L’asino di Buridano

L’asino di Buridano

Posted on ottobre 24, 2012

L’asino di BuridanoJean Buridan (1300-1358 ca.)  filosofo francese, rettore dell’Università di Parigi,  si inventò la leggenda dell’asino, il quale di fronte a due secchi, uno di acqua e uno di avena, posti alla stessa distanza, rimase immobile non seppe decidere e alla fine morì di stenti.

Fare come l’asino di Buridano vuol dire esitare di fronte alle scelte, non prendere una decisione per affrontare un (il) problema. Cerchiamo di non fare come gli asini, per di più di Buridano!

ALLORA: Partiamo dalla crisi

 

Sulla crisi è stato detto e scritto tanto, perfino troppo. Sarebbe stato bene, fin dall’inizio, non chiamarla “crisi” ma “Ristrutturazione capitalistica”, perché è quella cosa lì.

Da alcune parti, anche nel movimento, si è immaginato di vestire abiti di governanti e si è disquisito se pagare il debito oppure no, se tassare i grandi capitali, se tornare alla lira o rimanere nell’euro, e amenità varie. Eppure nessuno aveva chiesto il nostro parere, e non solo perché oggi contiamo assai poco, ma perché su queste cose i governi e gli gnomi della finanza non chiedono il parere nemmeno dei parlamenti.

Comunque alcune cose si sono chiarite, anche per esplicita confessione degli economisti embedded.

1-questa crisi non è passeggera né solo finanziaria bensì strutturale e ovviamente di sovrapproduzione;

2-sarà lunga, scombussolerà gli equilibri precedenti e non lascerà nulla come prima;

3-alcune aree del mondo, parte dell’Europa meridionale, vedranno scendere il tenore di vita delle classi basse delle popolazioni;    

4-la recessione e quindi la disoccupazione che ne deriva sarà una costante dei prossimi anni;

5-il capitalismo ha intenzione di “superare” questa crisi ristrutturando il rapporto Capitale-Lavoro a tutto danno del secondo. È nostro interesse non aiutare il capitalismo ad “uscire” da questa crisi. 

A questo punto da dove cominciamo? Ovviamente dalle lotte!

Ma, si dice, proprio quelle mancano; ma è anche possibile che non vediamo quelle che ci sono.  Si dice: le lotte stentano a partire perché qualcosa o molto è cambiato. Il post-fordismo ha tolto il terreno oggettivo di ricomposizione che aveva unito soggetti diversi.  

Si dice: negli anni 60 e 70 i migranti provenienti dal sud o dalle campagne del Nord, non omogenei tra di loro, sono diventati un corpo unico poiché sono andati in uno spazio ben determinato, la grande fabbrica, diventando operaio di linea, operaio massa.

Le condizioni materiali di lavoro influenzano certamente l’acquisizione della coscienza di classe, ma non è giusto semplificare i processi storici passati, e ricordiamo il difficile rapporto tra operai indigeni e migranti, ricordiamo l’incomunicabilità, la tensione e i veri e propri scontri. Ricordiamo le “Coree” (Montaldi, Alasia) nell’area di Milano e la loro lunga emarginazione dal proletariato milanese. Così l’incomprensione tra operai torinesi, sindacalizzati e professionali, di fronte ai lavoratori immigrati disposti a fare qualsiasi lavoro, a subire il potere del capo e anche a fare i crumiri. Quando si ricordano importanti rivolte di classe, come la rivolta di Piazza Statuto, del luglio ‘62, a volte si dimentica il percorso difficile e contraddittorio (Lanzardo) che è stato necessario perché questi migranti si conquistassero prima il ruolo di “teppisti”, poi quello di “operai in via di sindacalizzazione”, infine il ruolo di “traino del ciclo di lotte 68-73”. La classe operaia sindacalizzata e professionalizzata aprirà gli occhi solo dopo la batosta dei contratti bidoni del ’66 è inizierà a maturare quella rabbia e quella voglia di riscossa, contestando l’immobilità sindacale, che gli permetterà di incontrare la “forza d’urto” costituita dagli operai migranti, sui quali la sinistra rivoluzionaria in formazione –con grande intuizione – aveva puntato le sue carte e il suo lavoro.

Il percorso è stato complesso e difficile e vi hanno operato cause oggettive e forze soggettive, ed è stato irto di contraddizioni.

