Rosa Luxemburg : The Mass Strike, the Political Party and the Trade Unions – Il risveglio della lotta di classe e lo sciopero generale

Il risveglio della lotta di classe e lo sciopero generale

L’opportunismo è una pianta che si sviluppa rigogliosamente nelle acque ferme; in una corrente impetuosa muore da sé. i Rosa Luxemburg

Quando il 9 gennaio del 1905 le truppe zariste aprirono il fuoco su una folla di lavoratori venuti a portare una supplica allo zar, la rivoluzione divampò in tutta la Russia. Come annunciò raggiante Rosa Luxemburg, il mondo capitalista e la lotta di classe erano “finalmente usciti dalla stagnazione, dalla lunga fase di scaramuccia parlamentare, e avviati ad entrare in un nuovo periodo di lotte di massa.” La rivoluzione russa infatti non fu un avvenimento isolato, il portato singolare della barbarie di un paese arretrato. Fu al contrario la punta più avanzata di un processo di risveglio che in misura maggiore o minore coinvolse diversi paesi europei.

Nello stesso mese, in Germania, scoppiò un’ondata di scioperi nel bacino minerario della Ruhr. Ebbe inizio il 7 gennaio. Il 17 erano in stato d’agitazione 155.000 minatori a cui il 20 se ne aggiunsero altri 14.000. Il 9 febbraio su un totale di 268.000 minatori occupati in tutta la Germania, ben 220.000 erano in sciopero. Se in tutto il 1904 si erano registrati 2 milioni e 160mila ore di sciopero, nel 1905 la cifra salì a 7 milioni e 360mila.

Le organizzazioni, le tendenze politiche, le prospettive, gli individui che si erano venuti formando lungo 20 anni di relativa calma erano finalmente messi alla prova, non in un dibattito teorico, ma negli sviluppi stessi della lotta di classe. E la reazione dei vertici del movimento operaio organizzato confermò le paure peggiori ventilate da Rosa  Luxemburg: la direzione si era trasformata in un fattore di “conservazione” e di ostacolo allo sviluppo stesso del movimento. I vertici sindacali avevano accolto quasi con orrore lo sciopero della Ruhr. Come spiegò Rosa Luxemburg, la lotta si sviluppò loro malgrado:

Il punto d’avvio della prossima ondata rivoluzionaria si è spostato da occidente verso oriente: quasi contemporaneamente sono divampate in Germania e in Russia due possenti battaglie sociali (…). Chi ha “voluto” lo sciopero generale nel territorio della Ruhr e chi lo ha “provocato”? In realtà in questa circostanza tutto quanto nel campo del lavoro rappresenta in tutto o in parte coscienza di classe e organizzazione – unioni sindacali confessionali, sindacati liberi, socialdemocrazia – aspirava e si sforzava di impedire piuttosto che di provocare la sollevazione. (…) Ma poiché il movimento nella territorio della Ruhr per tutto il suo carattere (…) non si presenta tanto come una lotta parziale contro questo o quel fenomeno limitato quanto in fondo, come una sollevazione dello schiavo salariato contro il dominio del capitale in quanto tale nella sua configurazione più cruda, esso è divampato con la violenza elementare di un fenomeno atmosferico.

Le direzioni sindacali fecero di tutto per evitare che l’agitazione tra i minatori si trasformasse in una fermata del lavoro su larga scala. E quando questo si verificò, cercarono di impedire in ogni modo che il movimento si estendesse alle altre categorie. I consigli di base dei minatori chiesero invano che lo sciopero fosse trasformato in generale. A maggio, il congresso nazionale dei sindacati ribadì il rifiuto di questa forma di lotta: lo sciopero generale fu bandito come qualcosa di irrealizzabile, fu definito un’ “assurdità generale”. Veniva presentato come il caos, una misura che avrebbe provocato in risposta la serrata padronale, finendo per affamare tutto il proletariato tedesco. Ma quel che è peggio, tale posizione veniva giustificata prendendo a prestito alcune argomentazioni di Engels.

