Il ritratto – Seconda Parte, Gogol

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Il ritratto – Seconda Parte

 IL RITRATTO, racconto integrale – Il porto ritrovato

Un gran numero di carrozze, calessi e carrozzini era fermo davanti all’ingresso di un’abitazione dove si effettuava la vendita all’asta degli oggetti di uno di quei ricchi amatori d’arte che per tutta la loro vita hanno dolcemente sonnecchiato, sprofondati fra gli Zefiri e gli Amorini, hanno avuto fama di innocenti mecenati, e ingenuamente hanno sperperato i milioni accumulati dai loro padri o magari da loro stessi col proprio lavoro negli anni giovanili.

Oggi di questi mecenati non se ne trovano più, e il nostro diciannovesimo secolo già da tempo ha assunto la noiosa fisionomia d’un banchiere che si gode i suoi milioni solo sotto forma di cifre allineate sulla carta.

La lunga sala era piena della più variopinta folla di visitatori accorsi come uccelli da preda su un cadavere insepolto. C’era tutta una schiera di mercanti russi del Gostìnyi Dvor e persino del mercato dei robivecchi, con i loro azzurri cappotti tedeschi.

Il loro aspetto e l’espressione delle facce erano in quell’ambiente in un certo senso più duri, liberi, non improntati a quell’affettato servilismo che è tanto evidente nel mercante russo quando sta in bottega davanti al cliente. Complimenti non ne facevano, sebbene nella stessa sala si trovasse un gran numero di quegli aristocratici dinanzi ai quali in altro luogo sarebbero stati pronti a spazzare a furia di inchini la polvere portata dai loro stivali. Si comportavano senza cerimonie, tastavano disinvolti i libri ed i quadri per constatare la bontà della merce e contestavano a voce alta il prezzo annunciato dagli esperti. Né mancavano i soliti appassionati d’arte, gente che ogni giorno, invece di andare a pranzo, va a un’asta; nobili intenditori, che ritengono doveroso non farsi sfuggire l’occasione di aumentare la propria collezione anche perché non hanno altro da fare da mezzogiorno all’una; ed, infine, degni signori il cui abito e le cui tasche sono assai male in arnese e che compaiono ogni giorno senza alcun fine interessato, ma unicamente per vedere come vanno le cose, chi dia di più, chi di meno, chi batta un altro sul prezzo e a chi resti un dato oggetto.

Una gran quantità di quadri era sparsa qua e là senza alcun criterio; ad essi si mescolavano mobili e libri con il monogramma del vecchio possessore, il quale forse non aveva avuto nemmeno la lodevole curiosità di darvi un’occhiata. Vasi cinesi, lastre di marmo per tavoli, mobili moderni e antichi dalle linee ricurve, con grifi, sfingi e zampe di leone, dorati e senza doratura, lampadari, lumi, tutto era ammassato, e non certo nell’ordine in cui lo si trova in un negozio. L’insieme dava insomma l’idea di una sorta di caos artistico. In generale la sensazione che si prova ad un’asta è terribile: in essa tutto fa pensare ad un funerale. La sala in cui si tiene l’asta è sempre tetra; le finestre, ingombre di mobili e di quadri, lasciano filtrare avaramente la luce. Il silenzio diffuso sulle facce e la funebre voce del banditore che batte col martello e canta le esequie alle povere arti così spietatamente raccolte in questo luogo, tutto ciò sembra rafforzare la sgradevole e bizzarra impressione.

L’asta era al suo culmine. Un’intera folla di gente perbene, che si spostava tutta insieme, discuteva a gara di qualcosa. Le parole “rubli, rubli, rubli” che echeggiavano da tutte le parti non davano al banditore il tempo di ripetere il prezzo raggiunto, che era già quadruplicato rispetto a quello d’apertura. La folla discuteva d’un ritratto che in verità non poteva non colpire chiunque avesse una minima nozione di pittura. In esso si avvertiva a prima vista lo stile vigoroso del pittore. Il ritratto, che doveva essere già stato innumerevoli volte restaurato e ritoccato, rappresentava un asiatico con i lineamenti olivastri, una larga veste, e il viso atteggiato a un’espressione strana, inconsueta; ma la gente intorno era soprattutto colpita dall’eccezionale vivezza degli occhi. Più li si guardava, più essi parevano penetrare nell’intimo stesso dell’osservatore.

Questa stranezza, quest’insolito giuoco dell’artista colpiva tutti. Ma già molti di coloro che se lo contendevano si erano ritirati, per l’altezza del prezzo ormai raggiunto. Erano rimasti in lizza solo due signori, due nobili conosciuti, amatori di pittura, che per nessun motivo intendevano rinunciare all’acquisto. Si erano scaldati e probabilmente avrebbero alzato il prezzo sino all’impossibile se improvvisamente uno dei presenti non avesse esclamato:

“Permettete che interrompa per un momento la vostra disputa. Forse io ho diritto a questo quadro più di chiunque altro.” Queste parole attirarono immediatamente su di lui l’attenzione di tutti.

Era un uomo slanciato, sui trentacinque anni, con lunghi riccioli neri. Il volto piacevole, pervaso da una sorta di luminosa spensieratezza, rivelava un’anima aliena dalle spossanti fatiche mondane; nel suo abbigliamento non c’era nessuna pretesa di seguire la moda: tutto manifestava in lui l’artista. Ed egli era appunto il pittore B., che molti dei presenti conoscevano di persona.

“Per quanto strane vi sembrino le mie parole,” continuò, vedendo l’attenzione generale rivolta su di lui, “se accettate di ascoltare una piccola storia, forse vi convincerete che avevo il diritto di pronunciarle. Tutto mi fa credere che questo ritratto è appunto quello che stavo cercando.” Una naturale curiosità si accese sulle facce dei presenti, e lo stesso banditore, spalancata la bocca, si fermò con il martello sollevato nella mano, accingendosi ad ascoltare. All’inizio del racconto molti rivolsero involontariamente gli occhi al ritratto, ma poi tutti li fissarono soltanto sull’artista via via che la sua storia diventava più interessante.