È risibile affermare che l’industrializzazione forzata del secondo dopoguerra abbia prodotto un terreno “favorevole” all’organizzazione della classe. Altrettanto risibile è affermare che la grande fabbrica erail “luogo comune” che “includeva” mentre oggi al contrario molti lavoratori “sono esclusi”. La coppia inclusione/esclusione svanisce di fronte ai racconti veritieri degli anni 50 e 60 come: “Gli anni duri alla Fiat” di Pugno e Garavini, o i lavori di Montaldi, oppure le prime inchieste di QR,

e le tantissime testimonianze degli operai di quel tempo. Era difficilissimo organizzarsi nelle fabbriche negli anni 50 e 60. Certamente più difficile di oggi. Regnava il “terrore”, il ricatto dei “reparti confino”, i licenziamenti per gli operai più attivi, i “consigli di disciplina”, il controllo poliziesco nei reparti con ex carabinieri, fascisti e guardioni, ecc.

Va dunque abbandonato questo modo di ragionare “meccanicista” e superficiale per cui se la grande fabbrica è stata smantellata non sono più possibili percorsi dell’autorganizzazione operaia e proletaria.

Stesso discorso vale per il “precariato”. Basta col lamento sulla odierna precarizzazione! In questo paese la forma più diffusa di accesso al lavoro è passata sempre per la precarietà, per i salari al nero e per il non rispetto (padronale) dei diritti, né dei contratti collettivi, e nemmeno delle norme antinfortunistiche:  (Nel 1966 le stime dell’Inail denunciarono che su 18.884.000 occupati, gli infortuni sul lavoro erano stati nell’anno 1.451.000, con 4.900 morti: 13,4 morti al giorno. Nel quarantennio 1954- 1993 gli incidenti sul lavoro nell’industri ed agricoltura ammontano a  40.341.000. Le persone morte sul lavoro sono state 81.074, più di 5,5 lavoratori al giorno morti.  A ciò vanno aggiunti 50.000 casi di malattie professionali e 8.000 di inabilità ogni anno).

Non si può certo dire che quelle fossero “condizioni favorevoli”! Il motivo dell’assenza delle lotte, se siamo sicuri di questa assenza, va cercato altrove.

 Altro pregiudizio da sfatare è quello che oggi manchi la ribellione del “nuovo” proletariato. I migranti qualche tentativo l’hanno fatto; le loro “piazze statuto” le hanno tentate: la rivolta di Rosarno del gennaio 2010, Nardò del luglio 2011, e tanti altri tentativi. Forse la domanda che dovremo farci è un’altra: quale relazione abbiamo stabilito con questi soggetti in rivolta? Quale sostegno e contributo abbiamo offerto? Quale dibattito sul tema: “come rapportarsi con quelle rivolte”?

Per non parlare delle lotte territoriali: Terzigno, Acerra e le altre lotte nel napoletano e altrove, e anche la “sempre citata” lotta No Tav, quanti anni ci abbiamo messo prima di accorgerci che esisteva? E la lotta No Inc. dei Castelli romani?

Lavoro e territorio, ci rimandano a un problema sul quale dobbiamo fare chiarezza, una volta per tutte. Dobbiamo uscire dalla logica sindacale-rivendicativa.

Sindacati

Senza fare un lungo excursus storico sulla formazione dei sindacati e il contesto in cui nacquero, una cosa la possiamo dire. Storicamente la classe lavoratrice, gli strati sfruttati hanno tentato di organizzarsi per cercare di cambiare le proprie condizioni di vita e di lavoro, insopportabili. Lo hanno fatto con sommosse, tumulti, scioperi, sabotaggi, riappropriazione, e in mille altri modi che immaginavano e praticavano, cercando di strappare qualcosa che migliorasse la propria condizione. Ovviamente sono stati sempre osteggiati, criminalizzati e repressi dal padrone e dai governanti.

La codificazione (istituzionalizzazione) dell’azione sindacale nasce dentro un “compromesso” tra la borghesia liberale e la nascente socialdemocrazia europea. 

Tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, in modo diverso da paese a paese, e in una fase in cui la borghesia liberale doveva ancora completare la conquista totale del potere di fronte ai regimi autocratici, si delinea, dopo scontri importanti, uno schema di organizzazione e di inserimento della attività sindacale nel sistema (quella fu vera inclusione di una classe, il proletariato, in realtà una cooptazione, un inserimento nel sistema sociopolitico capitalista). Il compromesso tra la socialdemocrazia e la borghesia liberale portò alla realizzazione di questo schema di relazioni industriali: il sindacato organizza i lavoratori sul posto di lavoro e dà loro una veste istituzionale. garantisce la vendita della Forza lavoro (FL) in modo che non intralci la competizione tra imprese capitaliste; il sindacato controlla la conflittualità operaia rendendola compatibile con l’ordine e il profitto capitalistico, adeguando questo costo al ciclo capitalistico e, a seconda del compromesso diverso in ogni nazione, garantisce l’internità della FL al processo di accumulazione capitalista, ossia la rende un fattore della produzione stabile e controllato in modo che i Consigli d’Amministrazione possano fare i loro calcoli e previsioni. Inoltre, nei paesi più avanzati settori via via crescenti di lavoratori diventano “consumatori” (un modello che si è generalizzato nel secondo dopoguerra).