Né Marx, né Engels si pronunciarono mai contro lo sciopero generale in sé. Essi non ne facevano un feticcio, né in senso positivo né in senso negativo. Ciò che condannavano era semplicemente l‘interpretazione salvifica che ne veniva data da alcune correnti del movimento operaio. Agli albori del movimento operaio inglese, il movimento cartista aveva teorizzato il “mese santo”: un mese ininterrotto di sciopero generale che avrebbe di per sé determinato il crollo del capitalismo. Gli anarchici ripresero questa concezione e la contrapposero addirittura al movimento politico della classe: non era necessaria né rivoluzione né abbattimento dello Stato borghese. Sarebbe stato sufficiente gettare la società nella paralisi a tempo indeterminato perché il capitalismo si congedasse definitivamente dalla storia. Ne sarebbe sorta la nuova umanità come l’ordine nasce dal caos. Engels descrisse così questa posizione: Lo sciopero generale è nel programma di Bakunin la leva per mezzo della quale si compie la rivoluzione sociale. Un bel mattino tutti gli operai di tutti i rami dell’industria di un paese, o meglio, del mondo intero, cessano il lavoro, e in questo modo, al massimo in quattro settimane, costringono le classi possidenti o a sottomettersi umilmente o ad attaccare gli operai (…). Si predicarono dovunque i risultati miracolosi dello sciopero generale e si fecero dei preparativi per dargli avvio a Barcellona e ad Alcoy. (…) Gli operai di Barcellona (…) furono chiamati ad affrontare le forze armate del Governo non con le armi alla mano, ma con una cessazione generale del lavoro, con una misura cioè che colpisce direttamente soltanto i singoli borghesi ma non il loro rappresentante generale: il potere dello Stato.

Per i marxisti lo sciopero generale ha una funzione estremamente preziosa. Non solo perché, fermando l’intera produzione, colpisce i capitalisti di ogni ordine e grado; ma soprattutto perché attraverso di esso, il proletariato prende coscienza della propria forza e del proprio ruolo insostituibile nella società. I lavoratori cessano di ragionare in termini di singole aziende o singole categorie e iniziano a riconoscersi come componenti di un’unica classe. Questa, però, è l’unica funzione che in sé e di per sé può avere uno sciopero generale. Esso, mostrando la forza della classe, rende palese qual’è la chiave del problema, ma non è la soluzione in sé. Se la produzione è il cuore del sistema, i suoi gangli nervosi risiedono nelle banche e nell’apparato dello Stato. E nessuno di questi viene minimamente intaccato da uno sciopero. Non solo: anche volendo trasformare lo sciopero generale in una gara di “resistenza” tra classi, la borghesia ha possibilità di sopportarne gli effetti molto più di quanto non ne abbia il proletariato. Quest’ultimo sarebbe colpito dalla penuria di merci creata dall’arresto della produzione prima di quanto non accada alla borghesia stessa. L’obiezione di Marx ed Engels alla teoria anarchica dello sciopero generale si poteva riassumere quindi in questi termini: lo sciopero generale mondiale ad oltranza non è di per sé risolutivo, e anche se lo fosse, non è realizzabile. Per metterlo in pratica il proletariato dovrebbe avere un grado di organizzazione e coscienza tale per cui, a quel punto, la rivoluzione sarebbe già cosa fatta da un pezzo.

Il fatto che lo sciopero generale non sia di per sé stesso un colpo mortale al sistema è stato in seguito imparato molto bene dalle burocrazie sindacali e dalla stessa borghesia. Le prime hanno finito spesso per utilizzarlo come valvola di sfogo delle mobilitazioni, la seconda si è limitata il più delle volte ad attendere che lo sciopero facesse il proprio corso, puntando a prendere il movimento per stanchezza. Ma questo, nella Germania del 1905, era ancora di là da venire: i vertici sindacali impedivano l’estensione della mobilitazione scimmiottando le argomentazioni di Engels. Il problema veniva posto in questi termini: visto che i lavoratori sindacalizzati in Germania sono “appena” un milione e mezzo, per poter arrivare a convocare lo sciopero generale ne mancano ancora all’appello dieci milioni.

Su queste basi Rosa Luxemburg si lanciò in una difesa spassionata di questa forma di lotta. Anzi, ne rivendicò il ruolo squisitamente politico. Se gli scioperi di categoria potevano essere efficaci quando si trattava di rivendicazioni contrattuali, quando si trattava di strappare cambiamenti politici riguardanti tutta la classe era necessaria una mobilitazione complessiva, di cui lo sciopero generale doveva essere la colonna portante. Le riflessioni di Rosa Luxemburg a riguardo furono riassunte un anno dopo nell’opuscolo Sciopero generale, partito e sindacati. Nei decenni successivi questo suo scritto fu isolato dal contesto e usato per accreditarla come una sostenitrice dello sciopero generale di principio”, accostandola alle posizioni anarchiche che abbiamo descritto. Niente di più falso. E’ sufficiente considerare quale fu il suo atteggiamento rispetto agli scioperi generali rivoluzionari che nello stesso anno si svilupparono in Russia:

lo sciopero generale è quasi fallito (…). Lo stato d’animo è dappertutto d’indecisione e di attesa. Ma la ragione di tutto questo è da ricercarsi nel semplice fatto che il puro sciopero generale ha compiuto la sua funzione. Ora soltanto un combattimento generale diretto per le strade potrà portare a qualche decisione, ma per questo bisogna ancora preparare il momento. (…) Può darsi poi che un caso qualunque, un nuovo manifesto o qualche cosa di simile porti improvvisamente a una crisi spontanea. In generale il lavoro e il morale sono ottimi, ma bisogna ancora far capire alle masse perché lo sciopero attuale si è svolto apparentemente “senza risultati”.