“Conoscete quel quartiere della città chiamato Kolòmna,” esordì.

“Là tutto è diverso dagli altri quartieri di Pietroburgo; non è provincia e non è capitale; quando passi per le strade di Kolòmna sembra che tutti i desideri e gli slanci giovanili ti abbandonino.

Là il futuro non esiste, e tutto è quiete e silenzio. In quel quartiere si trova tutto ciò che s’è tirato indietro dal movimento della capitale, si trasferiscono a vivere i funzionari in pensione, le vedove, le persone non ricche che hanno a che fare col Senato e perciò si sono condannate a vivere qui per tutta la vita; cuoche disoccupate che tutti i giorni si danno spintoni ai mercati, chiacchierano di sciocchezze con un contadino in una drogheria e comprano ogni giorno cinque copechi di caffè e quattro di zucchero. Insomma, quella categoria di persone che si può definire con una sola parola, “cinerea”; gente che nel vestito, viso, capelli, negli occhi ha un colorito spento, fioco, cinereo, appunto, come la giornata quando in cielo non c’è né tempesta né sole, ma semplicemente né questo né quello. Si aggiungano gli inservienti teatrali in pensione, i consiglieri titolari in pensione, i pupilli di Marte in pensione, privi di un occhio o con il labbro cascante.

Questa gente è indifferente a tutto: cammina senza guardare nulla, tace senza pensare a nulla. Nelle loro stanze non ci sono molte cose: talvolta soltanto un boccale di pura vodka russa, che essi sorseggiano monotonamente il giorno intero senza che dia loro alla testa, come accade invece al giovanotto di via Mescànskaja, l’artigiano tedesco, che nei giorni di festa se ne serve una robusta dose, e poi resta unico padrone di tutto il marciapiede dopo la mezzanotte.

“La vita a Kolòmna è tremendamente solitaria: raramente appare una carrozza, eccetto forse quella di una compagnia di attori; essa turba il generale silenzio con il suo strepito. Là tutti sono pedoni; molto spesso un vetturino di piazza si trascina senza clienti portando del fieno per il suo peloso cavalluccio. Si può trovare un alloggio per cinque rubli al mese, persino con il caffè al mattino. Le vedove con pensione rappresentano qui il ceto più aristocratico; esse si comportano bene, spazzano sovente la loro stanza, chiacchierano con le amiche del rincaro della carne di vitello e del cavolo. Spesso hanno una figlia giovane, una creatura silenziosa, intristita, non di rado graziosa; può darsi anche che abbiano un cagnolino e un orologio a muro con il pendolo che batte tristemente. Poi vengono gli attori ai quali lo stipendio non permette di andarsene da Kolòmna, gente libera, come tutti gli artisti che vivono per il piacere. Seduti in pigiama, essi puliscono la rivoltella, fanno ogni sorta di cosette utili per la casa incollando del cartone, giocano a dama e a carte con gli amici che vengono a trovarli, e così trascorrono la mattina e quasi lo stesso fanno la sera con l’aggiunta qualche volta di un punch. Dopo questa bella gente, questi aristocratici, a Kolòmna c’è la solita minutaglia e robetta.

E’ difficile distinguere tra questa com’è difficile contare la miriade di insetti che nasce nell’aceto vecchio. Ci sono vecchie che pregano; altre che si ubriacano; alcune che pregano e che si ubriacano nello stesso tempo; vecchie che campano con mezzi inimmaginabili, che come formiche trascinano stracci e biancheria dal ponte Kalinìn sino al mercato dei robivecchi cercando di venderli per quindici copechi. Detto tra noi, si tratta del più infelice sedimento dell’umanità, di cui nessun benefico amministratore potrebbe in alcun modo migliorare la sorte. Ho parlato di questa gente per farvi capire che spesso essa si trova nella necessità di avere sia pure solo un aiuto temporaneo, ma immediato, ossia di ricorrere a prestiti; ragione per cui fra loro s’insediano usurai d’ogni genere, che li forniscono di piccole somme su pegno e dietro forti interessi. Questi piccoli usurai sono molto peggiori di quelli importanti, perché spuntano in mezzo alla povertà e agli stracci più miserabili sciorinati al sole, a differenza dell’usuraio ricco, il quale ha a che fare solamente con persone che arrivano da lui in carrozza. Troppo presto muore nelle loro anime ogni sentimento d’umanità. Fra questi usurai ce n’era uno… ma è necessario premettere che la storia che vi racconto risale al secolo scorso e precisamente al regno di Caterina seconda. Sapete da voi che l’aspetto del quartiere Kolòmna e la vita che vi si svolge sono oggi molto cambiati.

Dunque fra quegli usurai ce n’era uno che appariva come un essere insolito sotto tutti gli aspetti. Si era stabilito da tempo in quella parte della città. Andava in giro con un’ampia veste asiatica; il colore scuro del viso indicava la sua provenienza meridionale, ma nessuno avrebbe potuto dire con sicurezza se fosse indiano, greco o persiano. L’alta statura, quasi eccezionale, la faccia abbronzata, magra, riarsa e il colorito inconcepibile, pauroso della sua pelle; i grandi occhi d’un fuoco non comune, i folti sopraccigli pendenti, tutto ciò lo distingueva nettamente da tutti i grigi abitanti della capitale. La sua stessa abitazione non assomigliava alle altre piccole casette di legno. Era una costruzione di pietra del tipo di quelle che una volta costruivano i mercanti genovesi, con finestre irregolari, di diversa grandezza, con imposte e catenacci di ferro. Quest’usuraio era diverso dagli altri per il fatto che poteva rifornire chiunque di qualsiasi somma, una vecchia in miseria o un dignitario di corte dalle tasche bucate. Davanti alla sua casa si vedevano non di rado lussuose carrozze, dai cui finestrini occhieggiava un’elegante dama di mondo. Correva fama che i suoi forzieri di ferro fossero colmi di denaro, preziosi, brillanti e pegni d’ogni genere, al punto da non poterli contare, e che tuttavia egli non avesse l’avidità che è propria agli altri usurai. Concedeva denaro volentieri, fissando in apparenza vantaggiosi termini di pagamento. Attraverso curiosi calcoli aritmetici, faceva salire gli interessi a percentuali spropositate. Così, almeno, dicevano le voci.