In Inghilterra la legalizzazione delle Trade Unions avvenne tra il 1868 e il 1871, nacque così la Federazione sindacale TUC (Trades Union Congress), in Svezia la LO, la Confederazione generale del lavoro fu fondata nel 1898, negli altri paesi europei Federazioni sindacali si stabilizzarono negli anni successivi.

Nello schema socialdemocratico maggioritario (l’ala sinistra della socialdemocrazia, che negli anni 20 scindendosi si definì comunista, non ha mai accettato, ma ha subito questo compromesso, adattandosi alla divisione dei compiti tra sindacato e partito), il sindacato gestisce la FL dentro il meccanismo capitalistico; a un livello superiore si colloca il partito di quadri e specialisti che si propone per la scalata istituzionale: parlamento, amministrazioni locali, istituzioni varie, per cambiare da dentro, con una serie di riforme, il sistema capitalista. La socialdemocrazia cercava di realizzare un capitalismo buono, che limitasse le devastazioni e i massacri .

Vi sono le esperienza della socialdemocrazia svedese che negli anni 70 proponeva un “capitale senza padrone” col suo teorico Rudolf Meidner, braccio sindacale di Olof Palme, che lavorava per una partecipazione azionaria dei lavoratori alle aziende, fino a farli diventare gli azionisti di maggioranza; diverso è il “modello renano” (in Germania) basato sulla concertazione e la cogestione tra sindacati (più il partito socialdemocratico), le aziende e grandi banche che ha consentito di mantenere un equilibrio tra capitale e FL e investimenti per l’innovazione (ristrutturazioni) e un po’ di welfare; schematizzando c’è poi il modello anglosassone, che vede l’impresa come una molecola della finanza; il modello francese vede lo stato che indirizza e coordina (coordinava) il capitalismo, con l’impegno dello stato di investire nella ricerca (soprattutto militare); infine il modello del capitalismo di territorio basato sulla manifattura e l’imprenditorialità diffusa, con forte sfruttamento della FL e con i sindacati succubi, che è quello presente in Italia. In questo paese le tesi della partecipazione dei lavoratori, attraverso i sindacati, alla gestione delle aziende (azionariato operaio), in quegli anni (70) furono fatte proprie da settori della sinistra Cisl, come Merli Brandini, Pierre Carniti, ecc.

Ricapitolando, lo schema socialdemocratico vedeva il Sindacato occuparsi degli interessi economici immediati dei lavoratori, il partito degli interessi politici e della trasformazione della società a favore dei lavoratori.

“Per evitare ogni malinteso è opportuno notare che per “lotta economica” intendiamo sempre la “lotta economica pratica” che Engels ha chiamato ”resistenza ai capitalisti” e che, nei paesi liberi, è chiamata lotta professionale, sindacale o tradunionista” [Lenin, Che fare]

       Un’unità strategica necessitava tra i due strumenti, sindacato e partito, perché lavorassero in sintonia e per evitare che l’attività del sindacato contraddicesse quella del partito. È però vero che una certa autonomia del Sindacato dal Partito permetteva agli operai di fare pressione sul partito affinché questo non si allontanasse dalla politica che essi, con la loro partecipazione, esprimevano.

Uno stretto collegamento del sindacato col partito ci fu fin dall’inizio dunque, ma una grande innovazione l’introdusse Lenin per rendere questi strumenti utili alla rivoluzione. Lenin però rimase all’interno dello schema socialdemocratico, lasciandolo sostanzialmente immutato, introducendo, o meglio, esplicitando il concetto del Sindacato cinghia di trasmissionetra il partito e le masse operaie. Questa innovazione significava che il sindacato aveva una funzione politica importante nello spingere i lavoratori all’impegno e alla lotta, una sorta di palestra per preparare i lavoratori alla dotta decisiva: l’insurrezione.

