The Conversation film 1974 – La conversazione

Trama del film La conversazione:
Harry Caul, esperto in intercettazioni, riceve dal segretario di un uomo d’affari, che sospetta la moglie di infedeltà, l’incarico di registrare quel che si dicono, tra la folla di un parco, la donna e il suo amante. Con l’aiuto di un modernissimo apparecchio d’ascolto e di tre collaboratori, Harry assolve il suo compito. Ascoltando la registrazione, però, si convince che la coppia spiata corre un grave pericolo; esita perciò a consegnare i nastri, che tuttavia gli vengono trafugati. Per prevenire la tragedia, Caul corre all’albergo dove sa che i due amanti si incontreranno.

 

La conversazione

11 Giugno 2009

La Conversazione – The Conversation, Usa 1974, colore, 113′

Regia di Francis Ford Coppola. Con Gene Hackman, John Cazale, Frederic Forrest, Allen Garfield, Cindy Williams, Teri Garr, Harrison Ford.

 

Harry Caul (Hackman), misantropo e solitario mago delle intercettazioni, viene incaricato di spiare una coppia di amanti. A poco a poco si convince che i due sono in pericolo di vita. Nel tentativo di prevenire il peggio, confonderà tragicamente vittima e persecutore e finirà, a sua volta, spiato. Scritto e diretto in uno stato di grazia (fu realizzato tra Il padrino I e II), costruito con inquadrature di misteriosa semplicità e onnipresente suggestione, è uno dei più sorprendenti gialli mai ideati e allo stesso tempo la rappresentazione più penetrante e rivelatrice dell’America dell’epoca. La sequenza d’inizio, e quella finale, non somigliano quasi a nient’altro fatto al cinema.

Prima che Francis Ford Coppola girasse ‘La Conversazione’, nel mondo del cinema non esisteva la qualifica di “sound designer”. La quantità di sibili e scrosci, riverberi e vibrazioni che il suo montatore, Walter Murch, creò apposta per questo film – in cui Gene Hackman è un tecnico che deve spiare e intercettare la conversazione di due sconosciuti – rende abbastanza evidente quale sia il significato di tale qualifica, ma il fatto divertente è che essa venne inventata per ragioni puramente sindacali. La troupe di Coppola era infatti formata da persone (tra cui Murch stesso) che come lui avevano iniziato a fare cinema in modo libero e indipendente e perciò non erano iscritte al sindacato. Per questa ragione non si poteva usare per Murch il termine “montatore”. Da allora, la definizione di “sound designer” è diventata piuttosto comune nei titoli dei film. E forse non c’è film che più de ‘La Conversazione’ rendesse necessaria tale invenzione.

La conversazione si apre e si chiude in un modo del tutto inedito nel cinema. Nella prima sequenza, da un punto di vista altissimo, da una sommità imprecisata, viene inquadrata la piazza di una città americana. Con studiata lentezza l’obiettivo della macchina da presa, con uno zoom, si avvicina sempre più verso ciò che accade nei giardini pubblici di quella piazza che è Union Square a San Francisco e allo stesso tempo rumori irrazionali e magmatici, bisbigli elettronici, immettono nel tessuto del film delle perturbazioni sonore. Sono scariche di suoni che sembrano riprodotti tramite uno strumento meccanico, batterie complesse di pacchetti di vibrazioni che si mischiano a un popolare blues che alcuni musicisti di strada stanno eseguendo nella piazza, come bolle d’acqua che risalgano in superficie increspandone i riflessi. Sia il brano musicale sia i rumori inintelligibili, del resto, ci arrivano avvolti dal riverbero, come se li ascoltassimo da una postazione remota. Quando la macchina, dall’alto, si avvicina a sufficienza da inquadrare a figura intera le persone nella piazza (un mimo che imita i passanti, un uomo con gli occhiali e un bicchiere di carta in mano), è inevitabile chiedersi: chi sta guardando quella scena, e perché da così lontano?

C’è un uomo in cima a un palazzo che domina la piazza, e punta l’occhio in quello che sembra proprio il mirino di un fucile. In soggettiva, vediamo l’intera scena di prima, inquadrata dall’interno del mascherino di un mirino, come già tante volte abbiamo visto al cinema.