La cosa più straordinaria, tuttavia, e tale da stupire molti, era lo strano destino di tutti quelli che ottenevano denaro da lui:

tutti, infatti, terminavano la vita in modo infelice. Fosse semplicemente l’opinione della gente, assurda superstizione, o voce diffusa ad arte, tuttora non si sa. Diversi esempi, verificatisi comunque in un breve periodo di tempo davanti agli occhi di tutti, erano vivi e sbalorditivi.

Nell’ambiente aristocratico d’allora aveva in poco tempo attirato su di sé l’attenzione di tutti un giovane d’ottima famiglia, il quale già nella sua età giovanile s’era distinto nel campo delle attività di governo, ardente estimatore di ogni cosa elevata, appassionato di tutto ciò che ha creato l’arte e l’intelligenza dell’uomo, promettente futuro mecenate. Ben presto egli fu notato dalla stessa imperatrice, la quale gli affidò un posto importante, in armonia con le sue aspirazioni, un posto dove poteva fare molto per le scienze e per le arti in genere. Il giovane dignitario si circondò di artisti, di poeti, di scienziati. Voleva dare a tutti un lavoro, incoraggiare tutti. Iniziò a proprie spese un grande numero di utili pubblicazioni, distribuì molte commissioni, annunciò premi d’incoraggiamento, gettò in questa attività grande quantità di denaro e, infine, cadde in miseria. Pieno di magnanimo slancio, non volle rinunciare alla propria impresa; dappertutto cercava denaro in prestito e infine si rivolse al celebre usuraio.

Dopo aver contratto con lui un notevole prestito, in poco tempo quest’uomo mutò completamente: diventò un oppressore, un persecutore dell’intelligenza e del talento. In tutte le opere cominciò a vedere un aspetto negativo, interpretava falsamente ogni parola. Proprio in quel tempo, purtroppo, ci fu la rivoluzione francese.

Questo gli servì di pretesto per tutte le possibili infamie.

Cominciò a vedere in tutto un indirizzo rivoluzionario, in tutto gli sembrava di scorgere allusioni. Diventò sospettoso al punto che, alla fine, sospettò persino di se stesso e cominciò a compilare terribili, ingiuste denunce, a creare un gran numero d’infelici. Va da sé che la voce di simili azioni non poteva, a un certo punto, non arrivare sino al trono. La magnanima imperatrice ne fu atterrita e, piena di quella nobiltà d’animo che abbellisce i regnanti, pronunciò parole che non hanno potuto arrivare sino a noi con assoluta esattezza, ma il cui profondo significato s’impresse nel cuore di molti. L’imperatrice osservò che sotto il governo monarchico non si opprimono gli alti e nobili slanci dell’animo, non si disprezzano e perseguitano le opere dell’intelligenza, della poesia e delle arti; che, al contrario, proprio i monarchi sono sempre stati i protettori di queste cose; che gli Shakespeare, i Molière, sono fioriti sotto la loro magnanima protezione, mentre Dante non poté trovare un angolo dove ripararsi nella sua patria repubblicana. Disse che i veri geni nascono nei periodi di splendore e di potenza dei regnanti e degli Stati e non nei tempi di fenomeni politici mostruosi e di terrorismo repubblicano, che finora non hanno donato al mondo un solo poeta. Sostenne che occorre dare un riconoscimento ai poeti e agli artisti, visto che inducono nell’anima la pace e il silenzio della bellezza, e non l’agitazione e le mormorazioni; che gli scienziati, i poeti e tutti i creatori d’arte sono perle e diamanti della corona imperiale e l’epoca d’un grande regnante ne è abbellita e ne riceve ancora maggior splendore. Insomma, pronunciando quelle parole, l’imperatrice fu in quel momento divinamente magnifica. Ricordo che i vecchi non potevano parlare di questo senza lacrime. Tutti si sentirono colpiti da quelle parole. Ad onore del nostro orgoglio nazionale vale la pena di notare che nel cuore russo sempre alberga il bellissimo sentimento che spinge a prendere le parti dell’oppresso. Il dignitario che aveva tradito la fiducia in lui riposta fu esemplarmente punito e allontanato dal suo posto. Ma egli lesse una punizione assai più terribile sui volti dei suoi compatrioti. Era un disprezzo definitivo e generale. Non si può dire quanto soffrisse quell’anima vanagloriosa; orgoglio, amor proprio deluso, speranze che crollavano: tutto si mescolava e la sua vita terminò fra attacchi di spaventosa follia e di furore.

“Un altro esempio stupefacente accadde anch’esso sotto gli occhi di tutti.

Fra le belle donne di cui allora non era povera la nostra nordica capitale, una aveva decisamente conquistato la supremazia su tutte. Era una specie di meravigliosa fusione della nostra bellezza settentrionale con la bellezza del mezzogiorno, un brillante come se ne vedono di rado al mondo. Mio padre confessava che in tutta la sua vita non aveva mai visto niente di simile.