Anzi, Rosa notò come gli anarchici e i burocrati sindacali, pur giungendo a conclusioni opposte, partissero in fondo dallo stesso assunto: per entrambi lo sciopero generale era solo un problema di organizzazione. Questo era l’assunto da cui partivano sia “coloro, i quali vorrebbero proclamare in Germania lo sciopero generale, in un giorno fisso del calendario, con decreto della Direzione centrale, [sia] coloro i quali vorrebbero eliminare dal mondo il problema dello sciopero generale, proibendone la propaganda.”  La convocazione dello sciopero veniva fatta dipendere non dallo stato d’animo e l’ambiente presente nella classe, ma da una pura ginnastica propagandistica. Per gli anarchici era sufficiente una sorta di paziente catena di Sant’Antonio tra i lavoratori per avere sciopero generale e fine del sistema. I burocrati sindacali da par loro facevano notare come simile sforzo organizzativo fosse impossibile e con esso lo erano lo sciopero e la rivoluzione.

La polemica contro la moderazione dei vertici sindacali fu condotta attraverso i canali di partito. Non solo perché lì i rapporti di forza erano generalmente più favorevoli, ma anche perché la base dei militanti dell’Spd si era spostata a sinistra sotto l’influsso benefico della ripresa della lotta di classe. La questione fu perciò affrontata al Congresso del partito che si tenne a Jena nel settembre del 1905. La discussione non si limitò ad includere lo sciopero generale tra i possibili metodi di lotta, ma ribadì l’assoluto dovere di ogni iscritto all’Spd a difendere tali posizioni all’interno delle diverse organizzazioni sindacali di appartenenza: Ogni compagno di partito è impegnato, qualora nel suo ramo professionale sia presente o possa essere fondata un’organizzazione sindacale a entrarvi e appoggiare le mete e gli scopi dei sindacati. Ma ogni membro di sindacato fornito di coscienza di classe ha a sua volta il dovere di partecipare all’organizzazione politica della propria classe – la socialdemocrazia – e ad agire per la diffusione della stampa socialdemocratica.

Il dirigente sindacale Heine cercò di spaventare la platea congressuale prospettando come lo sciopero generale, una volta messe in moto le masse operaie meno coscienti, sarebbe “sfuggito di mano”. Chiese se forse il partito aveva un guinzaglio per tenere a bada i lavoratori non sindacalizzati. La risposta sprezzante della Luxemburg non si lasciòattendere:

non è alle masse che va messo il guinzaglio, ma agli avvocati parlamentari affinché non tradiscano le masse e la rivoluzione”.

Il Congresso di Jena registrò quindi una schiacciante vittoria dell’ala sinistra del partito. Ancora una volta, però, sotto le superficie le cose erano un po’ differenti. La mozione politica conclusiva era stata il frutto di una complicata mediazione. Sotto la pressione di Bebel, lo sciopero generale era stato relegato a una misura estrema, dal puro carattere difensivo e da utilizzare solo in caso di minaccia alle libertà democratiche: il Congresso dichiara che particolarmente nel caso di un attentato al suffragio universale, (…) o al diritto di associazione, è dovere di tutta la classe operaia applicare energicamente a difesa ogni mezzo che appaia appropriato. (…) Come uno dei mezzi più efficaci (…) il Congresso considera in questo caso: “la più comprensiva applicazione dell’astensione di massa dal lavoro”. In una lettera personale Rosa Luxemburg spiegò meglio la natura del compromesso raggiunto:

Come già altre volte noi “estrema sinistra” ci siamo visti costretti a combattere, malgrado le importanti differenze, non contro Bebel ma insieme a lui contro gli opportunisti. Prendere apertamente posizione contro la risoluzione Bebel a Jena, nel pieno della discussione, sarebbe stato un errore tattico da parte nostra. Era più importante dare alla risoluzione e in solidarietà con Bebel una coloritura rivoluzionaria mediante la discussione, e a questo siamo certamente riusciti, anche se il resoconto sul giornale dà un’idea molto pallida di questo risultato. Nella discussione lo sciopero generale è stato effettivamente trattato anche da Bebel (forse senza che egli stesso lo sapesse) come una forma della lotta rivoluzionaria di massa, e lo spettro della rivoluzione ha chiaramente dominato l’intero dibattito ed il congresso (…). Da un punto di vista tattico possiamo essere pienamente soddisfatti di questo risultato.