La sequenza iniziale, durante la quale due persone, un uomo e una donna, vengono spiati e fotografati e intercettati, nel corso del film viene ripetuta numerose volte. Ciò che quelle due persone si dicono nasconde un segreto. I rumori che sentivamo all’inizio sono le loro parole intercettate da un microfono direzionale, che somiglia incredibilmente a un fucile. Si tratta di una tecnologia che oggi deve apparire antiquata, ma l’intera storia de ‘La Conversazione’ nasce proprio dalla suggestione che l’adozione di tali mezzi, fino ad allora sconosciuti, avrebbe consentito a qualcuno di ascoltare ciò che viene detto da altre persone senza essere scoperto con molta più facilità, e impunità, di prima.

Il protagonista – proprio quello con il bicchiere di carta in mano, gli occhiali e un trench grigio di plastica, di dubbio gusto – è l’uomo cui viene affidato tale lavoro. È il migliore nel suo campo, ed è anche afflitto da una paranoia che può certamente essere considerata una forma nevrotica di patologia professionale. Ha la fobia che qualcuno invada la sua privacy. Nella prima scena in cui Coppola lo mostra dentro la propria casa – “Ho voluto che si togliesse scarpe e pantaloni e restasse in mutande: è quello che faccio anch’io come prima cosa, tutte le volte che mi trovo in un posto in cui penso che nessuno possa vedermi” –  non solo lo vediamo accedere all’interno domestico dopo aver aperto un numero incredibile di serrature, ma successivamente lo vediamo anche telefonare alla padrona di casa chiedendole la restituzione delle chiavi: la donna, per gentilezza, e forse seduzione, gli ha fatto trovare in casa un piccolo regalo, visto che è il suo compleanno. È una sorpresa che sembra aver allarmato oltremisura il personaggio. L’intera telefonata è ripresa da Coppola con due panoramiche (ovvero, due movimenti orizzontali con i quali la camera ruota intorno al proprio asse). Straordinarie. Nella prima la camera, dopo aver inquadrato Gene Hackman al telefono e aver assistito senza scomporsi al fatto che questi passeggi fuori dall’inquadratura stessa lasciandola vuota, lo raggiunge sul divano dove si è nel frattempo seduto. Lo fa come un animale tardivo che volti il capo senza fretta. Nella seconda, allo stesso modo, aspetta che Gene Hackman si alzi di nuovo e finisca fuori dal suo raggio, per poi ricercarlo con un’altra panoramica, un’altra rotazione su se stessa, in direzione opposta alla prima, lenta e impassibile. – Volevo dare l’impressione che anche la camera, come il personaggio, fosse semplicemente uno strumento che non possiede emozioni e reazioni a ciò che registra: volevo dare l’impressione che anche la cinepresa facesse un mestiere simile a quello del protagonista – In realtà, l’effetto è più complesso e penetrante.

La camera dà la sensazione di essere lì per caso e di non saperne più di noi – visto che non è in grado di prevedere i movimenti dei personaggi e che li segue in ritardo. Eppure, chi la dirige non solo ha scritto la storia, scelto gli attori, costruito la scena, montato il film, ma sa perfettamente – a differenza di noi – qual è il suo segreto. Ecco invece qual’è quello di chi racconta in un film: rendersi irreperibile, mimetizzarsi con il cinema, confondersi nel suo paesaggio. Non c’è movimento più semplice di questo – elementare, ottuso: rimanere fermi e compiere, in ritardo, un movimento – che comunichi allo spettatore con maggior efficacia l’idea che quella storia si faccia da sé, senza bisogno di qualcuno.

Coppola riesce in questo perfetto prodigio, comunicare l’idea che il narratore venga messo da parte dalla sua stessa storia, che il film guardi se stesso, insieme a noi; come se fosse la prima volta.