La socialdemocrazia dirige la lotta della classe operaia non soltanto per ottenere condizioni vantaggiose nella vendita della forza-lavoro, ma anche per abbattere il regime sociale che costringe i nullatenenti a vendersi ai ricchi. La socialdemocrazia rappresenta la classe operaia non nei suoi rapporti con un determinato gruppo d’imprenditori, ma nei suoi rapporti con tutte le classi della società contemporanea, con lo Stato, come forza politica organizzata. E’ dunque evidente che i socialdemocratici non soltanto non possono limitarsi alla lotta economica”. [Lenin, Che fare]

     Dunque il modello leninista del ruolo del partito e del sindacato di classe è dentro la tradizione socialdemocratica tedesca, Kautsky aveva previsto qualcosa del genere nel suo: “Le tre fonti del marxismo” che assegnava al partito un ruolo di “direzione” politica del sindacato. Lenin ha dato un contributo grandioso chiarendo i limiti della lotta tradunionista (sindacale) che, lasciata a se stessa, non fa fare alcun reale passo avanti ai lavoratori. Mettendo per di più in guardia che il sindacato mantiene un ruolo ambiguo e pericoloso per la tendenza a scivolare verso derive corporative o collaborative, che già si imponevano nei sindacati europei e nord americani in quei primi anni del novecento. Ma, non potendo o non volendo uscire dallo schema socialdemocratico, Lenin ha concluso che quello schema poteva andar bene se utilizzato per il compito storico della classe operaia, per l’insurrezione. Però nei mesi decisivi che preparano l’insurrezione in realtà ha puntato, non sui sindacati, ma sui soviet degli operai, dei proletari, dei soldati, ecc.

Differentemente dal resto dell’Europa, in Gran Bretagna e nel mondo a cultura anglosassone, le Trade Unions hanno costruito un rapporto col Labour Party (che si è rotto solo recentemente col new labour di Tony Blair che ha abbandonato il solco laburista per sposare quello liberista) di dominanza e non di subalternità. Il partito non solo non aveva un ruolo direttivo rispetto ai sindacati ma accettava l’egemonia dell’apparato sindacale sul partito stesso, che gli garantiva il consenso elettorale.

     Negli anni tra le due guerre, la rottura con lo schema socialdemocratico viene praticato e teorizzato dal “comunismo di sinistra” (1) (Linkskommunismus)  tedesco- olandese. Sul piano teorico ci sono le tesi di Goerter e Pannekok  sulla necessità di rigettare il parlamentarismo e il sindacalismo, soprattutto dopo la deriva patriottarda dei parlamentari socialdemocratici e dei dirigenti sindacali nell’appoggiare le rispettive borghesie per dare il via al “grande macello” del primo conflitto mondiale. Non era difficile affermare che il sindacato era diventato strumento del capitale, era sufficiente ricordare la collaborazione di classe prodotta da tutti i sindacati europei che avevano offerto ai governi in guerra lavoro gratuito, allungamento della giornata lavorativa e blocco delle rivendicazioni. 

“La linea di lotta antioperaia certamente più coerente è rappresentata dai sindacati liberi e dalla socialdemocrazia. Essi hanno sempre inteso l’ingresso nel partito della patria e l’accettazione della ‘pace sociale’ come mezzi per lo scopo, come necessaria fase intermedia verso un’ampia direzione sociale sulla ricostruzione e sul passaggio allo Stato del lavoro”     [K.H. Roth, L’altro movimento operaio, Feltrinelli, 1976, pag.56]

    Cosa importantissima da NON dimenticare è che nel movimento rivoluzionario tedesco degli anni Venti, non è del tutto corretto descrivere le scelte politiche dei settori di classe rivoluzionari facendoli discendere dalle elaborazioni di questo o quell’intellettuale. Nella Germania degli anni Venti iniziò una nuova storia: la politica rivoluzionaria del proletariato viene fatta dal proletariato stesso, dalle avanguardie interne, facendo a meno degli intellettuali, i quali si sono limitati a registrare e trascrivere ciò che i settori più avanzati della classe facevano. Stessa musica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta, ma anche nella parte rivoluzionaria del movimento Usa, Iww, Pantere Nere e le rivolte nelle fabbriche dopo la guerra, così nel movimento degli Shop Steward in GB, fortissimo tra le due guerre, poi regolamentato e annullato con l’Industrial Relations Act del 1971, e nelle tantissime altre esperienze, tutte interessanti da conoscere.

Questa è una cosa che spesso si dimentica: nel secolo scorso è iniziato un processo irreversibile e che si estende via via a tutto il mondo: i movimenti rivoluzionari fanno e faranno sempre più meravigliosamente a meno degli intellettuali, poiché loro stessi, attraverso la comunicazione collettiva, si sono conquistati il ruolo di essere intellettuali del loro stesso movimento per la rivoluzione.