Tutto pareva essersi fuso in lei: la ricchezza, l’intelligenza e il fascino dell’anima. I pretendenti erano una folla e fra loro maggiormente in vista il principe R., il più nobile, il migliore dei giovani, il più bello sia nel volto che per i magnanimi e cavallereschi impulsi, perfetto ideale dei romanzi e delle donne, un Grandinson sotto tutti gli aspetti. Il principe, innamorato in modo appassionato e folle, era corrisposto da un amore altrettanto ardente. Ma il partito non sembrava abbastanza buono ai parenti della ragazza. Le tenute avite del principe da tempo ormai non gli appartenevano più, la famiglia era in disgrazia e la cattiva situazione dei suoi affari, nota a tutti. D’improvviso il principe lasciò la capitale, per andare a riassestare i suoi affari; ricomparve dopo non molto tempo, circondato da un lusso e da uno splendore incredibili. I suoi balli e le sue feste sfavillanti lo rendono noto a corte. Il padre della ragazza si convince e così si celebra uno splendido matrimonio. Nessuno sapeva spiegare con certezza a cosa attribuire quel cambiamento e l’inaudita ricchezza dello sposo; ma si diceva sotto sotto che egli avesse concluso un patto con un misterioso usuraio. Comunque fosse, il matrimonio interessò l’intera città. Sia lo sposo che la sposa erano oggetto dell’invidia generale. A tutti era noto il loro ardente, tenace amore, i lunghi struggimenti sofferti da entrambi, le alte qualità di tutti e due. Le donne appassionate si figuravano già in anticipo le delizie paradisiache che avrebbero assaporato i giovani coniugi. Tutto andò diversamente. Nello spazio di un anno nel marito avvenne un terribile mutamento. Il veleno di una gelosia sospettosa, dell’intolleranza e di inesauribili capricci contagiò quel carattere fino allora nobile e buono. Divenne il tiranno e il torturatore di sua moglie e, cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere, ricorse alle azioni più disumane, persino alle percosse. In un solo anno nessuno avrebbe più riconosciuto quella donna che ancora poco tempo prima brillava e attirava folle di docili spasimanti. Finalmente, non avendo la forza di sopportare oltre il suo pesante destino, ella parlò di divorzio.

Il marito montò su tutte le furie al solo pensiero.

Nel suo primo gesto di rabbia fece irruzione nella stanza della moglie con un coltello e l’avrebbe senza dubbio scannata su due piedi se non l’avessero trattenuto e fermato. Allora, in un impulso di frenesia e di disperazione, rivolse il coltello contro di sé e terminò la sua vita fra i più spaventosi tormenti.

“Oltre a questi due esempi, avvenuti sotto gli occhi di tutta la buona società, se ne raccontavano moltissimi accaduti nelle classi inferiori, quasi tutti conclusi in modo terribile. Un uomo sobrio e onesto diventava un ubriacone; un commesso di mercante derubava il proprio padrone; un vetturino che per anni aveva lavorato onestamente, uccideva per pochi centesimi il cliente. Era naturale che simili avvenimenti, raccontati spesso con le debite aggiunte, suscitassero una specie d’involontario terrore fra i modesti abitanti di Kolòmna. Nessuno dubitava della presenza d’una forza demoniaca in quell’uomo. Dicevano che egli proponesse condizioni che facevano rizzare i capelli in testa tant’è che l’infelice non osava mai riferire a nessuno; che il suo denaro avesse una proprietà magnetica, che si arroventasse da solo e avesse certi strani segni… insomma, correvano voci assurde d’ogni genere. Ed è sintomatico il fatto che tutta la popolazione di Kolòmna, tutto quel mondo di vecchie in miseria, di piccoli funzionari, di mediocri artisti e, insomma, d’ogni genere di minutaglia, di cui ho testè parlato, preferisse sopportare la miseria più squallida piuttosto che rivolgersi al terribile usuraio.

Erano state trovate morte di fame delle vecchie, rassegnate a lasciar estinguere il proprio corpo piuttosto di uccidere l’anima.

Incontrandolo per strada, la gente provava un inconscio terrore.

Il passante indietreggiava cautamente e poi si voltava ancora a lungo, seguendo la sua altissima figura che si dileguava lontano.

Il suo stesso aspetto era così insolito che chiunque era spinto suo malgrado ad attribuirgli facoltà soprannaturali. Quei lineamenti forti, intagliati così profondamente come non accade di vederne in un essere umano; l’ardente, bronzeo colore del volto; l’incredibile foltezza dei sopraccigli; gli occhi terribili e dallo sguardo insostenibile; e persino le larghe pieghe della sua veste asiatica, tutto pareva dire che, rispetto alle passioni che si agitavano in quel corpo, le passioni degli altri erano sbiadite. Mio padre si fermava e restava immobile ogni volta che lo incontrava ed ogni volta non sapeva trattenersi dall’esclamare:

‘Un diavolo, un vero diavolo!’ “Ma occorre che vi presenti mio padre, che fra l’altro è il vero soggetto di questa storia. Era un uomo notevole, sotto molti riguardi. Un artista come ce ne sono pochi, uno di quei prodigi che solamente la Russia fa uscire dalle sua intatte viscere, un artista autodidatta, che da solo, senza maestri e scuole, aveva trovato nella propria anima le regole e le leggi, affascinato solamente dalla sete di perfezione, e che, per ragioni che forse neppure egli conosceva, seguiva sempre e soltanto la strada indicatagli dall’anima. Era uno di quei fenomeni spontanei che sovente i contemporanei gratificano dell’offensivo epiteto di “ignoranti”, e che non si scoraggiano per gli scherni e gli insuccessi, ma anzi ne traggono nuovo slancio e nuove forze, e arrivano a superare in se stessi le opere per cui furono chiamati ignoranti. Con un istinto interiore egli fiutava la presenza di un’idea in ogni oggetto; da solo aveva compreso l’autentico significato dell’espressione: “pittura storica”, mentre un enorme quadro di soggetto storico rimane comunque sempre un tableau de genre, per quanto l’artista pretenda di fare della pittura storica. Sia il sentimento interiore, sia le sue personali convinzioni avevano rivolto il suo pennello ai soggetti cristiani, supremo ed ultimo grado dell’eccelso. Non era ambizioso e suscettibile, caratteri che si ritrovano cosi spesso in molti artisti. Di indole ferma, era un uomo onesto, rettilineo, persino rozzo, esteriormente coperto d’una scorza piuttosto dura, non privo d’un certo orgoglio; nei confronti degli altri si esprimeva con indulgenza e asprezza insieme. ‘Cosa vuoi che li guardi,’ diceva solitamente, ‘non è per loro che lavoro. Non è in salotto che porto i miei quadri, ma li metteranno in una chiesa. Chi li capirà, mi ringrazierà; chi non li capirà, pregherà ugualmente Dio. Non si può incolpare l’uomo di mondo, egli non s’intende di pittura; s’intende di carte da gioco, è esperto di buoni vini, di cavalli; perché un signore dovrebbe saperne di più? Se poi vuole assaggiare questo e quello, e se ne va in giro a sputare sentenze, non ti lascia più vivere! A ciascuno il suo, che ciascuno si occupi del suo. Secondo me, è meglio chi ti dice apertamente di non capirne nulla, di chi fa l’ipocrita, dice di sapere ciò che non sa e riesce solo a rovinare e sciupare tutto.’ Dipingeva per pochi soldi, per quanto gli era necessario per il sostentamento della famiglia e per portare avanti il lavoro. Non rifiutava mai di aiutare gli altri o di porgere una mano a un pittore povero; credeva con la fede semplice e pia degli avi; per questo, forse, dai volti dipinti da lui emanava naturalmente quell’espressione elevata che ingegni anche più brillanti non riescono a raggiungere. Insomma, con la costanza del suo lavoro e la fedeltà alla via che egli stesso s’era tracciata, cominciò a conquistare anche il rispetto di quelli che l’avevano chiamato ignorante e autodidatta casalingo. Aveva continue commissioni per le chiese e il lavoro non gli mancava mai. Uno di questi lavori lo impegnò fortemente. Non ricordo più in che cosa precisamente consistesse il soggetto, so soltanto che nel quadro bisognava raffigurare lo spirito delle tenebre. Egli pensò a lungo a quale aspetto dargli; voleva che il suo volto esprimesse tutto ciò che angoscia e opprime l’uomo. Durante queste riflessioni gli veniva talvolta in mente l’immagine del misterioso usuraio ed egli pensava senza volerlo: ‘Ecco chi dovrei dipingere in veste di diavolo.’ Giudicate dunque del suo stupore quando una volta, mentre lavorava nel suo studio, udì bussare alla porta e subito dopo vide venire verso di lui il terribile usuraio. Mio padre sentì come un fremito interno che gli percorse tutto il corpo.

‘Sei pittore?’ chiese senza tanti complimenti l’usuraio a mio padre.

‘Sì, pittore,’ rispose mio padre perplesso, aspettando di vedere cosa ne sarebbe seguito.

‘Bene. Fammi il ritratto. Forse io presto morirò, non ho figli; ma non voglio morire del tutto, voglio vivere ancora. Puoi dipingere un ritratto che sia veramente vivo?’ Mio padre pensò: ‘Che c’è di meglio? E’ lui stesso che chiede di fare da diavolo nel mio quadro.’ Diede la sua parola. Si misero d’accordo sul tempo e sul prezzo e il giorno dopo, presi i pennelli e la tavolozza, mio padre era già dall’usuraio. L’alto cortile, i cani, le porte e i catenacci di ferro, le finestre ad arco, i forzieri ricoperti di strani tappeti e, infine, lo stesso non comune padrone che stava seduto davanti a lui, tutto questo gli produsse una strana impressione. Come a farlo apposta, le finestre erano ostruite dal basso all’alto da cumuli di roba ammucchiata, sicché davano luce soltanto alla sommità. ‘Al diavolo, com’ è bene illuminata ora la sua faccia!’ si disse mio padre e si accinse rapidamente a dipingere, come temendo che quella felice illuminazione scomparisse. ‘Che forza!’ ripeté fra sé, ‘se mi riesce di ritrarlo anche solo in parte com’è ora, questo mi ammazza tutti i miei santi e angeli! Li fa impallidire tutti! Che forza demoniaca! Se posso avvicinarmi al vero anche solo un poco, questo mi salta fuori dalla tela. Che lineamenti straordinari!’ ripeteva di continuo, accrescendo il suo zelo, e già vedeva come certi tratti cominciassero a passare sulla tela.

Ma, quanto più si avvicinava a quei lineamenti, tanto più provava una sorta d’oppressione e d’ansia, che gli riusciva incomprensibile. Malgrado ciò, si propose di perseguire con fedeltà letterale ogni più minuta fattezza ed espressione. Prima di tutto volle portare a compimento gli occhi. In quegli occhi c’era tanta forza che pareva non si potesse nemmeno pensare di renderli fedelmente, così com’erano in realtà. Decise comunque di scoprire in essi anche l’ultima e minima sfumatura, di carpirne il segreto… Ma, appena cominciò ad entrare, a inoltrarsi in essi con il pennello, nella sua anima nacque una così strana repulsione, un così incomprensibile senso di angoscia, che per un certo tempo dovette posare il pennello; solo dopo un poco poté riprenderlo e mettersi di nuovo al lavoro. Alla fine non poté più resistere; sentiva che quegli occhi gli si conficcavano nell’anima e vi producevano un’agitazione indicibile. Il secondo, il terzo giorno questa sensazione fu ancor più forte. Cominciò ad avere paura. Lasciò il pennello e disse senza mezzi termini che non poteva più dipingere. Bisognava vedere come cambiò a quelle parole lo strano usuraio. Gli si gettò ai piedi e lo supplicò di terminare il ritratto, dicendo che da questo dipendevano il suo destino e la sua esistenza al mondo, che con il suo pennello lui aveva già sfiorato i suoi tratti vivi; che, se li avesse resi con fedeltà, la sua vita, per forza soprannaturale, sarebbe rimasta nel ritratto, e lui non sarebbe mai morto del tutto, perché doveva continuare ad esser presente nel mondo. Mio padre provò orrore a queste parole. Gli parvero talmente strane e terribili, che gettò via tavolozza e pennelli e si precipitò all’impazzata fuori della stanza. Il pensiero di ciò che era accaduto lo agitò per tutta la giornata e per tutta la notte. Il mattino dopo, ricevette da parte dell’usuraio il ritratto, portatogli da una donna, l’unica persona al suo servizio, la quale dichiarò che il padrone non voleva più il ritratto, non gli avrebbe pagato nulla e glielo mandava indietro. Tutto questo gli sembrò molto strano. Da quel momento, il carattere di mio padre cominciò a cambiare: sentiva un’inquietudine, un’ansia, di cui non sapeva capire la causa, e ben presto commise un atto che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui. Da un certo tempo i lavori d’un suo allievo avevano cominciato ad attrarre l’attenzione di una piccola cerchia di conoscitori e amatori. Mio padre aveva sempre visto in lui del talento e per questo l’aveva seguito con particolare simpatia.