Come in ‘Chinatown’, anche ne ‘La Conversazione’ il finale è destinato a cambiare il senso di tutto ciò che abbiamo visto sino ad allora. Quella conversazione, in quella piazza, viene ripetuta decine di volte, analizzata e decifrata in ogni singola parola. Harry, il genio delle intercettazioni, ne è ossessionato. Non solo perché vuole che sia perfetta, ma perché teme che da essa possa dipendere la vita delle persone che ha intercettato. Va in chiesa e si confessa – un’altra, severa forma di sorveglianza, dice Coppola – cerca in tutti i modi di capire che uso verrà fatto dell’intercettazione (e ogni cosa sembra proprio congiurare perché i soggetti che ha spiato siano due adulteri sui quali finirà per scatenarsi la punizione del potente manager che l’ha commissionata), o addirittura di prorogare il più possibile la consegna dei suoi risultati.

Allora pensavo che solo la ripetizione in sé potesse essere allo stesso tempo ipnotica ed efficace nel suggerire un’idea in un modo assai sottile – ha detto Coppola – nel senso che basta ripetere qualcosa per evidenziarlo e spingere lo spettatore a domandarsi perché e come viene ripetuto: il cinema, più di qualsiasi altro linguaggio, grazie alla manipolazione del tempo consente di esplorare la ripetizione.

Fino a che punto possiamo essere manipolati, fino a quale estensione è possibile farci credere come vero qualcosa che non lo è? È una domanda che ha molto a che vedere con il mondo in cui viviamo, dove le possibilità di riproduzione tecnica della realtà, attraverso le nuove tecnologie, hanno raggiunto livelli di perfezione inaudita. Ma è anche qualcosa che riguarda i film, da sempre.

Harry Caul (il protagonista, interpretato da Gene Hackman) usa la tecnica per cercare di comprendere la verità, ma proprio la sua straordinaria abilità lo renderà vittima di un equivoco clamoroso, nel quale i carnefici verranno scambiati per le vittime. Da questo punto di vista, ‘La conversazione’ è qualcosa di più di un film. È un teorema. Radicati nel punto di vista del protagonista, la realtà ci appare come un gioco di manipolazioni inarrestabili e minacciose. Raramente la tensione di un film ha saputo contagiare gli spettatori di una visione del mondo, soprattutto in questo modo: anche noi, come il personaggio principale, siamo persuasi di una verità fittizia grazie all’uso sofisticato di un medium, il cinema stesso, visivo e sonoro.

Un linguaggio, sostengono con sospetta convergenza filosofi e critici di cinema, parla sempre anche di se stesso. Un film finisce sempre per dire qualcosa sui film in generale. Anche se non lo sa. Ma ci sono film nei quali questa impresa è particolarmente scoperta. Coppola dice che la storia de ‘La Conversazione’ ha un’ispirazione inevitabile, ed è ‘Blow-up’ di Michelangelo Antonioni (non a caso, la prima stesura del copione risale alla metà degli anni sessanta: anni molto vicini a quel film di Antonioni). In ‘Blow-up’ c’è una delle dimostrazioni più felici di come il cinema possa parlare di sé, senza farlo direttamente.

In una celebre sequenza il protagonista scopre di aver fotografato, senza averlo visto, un omicidio. È la sequenza dello sviluppo e stampa delle foto e del loro ingrandimento. La sua azione è una perfetta lezione di come si fa il cinema: si scelgono delle immagini, se ne stabilisce la grandezza, se ne decide la successione. David Hemmings, l’attore che interpreta il personaggio protagonista di ‘Blow-up’, per cercare di capire cosa ha fotografato lo mette in scena. Stabilisce l’ordine delle immagini, la taglia delle inquadrature e poi le dispone in successione come in una sequenza. Le appende una accanto all’altra. E alla fine, con la propria immaginazione, vi aggiunge anche il suono. Coppola parte dalla fine. Il suono è ciò che gli consente di ricostruire la scena. Nella ‘Conversazione’ c’è una sequenza molto simile a quella di ‘Blow-up’ durante la quale Harry, manovrando i tasti di più registratori, con un’abilità che ricorda più il musicista che il tecnico specializzato, costruisce l’intera conversazione integrando l’una con l’altra le diverse fonti di registrazione che ha distribuito sul luogo dell’intercettazione (dall’alto del grattacielo, addosso ai suoi uomini mimetizzati nella folla della piazza, dal pulmino da cui dirige, come un vero regista, tutta la troupe ai suoi ordini). Harry, letteralmente, monta insieme diverse riprese sonore per consegnare al suo cliente la scena completa di quella conversazione. Ciò consente innanzi tutto a lui di ricostruire la storia della quale i due, e il mandante della intercettazione, fanno parte. O almeno di crederlo.