Tornando alla sinistra comunista tedesca, contro di loro Lenin scrisse “L’estremismo, malattia infantile del comunismo”.

Però la Conferenza internazionale comunista promossa dal Bureau d’Amsterdam (BdA) cui parteciparono nel ‘20 tutte le formazioni comuniste europee, mentre confermava la linea di Zinoviev sull’uso rivoluzionario dei parlamenti borghesi, doveva affermare che “man mano che la produzione capitalista si disgrega e la situazione diviene più nettamente rivoluzionaria, l’azione parlamentare perde in importanza rispetto all’azione diretta delle masse”. Così sul sindacato: “L’organizzazione sindacale diviene talvolta nelle mani di questi ultimi [i burocrati sindacali] un organo del padronato per impedire o soffocare gli scioperi […] Essi cercano di rafforzare il sistema capitalistico invitando gli operai ad aumentare l’intensità del lavoro e si oppongono violentemente ad ogni attività rivoluzionaria delle masse. […] Indicando di ”appoggiare le organizzazioni di sindacalisti rivoluzionari quali IWW in America e gli Shop Stewards in Inghilterra”.

Il BdA, struttura di collegamento tra comunisti europei formata inizialmente dalla Terza Internazionale, venne poi “scomunicata” da Zinoviev nell’agosto del ’20 perché non controllabile, era costituito dai comunisti tedesco-olandesi, la sinistra della III Internazionale. La contrapposizione tra destra e sinistra verteva principalmente sul “ruolo” dell’Internazionale: se farne uno strumento per favorire le rivoluzioni in Europa che si credevano possibili oppure farne strumento dell’Urss nella sua difesa dal mondo capitalistico. L’abbandono di queste posizioni rivoluzionarie fu poi imposto da Mosca quando l’IC (III internazionale) si ridusse ad essere solo un appoggio e sostegno all’ “unico paese socialista”.

Il “Linkskommunismus” basava la sua teoria sugli organismi dell’autonomia operaia esistenti in Germania, in particolare a quei consigli, che si aggregavano su base volontaria senza il vincolo dell’attività lavorativa, né dell’appartenenza a un settore industriale (metallurgia, edilizia, ecc.), né dell’azienda, in quanto erano formati per di più da disoccupati, precari, stagionali, sottoccupati. Questo movimento organizzato, che Roth chiama: “l’altro movimento operaio”, ha avuto forti contrasti politici con i “consigli operai” tedeschi, formati invece da operai qualificati sindacalizzati delle grandi aziende.

     Per venire a esperienze più vicine a noi, alla fine degli anni 60 e per tutti gli anni 70, il dibattito nella sinistra rivoluzionaria mette in discussione tutto l’impianto della II e III Internazionale nel rapporto tra partito e sindacato. Per noi, militanti di quel movimento rivoluzionario, tranne rare eccezioni, la divisione lotta sindacale-rivendicativa da una parte e lotta politica nel partito dall’altra, era da superare, la ritenevamo una pratica residuale del passato per di più molto negativa, sia perché radicava nei lavoratori il concetto della “delega”, sia perché legava la prospettiva del miglioramento allo stato di buona salute dell’impresa, in pratica legava i destini operai con quelli dei padroni.

 “La separazione tra attività politica e sindacale, secondo noi, aveva annullato la capacità di trasformazione sociale insita nella lotta operaia. Volevamo ricomporre, nella coscienza di ciascuno, le condizioni di lavoro e quelle di vita. I lavoratori dovevano prendere nello proprie mani la direzione della lotta sull’orario e sul salario e quella per la liberazione dal sistema capitalista, così come la solidarietà internazionale, era questa l’idea dell’autorganizzazione.

Il nostro collegamento ideale era il 5 marzo ’43, lo sciopero insurrezionale degli operai del nord Italia occupato dalle truppe naziste, esempio importante della lotta operaia di incidere sulla politica nella sua massima espressione: la guerra.

I Comitati dovevano essere il tassello di un progetto per organizzare l’intera società planetaria; presenti in ogni luogo, in ogni angolo del mondo”.    [Maelstrom pag. 321]

[…] Da quanto scritto fin qui risulta chiaro che il Cub non ha mai voluto proporre se stesso come struttura organizzativa alternativa al sindacato […]. Il Cub […] si pone su un altro piano: l’impostazione politica dei problemi e la conduzione politica della lotta, di fatto, superano la gestione puramente sindacale.    

