E=mc² e Giovanni Pascoli

Nuovi poemetti/Gli emigranti nella luna – Wikisource

LA VERTIGINE
Uomini, se in voi guardo, il mio spavento
cresce nel cuore. Io senza voce e moto
voi vedo immersi nell’eterno vento;

voi vedo, fermi i brevi piedi al loto,
ai sassi, all’erbe dell’aerea terra,
abbandonarvi e pender giù nel vuoto.

Oh! voi non siete il bosco, che s’afferra
con le radici, e non si getta in aria
se d’altrettanto non va su, sotterra!

Oh! voi non siete il mare, cui contraria
regge una forza, un soffio che s’effonde,
laggiù, dal cielo, e che giammai non varia.

Eternamente il mar selvaggio l’onde
protende al cupo; e un alito incessante
piano al suo rauco rantolar risponde.

Ma voi… Chi ferma a voi quassù le piante?
Vero è che andate, gli occhi e il cuore stretti
a questa informe oscurità volante;

che fisso il mento a gli anelanti petti,
andate, ingombri dell’oblio che nega,
penduli, o voi che vi credete eretti!

Ma quando il capo e l’occhio vi si piega
giù per l’abisso in cui lontan lontano
in fondo in fondo è il luccichìo di Vega…?

Allora io, sempre, io l’una e l’altra mano
getto a una rupe, a un albero, a uno stelo,
a un filo d’erba, per l’orror del vano!

a un nulla, qui, per non cadere in cielo!

II
Oh! se la notte, almeno lei, non fosse!
Qual freddo orrore pendere su quelle
lontane, fredde, bianche azzurre e rosse,

su quell’immenso baratro di stelle,
sopra quei gruppi, sopra quelli ammassi,
quel seminìo, quel polverìo di stelle!

Su quell’immenso baratro tu passi
correndo, o Terra, e non sei mai trascorsa,
con noi pendenti, in grande oblìo, dai sassi.

Io veglio. In cuor mi venta la tua corsa.
Veglio. Mi fissa di laggiù coi tondi
occhi, tutta la notte, la Grande Orsa:

se mi si svella, se mi si sprofondi
l’essere, tutto l’essere, in quel mare
d’astri, in quel cupo vortice di mondi!

Veder d’attimo in attimo più chiare
le costellazioni, il firmamento
crescere sotto il mio precipitare!

Precipitare languido, sgomento,
nullo, senza più peso e senza senso.
Sprofondar d’un millennio ogni momento!

Di là da ciò che vedo e ciò che penso,
non trovar fondo, non trovar mai posa,
da spazio immenso ad altro spazio immenso;

forse, giù giù, via via, sperar… che cosa?
La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io,
io te, di nebulosa in nebulosa,

di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!.

Gli emigranti della luna
Canto quinto  – “L’altra faccia della luna”

Crescea la luna. Ognuno già per ogni
plaga passava come a lui straniera.
Ognuno al Lago ora pensò, dei Sogni.
Forse la morte non temean, tant’era
la lor tristezza. E il Lago era pur bello
con le bianche ninfee di primavera!
Ivi abbracciato al dolce oblìo gemello
era il ricordo. Ivi cantava un nido,
da sé, partito ch’era già l’uccello.
Cantava il cuore, ora, da sé, col grido
d’allora, a notte! E ve l’udian cantare
i soli morti assisi lungo il lido.
Ed era il Lago ora nel lume, e chiare
fiorian le schiume. Ecco, una luce scialba
si diffondea nel Caucaso lunare.
E dalle grotte orlate di vitalba
videro, i due, rifulgere le accette
lassù, nel monte, tra il chiaror dell’alba.
S’udiva per le valli e per le strette
l’arido scroscio delle foglie morte…
I lor compagni erano sulle vette,
volti ai Laghi dei Sogni e della Morte!

E si levò tra quelle genti un suono
dolce di voce. Usciva allor da un velo
rado la luna pendula, dal cono
d’un abete. Una nebbia, un ragnatelo
di luce scialba tremolò su crani
lustri, su cenci e bioccoli di pelo;
e rifulsero allora occhi lontani,
zuppi di sogno, e bocche aperte a un alto
ululo. Il pugno si stringean le mani.
Videro tutti là, di soprassalto,
quella fanciulla, con le braccia in croce,
bianca sul liscio lago di cobalto.
Ella parlava timida e veloce.
Quello che ammansa, quello che consola,
pioveva dalla giovinetta voce.
“Io l’ho veduta. Corre sempre, vola,
passa. Ma mentre va, che non mai posa,
a noi non volge che una parte sola.
Vediamo, noi, nel cielo azzurro o rosa,
sempre quelle montagne, sempre quelle
paludi. Sempre. Ma di là? Che cosa
è mai di là, verso le grandi stelle?”

E la luna fu mezza. Erano tutti
di là. Ciascuno avea varcato un nero
cerchio di monti, un bianco orlo di flutti.
Ciascuno andava per un suo sentiero.
Movean lassù per il paese vuoto,
silenzïoso come il lor pensiero.
Movean pensosi; e cancellava il moto
l’orme sue stesse; per l’eternamente
non visto, per l’eternamente ignoto;
là, dove il tutto rifiorìa dal niente,
libero, dove s’adempìa perenne
un sogno, sogno del buon Dio dormente.
C’era anche il pane. E c’erano le renne
placide, il latte, il fuoco: tutto! Oh! molto
pensava il vecchio: ma di là non venne.
Oh! la sua Terra! Egli torceva il volto.
Veder la Terra gli era assai; ché infine
e’ non doveva ch’esservi sepolto.
Oh! pur dal fascio, ch’era, lì, di spine,
all’appressarsi dell’oscurità,
veder la Terra rosseggiar sul crine
delle montagne e dileguar di là!

Nuovi poemetti/Gli emigranti nella luna : Giovanni pascoli

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