Improvvisamente provò per lui invidia. La simpatia di tutti per quel giovane, il bene che se ne diceva, gli diventarono insopportabili. Infine, a compimento del suo disappunto, venne a sapere che al suo allievo era stato proposto di dipingere un quadro per una ricca chiesa di nuova costruzione. Questo lo fece esplodere: ‘No, non lascerò che quel poppante trionfi!’ disse.

‘Troppo presto s’è messo in testa di gettare i vecchi nel fango!

Ho ancora forza, grazie a Dio. Vedremo chi cascherà prima nel fango!’ E quell’uomo rettilineo, d’animo onesto, ricorse a intrighi e manovre di cui fino allora aveva sempre avuto ripugnanza; ottenne infine che per il quadro fosse bandito un concorso e vi potessero partecipare anche altri artisti coi loro lavori. Dopo di che si chiuse nella sua stanza e s’impegnò con ardore nella pittura.

Pareva che volesse mettervi tutte le sue forze, tutto se stesso.

Ed effettivamente ne uscì una delle sue opere migliori.

Nessuno dubitava che il primato spettasse a lui. Vennero presentati i quadri e tutti sembrarono come la notte rispetto al giorno in confronto al suo. Quando ad un tratto uno dei giudici presenti, se non sbaglio un religioso, fece un’osservazione che stupì i presenti:

‘Effettivamente in questo quadro c’è molto talento,’ disse, ‘ma non c’è santità nei volti; al contrario, c’è persino qualcosa di demoniaco negli occhi, come se un sentimento impuro avesse guidato la mano dell’artista.’ Tutti guardarono e non poterono non persuadersi della verità di queste parole. Mio padre si precipitò avanti, verso il suo quadro, come per difenderlo da un’osservazione così offensiva; ma vide con orrore che a quasi tutte le figure aveva dato gli occhi dell’usuraio. Essi guardavano in modo così diabolicamente distruttivo, che lui stesso tremò. Il quadro venne respinto e, con sua indescrivibile stizza, vide che la preferenza veniva data al suo allievo. Non è possibile dire il furore in preda al quale fece ritorno a casa. Per poco non percosse mia madre, cacciò via i figli, spezzò pennelli e tavolozza, chiese un coltello, afferrò dalla parete il ritratto dell’usuraio, e ordinò di accendere il fuoco nel camino con l’intenzione di bruciarlo. Così lo trovò un amico entrato in quel momento nella stanza, anche lui pittore, buontempone sempre contento di sé, che non si poneva mai mete irrealizzabili, che faceva allegramente qualunque cosa e ancor più allegramente si dedicava a pranzi e banchetti.

‘Che fai, cosa vuoi bruciare?’ disse, e si avvicinò al ritratto.

‘Caspita, ma questa è una delle tue opere migliori! E’ quell’usuraio morto da poco; mi sembra molto bello, perfetto direi. Non solo l’hai fatto identico, ma gli sei entrato negli occhi. Quegli occhi in vita non hanno mai guardato così come guardano adesso.’ ‘Ora starò a vedere come guarderanno quando saranno dentro il fuoco,’ disse mio padre facendo il gesto di scaraventare il ritratto nel caminetto.

‘Fermati, per amore di Dio!’ disse l’amico trattenendolo. ‘Dallo piuttosto a me, se ti offende a tal punto la vista.’ Dapprima mio padre si oppose, ma infine acconsentì e il buontempone, felicissimo del suo acquisto, si portò il ritratto a casa.

Appena se ne fu andato, di colpo mio padre si sentì più tranquillo. Come se, insieme al ritratto, gli fosse caduto un peso dall’anima. Si stupì allora dei suoi bassi sentimenti, della sua invidia, e del palese mutamento del suo carattere. Esaminato il proprio modo di agire, fu preso dalla tristezza e non senza un’intima afflizione disse:

‘E’ stato Dio a punirmi; il mio quadro ha subìto un’onta meritata.

L’avevo ideato per danneggiare un fratello. E’ stato il sentimento infernale dell’invidia a guidare il mio pennello, ed era giusto che un sentimento infernale si riflettesse nel quadro.’ Si recò immediatamente dal suo ex allievo, lo abbracciò con forza, gli chiese perdono e cercò in ogni modo di cancellare la sua colpa davanti a lui. Ricominciò a lavorare tranquillamente; ma il suo viso diventava sempre più pensieroso. Pregava di più, era più spesso taciturno e non s’esprimeva più così bruscamente sulle persone; la stessa apparenza rozza del suo carattere in un certo senso si raddolcì. Ben presto una circostanza lo scosse ancora di più. Da tempo non vedeva il collega che gli aveva chiesto il ritratto. Un giorno, mentre si accingeva ad andarlo a trovare, d’improvviso questi entrò nella sua stanza. Dopo alcuni preamboli, l’amico disse: ‘Bene, mio caro, avevi ragione di voler bruciare il ritratto. Il diavolo lo porti, ha qualcosa di strano… Io non credo alle streghe, ma, dimmi quello che ti pare, in esso c’è una forza impura…’ ‘Come?’ disse mio padre.