(dal Documento CUB Pirelli – Il Documento completo del Cub Pirelli (1968), il primo organismo autorganizzato in Italia, lo trovate qui

Il Cub Pirelli fu un capolavoro di autonomia operaia, durato purtroppo non più di un anno, e tolto di mezzo nell’autunno del ’69 dall’inasprirsi dello scontro, dal livello troppo alto cui era stato portato. Il Cub Pirelli e le lotte che contribuì a dirigere, coordinare, innescare si rivelò subito un ottimo strumento per la guerriglia di reparto, ma non uno strumento in grado di reggere una fase di confronto nazionale. […] Ciò che di grande e di duraturo aveva portato il Cub Pirelli non andava misurato a livello di formule organizzative, ma a livello di strategia contenuta in quel particolare tipo di rifiuto del lavoro racchiuso nella rivendicazione/realizzazione dell’abrogazione del salario a incentivo, nell’aver indicato la strada dell’egualitarismo contro gli aumenti di merito e il sistema di promozioni del padronato, nell’aver  trovato il tipo di obiettivi che si potevano praticare senza passare per una negoziazione.

(Sergio Bologna, in: Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro…, cit. in Maelstrom p.337)

 QUEL CICLO DI LOTTE HA  REALIZZATO  UNA VERA  E  SOSTANZIALE  ROTTURA DELLO SCHEMA SOCIALDEMOCRATICO. 

DA QUI NON SI DEVE TORNARE INDIETRO!

Invece siamo tornati molto indietro. È sufficiente contare i sindacatini “di sinistra” sorti negli ultimi anni.  Attività encomiabile sarebbe quella di recuperare le energie che compagne e compagni spendono nei  cosiddetti “sindacati di base”. Questi, oltre non aver scalfito nemmeno un po’ il controllo del sindacalismo confederale-collaborativo sulla classe; oltre non aver organizzato nessuno spezzone di quel “nuovo proletariato” costituito dai migranti, riproducono l’illusione nei proletari che sia possibile, con una azione sindacale adeguata, migliorare stabilmente la propria condizione. E, cosa ancor più grave, illudono i lavoratori che i propri interessi siano in sintonia con gli interessi del padrone della azienda dove vengono sfruttati, che poi chiamano: “la nostra azienda”. Rallentano e intralciano la presa di coscienza dei proletari, creano confusione e subalternità tra i lavoratori con termini come “tavolo di trattative”, “mediazione”, “delega”.

Liberarsi dell’illusione sindacale, è ancor più urgente oggi, in presenza di quote crescenti di disoccupazione, di chiusure di fabbriche, di recessione.

È utile invece dar vita a organismi, dove vi sia adesione libera e volontaria senza il vincolo né del posto di lavoro (metalmeccanici, funzione pubblica, edili, ecc.) né del territorio. Organismi che dovranno unificare, ricomporre tutte le questioni della condizione proletaria per lottarci contro e per costituire quel tessuto in grado di metter in moto e organizzare un percorso di trasformazione rivoluzionaria. Non operare soltanto per la difesa contro gli attacchi padronali (resistenza) ma iniziando a prefigurare situazioni offensive, di attacco operaio. Per Marx la classe operaia non è un dato oggettivo, passivo, un oggetto di espropriazione, una massa sofferente, è  anche e soprattutto autodeterminazione e soggettività. “La classe operaia si costituisce in classe per se prima della conquista del potere, chiarendo a se e al resto del mondo qual è l’obiettivo della rivoluzione”.

 LO STATO (solo un accenno)

Si dice che lo Stato arretra da tutti gli ambiti della società. In questa fase di liberismo esasperato, con gli accordi europei che impediscono l’intervento dello Stato nell’economia anche per questioni drammatiche (Ilva di Taranto, Alcoa, Sulcis, ecc.), si sente richiedere da più parti il ritorno dell’intervento statale nell’economia, sul modello “partecipazioni statali” o Iri. Sono discorsi che girano anche dalle nostre parti (nel movimento): interventismo statale, politiche nazionali, protezionismo ai settori deboli, ecc.

A parte la considerazione che la ruota della storia non gira all’indietro, in questo paese dovremmo conoscere bene le devastazioni dello “Stato democristiano” (la Dc, si diceva, “aveva occupato lo stato”, comunque lo faceva funzionare al suo servizio). L’intervento dello Stato nell’economia ha funzionato come strategia di addormentamento e addomesticamento della lotta di classe; ha alimentato il corporativismo, alimentato culture regionaliste e razziste, spesso aziendaliste svilendo l’attività sindacale a chiedere allo Stato sostegno ai padroni. Queste politiche interventiste hanno fatto arretrare la coscienza di classe internazionalista dei lavoratori. E oggi proprio questa coscienza bisogna ricostruire!

