sempre a tavola, c’era un secchio d’acqua di metallo sul tavolo, un tavolo piccolo, più o meno come questo banco, e allora dovevamo metterci un po’ distanti, perché non c’era posto per tutti, un piatto di pasta al centro, che aveva cucinato mia madre: quello più furbo riusciva a prenderne qualche forchettata in più, quello che era più fesso rimaneva a digiuno.”
“Invece a casa mia, prima la mamma serviva il marito, le persone più grandi, tutte le persone più grandi prima, poi in base all’età dei figli faceva il piatto: più grande, più piccolo, più piccolo, ecco.”
IO ERO SOLA CON MAMMA CHE PAPA’ ERA IN GUERRA , MA MIO PAPA’ MAI SI SAREBBE SERVITO PER PRIMO!
“Avevate il piatto vostro?” “Sì, avevamo il piatto nostro, noi mangiavamo tutti nello stesso piatto.
Io mi ricordo, avevo già un’età in cui avevo una fame incredibile, allora cercavo di sedermi sempre vicino al tagliere dove mia mamma affettava la polenta. Io mi mettevo lì perché, allora la polenta si tagliava non con il coltello ma si tagliava con il filo, rimaneva sempre un po’ di crosta, sul tagliere, e allora appena aveva tagliato la fetta di polenta mi prendevo quel pezzo che rimaneva e me lo mettevo sul piatto per mangiare qualcosa in più.
Perché anche la polenta veniva divisa, due fette magari al più grande e mezza fetta al più piccolo. Cioè praticamente si scendeva in ordine partendo dal più grande al più piccolo, perché i più grandi dovevano lavorare, dato che dovevano lavorare gli si dava qualche pezzo in più, anche se il più piccolo poi doveva fare tutto quello che non riuscivano a fare loro, perché io mi ricordo che avevo un’età sugli otto, nove anni, oltre ad aver lavorato tutto il giorno assieme a loro, in montagna, andavo a casa, mi portavo il mio pezzo di legno, poi arrivavo a casa e trovavo magari le latte di latte da portare al caseificio. Noi per fortuna avevamo le mucche e allora il latte non ci è mai mancato, avevamo l’orto e allora si piantavano le patate. Un anno abbiamo fatto tutto l’inverno a mangiar patate e lo chiamavamo il “patatone”: le patate si condivano col lardo del maiale sciolto. Allora mi prendevo queste due tole di latte e me le portavo al caseificio e pesavano quei dieci chili per parte e avevo due chilometri da fare. In città, invece, qualche volta non si mangiava proprio. Più di una volta al giorno non si mangiava. Colazione niente, o mangiavi a pranzo o a cena, perché ce n’era poco e se c’era un uovo, per modo di dire, ce n’era uno ed eravamo in sei, non perché fosse miseria, per carità, papà lavorava, perché non ce n’era, non ce n’era!
Non si trovava, non si trovava, non ce n’era, ma dov’era non si sa. Non si lavorava, non si coltivava, non si produceva. Sì, non c’era mercato, non c’era nulla, non si trovava nulla.
La minestra c’era. Beh, una minestra fatta con un po’ di questo e un po’ di quello, quello che avevano anche, lunga, lunga. La minestra, come ti ho detto prima, la carne c’era una volta la settimana sì e no, si ricavava solo esclusivamente dalle verdure, verdure sì se c’erano, ma si usavano tutte le verdure commestibili che si potevano trovare, nei prati, sia selvatiche che coltivate, ogni cosa era buona, si lesinava tutto.”
Toglievo gli animaletti dalla minestra…
“Io ero in collegio, quando ci portavano la minestra in tavola, prima di mangiarla dovevo togliere gli animaletti che galleggiavano sul piatto e poi mangiavo. Sembra impossibile, a raccontarlo non ci crede nessuno.” “Però dica la verità, se mangiava al buio, mangiava anche la carne!”
Pescavo con la forchetta“Non abbiamo mai visto il pesce, non arrivava il pesce qua in Piemonte, noi siamo lontani dal mare, non si poteva comprare. Il pesce io l’ho mangiato, perché lo andavo a pescare con una forchetta nel fiume. Ecco, l’unico modo era quello. Allora quel pesce, lo si mangiava con la polenta, ma non ce n’era molto, tutta roba piccola.” |
“… lo andavo a pescare con una forchetta nel fiume” |
Finalmente a tavola
“Ognuno aveva il suo posto a tavola. C’era una gerarchia orrenda. A tavola ognuno aveva il suo posto: il papà capotavola e il pezzo più buono prima a lui, almeno parlo sempre per mia esperienza, non posso parlare per gli altri, a casa mia, mio padre capotavola, sì, sì anche da me, mia madre l’ultima, poverina, sempre, noi figli ai lati, prima si serviva lui, poi i figli più grandi, ma sempre prima il papà, e la mamma sempre l’ultima, se ce n’era.
Le posate c’erano, anche se il metallo lasciava un po’ a desiderare, era un metallo che se le lasciavi un po’ umide a mezzogiorno, veniva nero, alla sera le trovavi rosse, già arrugginite; non c’era l’acciaio inossidabile, c’era la pacca, era un metallo che si arrugginiva se non lo asciugavi più che bene, infatti portavano malattie.
La carne e il pane: il cibo più ambito!
La carne era il cibo che desideravamo di più! E il pane, per me il pane! Ho sofferto talmente tanto la mancanza del pane che oggi come oggi metto ancora tanto pane in tavola perché mi sembra di rivivere. Sì, sì, non posso vedere il tavolo senza pane, magari sto senza frutta, ma devo vedermi il pane in tavola. Io lascio il cioccolato, un bignè per una bella pagnottina di pane …
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