‘Già, da quando l’ho appeso in casa, ho cominciato a sentire una tale oppressione… come se avessi voglia di ammazzare qualcuno.

In vita mia non ho mai conosciuto che cosa fosse l’insonnia e invece non solo soffro di questo male, ma faccio certi sogni…

non saprei dire nemmeno se si tratti di sogni… è come se un folletto venisse a strangolarmi; e poi ho sempre la visione di quel maledetto vecchio. Insomma, mi è difficile descriverti cosa provo. Non mi era mai successo nulla di simile. Per tutti questi giorni ho vagato come un pazzo: sentivo una specie di paura, quasi mi aspettassi qualcosa di sgradevole. Sentivo che non potevo dire a nessuno una parola allegra e sincera, come se avessi sempre accanto qualcuno, una spia. Solo da quando ho dato il ritratto ad un nipote che me l’ha chiesto, mi è sembrato che mi cadesse una pietra dalle spalle: tutt’a un tratto mi sono sentito allegro, come puoi vedere. Già, mio caro, hai fatto un diavolo!’ Durante questo racconto mio padre lo ascoltò con un’attenzione che nulla poteva distrarre e infine domandò:

‘E il ritratto adesso è da tuo nipote?’ ‘Macché dal nipote! Non ha resistito!’ disse il buontempone. ‘Si vede che ci si è proprio trasferita dentro l’anima dell’usuraio:

salta fuori dalla cornice, passeggia per la stanza; e quel che mi ha raccontato mio nipote è semplicemente inconcepibile. L’avrei preso per matto se in parte non avessi provato anch’io le stesse sensazioni. L’ha ceduto ad un collezionista di quadri, ma nemmeno quello ha resistito e l’ha venduto.’

Questo racconto produsse una forte impressione su mio padre.

S’impensierì seriamente, cadde in uno stato d’ipocondria ed infine si convinse definitivamente che il suo pennello fosse servito da strumento del diavolo, che una parte della vita dell’usuraio fosse passata in qualche modo nel ritratto e turbasse adesso la gente, suscitando impulsi diabolici, facendo deviare gli artisti dalla loro strada, suscitando i terribili tormenti dell’invidia, e così via. Tre disgrazie sopravvenute, la morte improvvisa della moglie, della figlia e d’un figlio piccolo, furono da lui considerate un castigo celeste, ed egli decise di abbandonare il mondo. Non appena compii i nove anni, mi collocò presso l’Accademia delle Arti e, fattosi pagare da tutti i debitori, si ritirò in un eremo lontano dove ben presto si fece monaco. Là, con il rigore della sua vita, con l’incessante osservanza di tutte le regole monastiche, stupì tutta la confraternita. Il priore del monastero, avendo saputo dell’arte del suo pennello, gli chiese di dipingere l’immagine grande della chiesa. Ma l’umile fratello disse categoricamente che non era degno di prendere in mano il pennello, perché esso era contaminato; che doveva purificare la propria anima con la fatica e le privazioni, prima di essere degno di accingersi a un’opera simile. Per quanto poteva, aggravava il rigore della vita monastica. Ma alla fine neanche questo gli bastò, neanche questa condizione gli sembrò abbastanza severa, e con la benedizione del priore si ritirò nel deserto per vivervi completamente solo. Là si costruì una rozza capanna, si nutrì soltanto di radici crude, trascinò pietre da un luogo all’altro, rimase immobile nello stesso posto, dal sorgere del sole al tramonto, con le mani protese verso il cielo, pregò senza tregua.

Per farla breve, ricercò le prove più dure, quell’irraggiungibile rinuncia a se stesso i cui esempi si possono trovare solo nelle vite dei santi. Mortificò a lungo, durante molti anni, il proprio corpo, temprandolo nello stesso tempo con la forza vivificante della preghiera. Infine, un giorno ritornò all’eremo e disse con fermezza al priore: ‘Adesso sono pronto. Se a Dio piace, eseguirò il mio lavoro.’ Il tema che scelse era la natività di Gesù. Vi lavorò un anno senza uscire dalla sua cella, nutrendosi di parco cibo, pregando di continuo. Allo scadere di dodici mesi il quadro era pronto. Era un miracolo del pennello. E’ bene sapere che né i confratelli né il priore avevano grandi cognizioni di pittura, eppure tutti furono sbalorditi dall’eccezionale santità delle figure. Il sentimento di divina mitezza e umiltà sul viso della Madre purissima china sul neonato, la profonda pensosità negli occhi del divino fanciullo, che parevano penetrare nel futuro, il solenne silenzio dei Re Magi colpiti dal divino miracolo e prosternati ai suoi piedi; e, infine, la sacra ineffabile calma di cui era soffuso l’intero quadro, tutto questo apparve con tanta armoniosa forza e potente bellezza che l’impressione fu magica. L’intera comunità cadde in ginocchio di fronte alla nuova immagine e il priore commosso disse:

‘Un uomo, con l’aiuto della sola arte umana, non può creare un quadro simile: una santa forza superiore ha guidato il tuo pennello e la benedizione del cielo riposa nella tua fatica.’ In quel tempo io terminai gli studi all’Accademia. Ottenni la medaglia d’oro e, insieme con essa, la gioiosa speranza d’un viaggio in Italia: il sogno più bello per un artista ventenne. Mi restava soltanto da congedarmi da mio padre, dal quale ero separato ormai da dodici anni. Avevo molto sentito dire della santità della sua vita, e m’immaginavo di trovare un anacoreta incartapecorito, estraneo ad ogni cosa al mondo eccetto la sua cella e la preghiera, macerato, inaridito dai digiuni e dalle veglie. Come mi meravigliai invece quando vidi davanti a me un vecchio meraviglioso, quasi divino! Sul suo volto non si scorgeva traccia di privazioni: esso scintillava della luce della beatitudine celeste. La barba bianca come la neve e i capelli sottili, quasi aerei, dello stesso colore argenteo, si spandevano in modo pittoresco sul petto e sulle pieghe della tonaca nera e cadevano fino alla cintura che cingeva il suo povero abito monastico, ma più sorprendente di tutto fu per me sentire dalle sue labbra parole e pensieri sull’arte che, vi assicuro, custodirò a lungo nell’anima con il sincero desiderio che ogni mio collega faccia lo stesso.