 Il discorso sullo Stato per i comunisti è un discorso fondamentale e dovremo affrontarlo approfonditamente. Anche perché lo Stato, tutti gli stati, stanno predisponendo, in questa fase, una stretta repressiva e un controllo mai visto, asfissiante di tutta la società, Altro che Stato sottile? Comunque qui volevo solo mettere in guardia da alcune baggianate sullo Stato che girano nel movimento. Oltre a ricordare che compito della rivoluzione comunista è abbattere lo Stato.

                                IL TERRENO SU CUI MUOVERCI

L’obiettivo di questa fase è costruire le strutture della classe, in pratica rafforzare quello che chiamiamo “percorsi di autorganizzazione”. Precisando meglio cosa intendiamo: se è vero che l’attività sindacale non serve ed è negativa, bisogna rompere il “legame” del lavoratore con l’azienda (aziendalismo), con la natura giuridica del rapporto di lavoro (contratto). Ci può essere utile la realtà che vede un lavoratore oggi cambiare molte volte il posto di lavoro nella sua vita e anche contratto (quando ce l’ha). Non sarà comunque facile spezzare la cultura del “legame” operai-azienda , ci sono più di 100 anni di ideologia, ma è una importante battaglia da fare.

Dobbiamo costruire organismi autorganizzati cui i proletari, occupati e disoccupati, giovani e anziani, possano aderire sulla sola base della loro volontà di lottare per migliorare e cambiare la propria condizione. Il territorio diventerà una base di partenza per lotte sul salario: autoriduzioni, riappropriazioni, sulla difesa e gestione del territorio e, in prospettiva, sulla ripresa dell’offensiva proletaria.

                                             LE LOTTE E DOPO

Ogni lotta, pur bella, significativa e coinvolgente, prima o poi termina (speriamo con una vittoria). A quel punto cosa fare? Se c’è stata solo “solidarietà”, forse rimane poco, se invece si sono costruiti “obiettivi comuni” con altre situazioni, si potrà continuare. Facciamo l’ipotesi che la lotta No-Tav vinca- e lo speriamo-, la linea ad alta velocità non si fa più. Bene, dopo i festeggiamenti, ciascuno e ciascuna del movimento No Tav torna alla propria attività… domanda: saranno/saremo in grado di utilizzare quel patrimonio comune costruito in anni di lotta per affrontare con lo stesso strumento autorganizzato i problemi della collocazione sociale di ciascuno/a: lavoro, salario, alloggio, servizi, ecc.? E questo vale per ogni lotta.

Prendiamo un altro episodio del movimento, Genova 2001. Perché ci lamentiamo di questi 11 anni di schifezze a favore dei massacratori e torturatori e dei loro mandanti, mentre a 10 compagni e compagne hanno imposto il cilicio del capro espiatorio? Perché non ricordiamo, e quindi ci critichiamo, per la kermesse accettata/subita l’anno dopo a Firenze sotto il beneplacido della regione e comune “rossi” che hanno permesso a compagne e compagni di fare baldoria, di avere tutti gli spazi e la ribalta mediatica e anche di portarsi via i computer per dimenticare l’infamia dei massacri di Genova?

                Le  forme  di  lotta:  LA PIAZZA  NON  BASTA!

Da qualche parte, Egitto, Grecia, Tunisia, le piazze si sono ribellate, a volte in maniera violenta e duratura. Hanno messo in campo anche la forza. Cosa hanno prodotto queste mobilitazioni? Cambi di governi, qualche scossone istituzionale, ma nulla sul piano economico-sociale. Non hanno modificato i rapporti di forza tra le classi. Né incrinato il rapporto di sfruttamento e oppressione.

Altrettanto numerose e partecipate, qualche tempo prima, sono state le contestazioni ai vertici dei potenti (Seattle, Davos, … Genova). Le classi dirigenti hanno continuato il loro “sporco lavoro” spostando via via il potere decisionale dai governi ai centri del potere finanziario-bancario e alle multinazionali. I governi, mai definizione fu più azzeccata, “comitati di affari della borghesia”, ripetono pedissequamente, come non mai, le indicazioni-imposizioni delle centrali del comando capitalistico mondiale. Ed oggi all’ordine del giorno del dibattito tra i governi europei c’è una ulteriore cessione di sovranità (economico-finanziaria) degli Stati agli organismi economici della UE. Però il potere repressivo gli stati se lo tengono, anzi l’amplificano.