PETER NETTL, Op. Cit., p. 166.

ROSA LUXEMBURG, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano, 1963. pp. 268-272.

i Movimento operaio inglese dell’inizio dell’800 in lotta per il suffragio universale.

KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Marxismo e anarchismo, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp.99-102.

ROSA LUXEMBURG, Lettere ai Kautsky, Editori Riuniti, Roma, 1971. p.142.

ROSA LUXEMBURG, Lo sciopero generale, il partito e i sindacati, Edizioni Avanti, Milano, 1960.i ROSA LUXEMBURG, Scritti scelti, Edizioni Avanti!, Milano, 1963. pp. 291-292.

Ibidem.

PAUL FROLICH, Op. Cit., pp-163-164.

http://www.marxismo.net/Pdf/PdfDocRosa/ScioperoGenerale.pdf

 

Rosa Luxemburg

The Mass Strike, the Political Party
and the Trade Unions

(1906)


Written and first published: 1906.
Source: The Mass Strike, the Political Party and the Trade Unions by Rosa Luxemburg.
Publisher: Marxist Educational Society of Detroit, 1925.
Translated: Patrick Lavin.
Online Version: Rosa Luxemburg Internet Archive (marxists.org) 1999.
Transcription/Markup: A. Lehrer.


Contents:

The Russian Revolution, Anarchism and the General Strike
The Mass Strike, A Historical and Not an Artificial Product
Development of the Mass Strike Movement in Russia
The Interaction of the Political and the Economic Struggle
Lessons of the Working-Class Movement in Russia Applicable to Germany
Co-operation of Organised and Unorganised Workers Necessary for Victory
The Role of the Mass Strike in the Revolution
Need for United Action of Trade Unions and Social Democracy

 

I. The Russian Revolution, Anarchism and the General Strike

 

Almost all works and pronouncement of international socialism on the subject of the mass strike date from the time before the Russian Revolution [of 1905], the first historical experience on a very large scale with the means of struggle. It is therefore evident that they are, for the most part, out-of-date. Their standpoint is essentially that of Engels who in 1873 wrote as follows in his criticism of the revolutionary blundering of the Bakuninist in Spain:

“The general strike, in the Bakuninists’ program, is the lever which will be used for introducing the social revolution. One fine morning all the workers in every industry in a country, or perhaps in every country, will cease work, and thereby compel the ruling class either to submit in about four weeks, or to launch an attack on the workers so that the latter will have the right to defend themselves, and may use the opportunity to overthrow the old society. The proposal is by no means new: French and Belgian socialists have paraded it continually since 1848, but for all that is of English origin. During the rapid and powerful development of Chartism among the English workers that followed the crisis of 1837, the ‘holy month’ – a suspension of work on a national scale – was preached as early as 1839, and was received with such favour that in July 1842 the factory workers of the north of England attempted to carry it out. And at the Congress of the Alliancists at Geneva on September 1, 1873, the general strike played a great part, but it was admitted on all sides to carry it out it was necessary to have a perfect organisation of the working-class and a full war chest. And that is the crux of the question. On the one hand, the governments, especially if they are encouraged by the workers’ abstention from political action, will never allow the funds of the workers to become large enough, and on the other hand, political events and the encroachments of the ruling class will bring about the liberation of the workers long before the proletariat gets the length of forming this ideal organisation and this colossal reserve fund. But if they had these, they would not need to make use of the roundabout way of the general strike in order to attain their object.”

Here we have the reasoning that was characteristic of the attitude of international social democracy towards the mass strike in the following decades. It is based on the anarchist theory of the general strike – that is, the theory of the general strike as a means of inaugurating the social revolution, in contradistinction to the daily political struggle of the working-class – and exhausts itself in the following simple dilemma: either the proletariat as a whole are not yet in possession of the powerful organisation and financial resources required, in which case they cannot carry through the general strike; or they are already sufficiently well organised, in which case they do not need the general strike. This reasoning is so simple and at first glance so irrefutable that, for a quarter of a century, it has rendered excellent service to the modern labour movement as a logical weapon against the anarchist phantom and as a means of carrying out the idea of political struggle to the widest circles of the workers. The enormous strides taken by the labour movement in all capitalist countries during the last twenty-five years are the most convincing evidence of the value of the tactics of political struggle, which were insisted upon by Marx and Engels in opposition to Bakuninism and German social democracy, in its position of vanguard of the entire international labour movement is not in the least the direct product of the consistent and energetic application of these tactics.