‘Ti aspettavo, figlio mio, diss’egli quando mi accostai per averne la benedizione. ‘Ti attende il cammino per il quale d’ora innanzi procederà la tua vita. Il tuo cammino è pulito, non deviare da esso. Tu hai talento; il talento è un dono prezioso di Dio, non ucciderlo. Esplora, studia ogni cosa, assoggetta al pennello tutto ciò che vedi, ma in tutto sappi trovare l’idea interiore e in primo luogo sforzati di comprendere il grande mistero della creazione. Beato l’eletto che lo possiede. Per lui non v’è soggetto spregevole nella natura. Nell’insignificante, l’artista creatore è grande come nell’eccelso; la cosa più bassa per lui non è bassa, perché invisibilmente trapela in essa l’anima meravigliosa di chi crea, e la cosa bassa viene così sublimemente espressa, perché passa attraverso il purgatorio della sua anima.

Nell’arte, è racchiusa un’allusione al divino, al paradiso celeste, e già per questo essa è più alta d’ogni altra cosa. E quanto la quiete solenne è più alta d’ogni agitazione mondana, la creazione della distruzione, l’angelo con la sola pura innocenza della sua anima luminosa di tutte le innumerevoli forze e le orgogliose passioni di Satana, tanto una sublime creazione dell’arte è più alta d’ogni altra cosa che esista al mondo.

Sacrificale tutto e amala con passione, non con la passione che alita terrestre concupiscenza, ma con la quieta passione celeste; senza di essa l’uomo non ha il potere di sollevarsi da terra e non può emettere i mirabili suoni che danno la pace. Poiché è per acquietare e pacificare che scende nel mondo la sublime opera d’arte. Essa non spinge l’anima all’insoddisfazione, ma con risonante preghiera eternamente tende a Dio. Ma vi sono momenti, oscuri momenti… ‘ Qui si fermò e io vidi d’un tratto rabbuiarsi il suo volto luminoso, come se vi fosse passata una nube subitanea.

‘C’è stato un avvenimento nella mia vita… non riesco a capire ancora oggi chi fosse quella strana figura di cui dipinsi un giorno il ritratto. Ma certo era qualcosa di diabolico. Lo so, il mondo nega l’esistenza del diavolo, e perciò non parlerò di questo; dirò soltanto che dipinsi quel ritratto con repulsione, che non provai durante quel tempo nessun amore per la mia opera.

Pure, volli vincermi con la violenza e, soffocato tutto, essere passivamente fedele al vero. Ma quella non fu una creazione d’arte e perciò i sentimenti di chiunque la guardi sono sentimenti di rivolta, sentimenti di angoscia, non i sentimenti che genera un artista, perché un artista anche nell’angoscia esprime tranquillità. Mi hanno detto che quel ritratto passa di mano in mano suscitando impressioni funeste, generando nell’artista il sentimento dell’invidia, un cupo odio verso il fratello, la malvagia bramosia di attuare persecuzioni e oppressioni. Ti protegga l’Altissimo da queste passioni! Non c’è niente di più terribile. Meglio sopportare l’amarezza di tutte le persecuzioni che infliggerne ad altri anche una sola. Salva la purezza della tua anima. Chi racchiude in sé del talento deve avere l’anima più pura di ogni altro. Ad un altro molto si perdona, ma a lui non si perdonerà. A chi è uscito di casa con un chiaro abito festivo basta una sola macchia di fango schizzata da una ruota perché tutta la gente lo circondi e lo segni a dito e parli della sua sporcizia, mentre la stessa gente non nota le molte macchie sugli altri passanti vestiti di abiti quotidiani. Perché sugli abiti di tutti i giorni non si notano le macchie.’ Mi benedisse e mi abbracciò. Nella mia vita non mi ero mai sentito trasportato così in alto. Con venerazione, più ancora che con sentimento filiale, mi strinsi al suo petto e lo baciai sui fluenti capelli d’argento. Una lacrima brillò nei suoi occhi.

‘Esaudisci, figlio mio, una mia preghiera,’ mi disse quando ormai ci congedavamo. ‘Forse ti accadrà di vedere in qualche posto il ritratto di cui ti ho parlato. Lo riconoscerai subito dagli occhi insoliti e dalla loro espressione innaturale; distruggilo ad ogni costo…’

Potete voi stessi giudicare se avrei potuto non promettere, non giurare di esaudire quella preghiera. Per quindici anni non mi è mai capitato di trovare nulla che in qualche modo assomigliasse alla descrizione fattami da mio padre, quando a un tratto, adesso, a quest’asta…” L’artista, senza terminare la frase, rivolse gli occhi alla parete per guardare ancora una volta il ritratto. Lo stesso movimento fece istantaneamente la folla degli ascoltatori, cercando con gli occhi l’insolito ritratto. Ma, con la massima meraviglia di tutti, esso non era più sulla parete. Un parlottio indistinto e un brusio corsero per tutta la folla e subito dopo si udì chiaramente la parola “…rubato”.

Qualcuno era riuscito a portarlo via. A lungo i presenti restarono perplessi, non sapendo se avessero effettivamente visto quegli occhi terribili o se non si fosse trattato di una visione balenata in un istante ai loro sguardi affaticati

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