 Si è usato a sproposito la parola “rivoluzione” per queste rivolte, al punto che oggi “rivoluzione” viene usata per una semplice manifestazione. Bisogna ridare dignità e significato alla parola “rivoluzione” che vuol dire trasformazione radicale degli assetti economici e sociali, vuol dire distruggere un modo di produzione e sostituirlo con un altro; vuol dire distruggere un sistema di potere e sostituirlo con la gestione autorganizzata delle donne e degli uomini della propria vita. Una rivolta, una sommossa per un cambio di governo non è una rivoluzione. La cacciata di un despota non è una rivoluzione; il cambio di un regime nella sua forma istituzionale non è una rivoluzione.

E soprattutto in piazza ogni movimento trova il limite nella forza del potere armato dello stato-esercito. Anche milioni di persone di fronte ai carri armati non hanno futuro. La piazza è utile come un passaggio, per guardarsi, contarsi, prendere entusiasmo,… poi è necessario costruire gli strumenti del contropotere proletario, radicati in tutti gli angoli della società. Altrimenti rimane un tumulto, una richiesta, una petizione. Il limite della piazza sta nell’enorme forza dello Stato, ma il limite ancor più grande sta nella “delega”. La piazza chiede, chiede…perché qualcuno faccia. Non si propone come alternativa di potere, come soggetto di potere.

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(1)- Il “comunismo di sinistra”, contava su teorici di grande levatura, oltre a Herman Gorter, AntonPannekoek, anche Otto Rühle, Paul Mattick, Henriette Roland-Holst, e altri/e.

“Voi dite che il compagno Liebknecht potrebbe, se fosse vivo, fare un lavoro meraviglioso nel Reichstag [Parlamento]. Noi lo neghiamo. Non potrebbe manovrare politicamente laddove i partiti della grande e piccola borghesia formano un blocco contro di noi. E neanche conquisterebbe, per questa via, le masse meglio di quanto potrebbe fare stando fuori del parlamento. Al contrario, una grandissima parte della massa sarebbe soddisfatta dei discorsi e la sua presenza in parlamento sarebbe quindi nociva.    Hermann Gorter, da: Risposta all’”estremismo” di Lenin, 1920

*Il dirigente socialista olandese Ferdinand Domela Nieuwenhuis aveva scritto a Marx , nel 1881, per chiedergli quali misure legislative un governo socialista avrebbe dovuto prendere, sul piano politico ed economico, per assicurare la vittoria del socialismo; i socialisti olandesi pensavano di chiedere l’iscrizione di tale questione all’ordine del giorno del congresso socialista internazionale che doveva tenersi a Zurigo. Nella sua risposta Marx dimostra come sia un errore porre una simile questione, perché tutto dipende dalle condizioni storiche particolari, e per un governo socialista l’essenziale è fare sufficientemente paura alla borghesia per avere il tempo di agire efficacemente. Secondo Marx, l’esempio della Comune di Parigi non è probante, perché non riguarda che una città, e non era a maggioranza socialista. “La ribellione di una sola città in condizioni specialissime, con una popolazione che non era – né poteva essere- socialista. Con un tantino di buon senso in più, sarebbe forse stato possibile raggiungere un compromesso con Versailles favorevole ai comunardi. Ma non si poteva fare nulla di più”.  (a proposito dei limiti della piazza)

 … e più oltre…

“[…] Le rivendicazioni generali della borghesia francese prima del 1789, mutatis mutandis erano fissate perlopiù nello stesso modo in cui lo sono oggi, in modo abbastanza uniforme in tutti i paesi a produzione capitalistica, le prime rivendicazioni dirette del proletariato. Ma, un qualsiasi francese del XVIII secolo, a priori, poteva avere la minima idea del modo in cui riuscirono a imporsi quelle rivendicazioni della borghesia? L’anticipazione dottrinaria e necessariamente fantastica del programma di azione di una rivoluzione futura non fa che deviare dalla lotta presente. L’incubo di un’imminente fine del mondo infervorò i primi cristiani nella loro lotta contro l’impero romano e diede loro la sicurezza della vittoria.
L’analisi scientifica dell’inevitabile decomposizione dell’ordine sociale dominante, che avanza di continuo sotto i nostri occhi, le masse la cui passione è sempre più stigmatizzata dai vecchi fantasmi di governo, e il contemporaneo sviluppo enorme, positivo, crescente, dei mezzi di produzione, è quanto basta come garanzia che al momento in cui scoppierà una rivoluzione veramente proletaria, verranno date anche le condizioni del suo prossimo, immediato ( anche se sicuramente non idilliaco ) modus operandi […]”
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Lettera di Marx a F.D. Nieuwenhuis 22 febbraio 1881

http://contromaelstrom.com/2012/10/24/lasino-di-buridano/

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