The [1905] Russian Revolution has now effected a radical revision of the above piece of reasoning. For the first time in the history of the class struggle it has achieved a grandiose realisation of the idea of the mass strike and – as we shall discuss later – has even matured the general strike and thereby opened a new epoch in the development of the labour movement. It does not, of course, follow from this that the tactics of political struggle recommended by Marx and Engels were false or that criticism applied by them to anarchism was incorrect. On the contrary, it is the same train of ideas, the same method, the Engels-Marxian tactics, which lay at the foundation of the previous practice of the German social democracy, which now in the Russian Revolution are producing new factors and new conditions in the class struggle. The Russian Revolution, which is the first historical experiment on the model of the class strike, not merely does not afford a vindication of anarchism, but actually means the historical liquidation of anarchism. The sorry existence to which this mental tendency was condemned in recent decades by the powerful development of social democracy in Germany may, to a certain extent, be explained by the exclusive domination and long duration of the parliamentary period. A tendency patterned entirely upon the “first blow” and “direct action,” a tendency “revolutionary” in the most naked pitchfork sense, can only temporarily languish in the calm of parliamentarian day and, on a return of the period of direct open struggle, can come to life again and unfold its inherent strength.

Russia, in particular, appeared to have become the experimental field for the heroic deeds of anarchism. A country in which the proletariat had absolutely no political rights and extremely weak organisations, a many-coloured complex of various sections of the population, a chaos of conflicting interests, a low standard of education amongst the masses of the people, extreme brutality in the use of violence on the part of the prevailing regime – all this seemed as if created to raise anarchism to a sudden if perhaps short-lived power. And finally, Russia was the historical birthplace of anarchism. But the fatherland of Bakunin was to become the burial-place of his teachings. Not only did and do the anarchists in Russia not stand at the head of the mass strike movement; not only does the whole political leadership of revolutionary action and also of the mass strike lie in the hands of the social democratic organisations, which are bitterly opposed as “bourgeois parties” by Russian anarchists, or partly in the hands of such socialist organisations as are more or less influenced by the social democracy and more or less approximate to it – such as the terrorist party, the “socialist revolutionaries” – but the anarchists simply do not exist as a serious political tendency in the Russian Revolution. Only in a small Lithuanian town with particularly difficult conditions – a confused medley of different nationalities among the workers, an extremely scattered condition of small-scale industry, a very severely oppressed proletariat – in Bialystok, there is, amongst the seven or eight different revolutionary groups a handful of half-grown “anarchists” who promote confusion and bewilderment amongst the workers to the best of their ability; and lastly in Moscow, and perhaps in two or three other towns, a handful of people of this kidney make themselves noticeable.

But apart from these few “revolutionary” groups, what is the actual role of anarchism in the Russian Revolution? It has become the sign of the common thief and plunderer; a large proportion of the innumerable thefts and acts of plunder of private persons are carried out under the name of “anarchist-communism” – acts which rise up like a troubled wave against the revolution in every period of depression and in every period of temporary defensive. Anarchism has become in the Russian Revolution, not the theory of the struggling proletariat, but the ideological signboard of the counterrevolutionary lumpenproletariat, who, like a school of sharks, swarm in the wake of the battleship of the revolution. And therewith the historical career of anarchism is well-nigh ended.

On the other hand, the mass strike in Russia has been realised not as means of evading the political struggle of the working-class, and especially of parliamentarism, not as a means of jumping suddenly into the social revolution by means of a theatrical coup, but as a means, firstly, of creating for the proletariat the conditions of the daily political struggle and especially of parliamentarism. The revolutionary struggle in Russia, in which mass strikes are the most important weapon, is, by the working people, and above all by the proletariat, conducted for those political rights and conditions whose necessity and importance in the struggle for the emancipation of the working-class Marx and Engels first pointed out, and in opposition to anarchism fought for with all their might in the International. Thus has historical dialectics, the rock on which the whole teaching of Marxian socialism rests, brought it about that today anarchism, with which the idea of the mass strike is indissolubly associated, has itself come to be opposed to the mass strike which was combated as the opposite of the political activity of the proletariat, appears today as the most powerful weapon of the struggle for political rights. If, therefore, the Russian Revolution makes imperative a fundamental revision of the old standpoint of Marxism on the question of the mass strike, it is once again Marxism whose general method and points of view have thereby, in new form, carried off the prize. The Moor’s beloved can die only by the hand of the Moor.

http://www.marxists.org/archive/luxemburg/1906/mass-strike/index.htm

 

 

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