Il suono, nei film, è assai più importante di quanto fino a qualche tempo fa si fosse disposti a riconoscere. Per anni, dato che è solo dopo il 1929 che i film hanno avuto il sonoro, si è pensato che la possibilità di avere voci, rumori e suoni in qualche modo avesse deviato la grande arte del cinema dalla sua traiettoria, plastica e allusiva, in grado di parlare tramite l’esclusivo mezzo delle immagini. Le difficoltà tecniche della registrazione del suono limitarono molto, nei primi decenni dell’avvento del sonoro, la libertà della messa in scena. Queste, sommate all’egemonia del dialogo, che finì per diventare il principale strumento di continuità e montaggio delle inquadrature, fecero bruscamente sterzare il linguaggio del cinema verso un orizzonte di forme sostanzialmente diverso da quello che aveva luminosamente esplorato fino agli anni venti. Eppure, provate oggi a vedere un film di rilievo senza il suono. L’immagine si appiattisce, l’espressione degli attori è incomprensibile e banale – non solo perché non sentiamo le battute, ma perché ci perdiamo la continua discrepanza tra esse e ciò che ci comunica il loro volto, quella discrepanza su cui lavorano i grandi attori -, il mondo del film perde buona parte delle sue numerose connotazioni e della sua verosimiglianza.

Nel cinema infatti lo spazio del suono è più grande di quello del visibile. A differenza di quanto accade per le immagini, non c’è alcun quadro che con i suoi bordi limiti ciò che possiamo udire. Le voci, i rumori, la musica possono venire da dietro la macchina da presa, da un lato dell’inquadratura, da un’area del mondo che non è parte di essa. L’illusione che il mondo si prolunghi oltre i bordi dell’inquadratura, che è fondamentale per instaurare l’esperienza del cinema, è profondamente debitrice alle possibilità del suono nel suo linguaggio. Vediamo molto meno, senza suono. Anche la nostra capacità di sentire i suoni non ha i limiti del nostro occhio.

A differenza di quasi tutte le altre specie animali, infatti, noi non abbiamo un unico organo predisposto a intercettare le vibrazioni del suono (pensiamo alle vibrisse nei gatti), non abbiamo peli o cartilagini o superfici specializzate destinate a farlo: una vibrazione investe tutto il nostro fisico. Tutta la nostra pelle è in grado di percepire una vibrazione sonora (anche se solo l’orecchio codifica tale vibrazione nella ricezione di un suono). Tutti gli altri esseri viventi corrispondono perfettamente al proprio habitat, sono fatti apposta per sopravvivere e integrarsi a esso come la tessera di un puzzle. Noi non abbiamo artigli, ali, zanne, il nostro corpo è nudo e inerme. Ogni vibrazione lo scuote interamente. Siamo qualcosa di instabile e morbido che somiglia a una antenna vivente. Vediamo i film con i nostri occhi, sentiamo i film con tutto il nostro corpo.

Ogni vibrazione è per il nostro corpo un piccolo trauma (la terra che cede, la sedia che sussulta, il corpo del nostro vicino che sobbalza). La posizione eretta, la pelle scabra, l’assenza di protezioni naturali (corazze, mantelli, conchiglie, squame), ci rendono esposti come giunchi al vento delle vibrazioni. È per questa ragione che danziamo al ritmo di una musica e non dei colori di un quadro. I suoni sono quelle oscillazioni che leggiamo con la nostra pelle.

‘La conversazione’ è piena di vibrazioni, come si è detto dall’inizio.

Le immagini sono scarne ed essenziali, la colonna sonora invece è costruita con la continua stratificazione di vibrazioni ed effetti sonori che si sovrappongono a voci e musica. Le voci stesse, quelle registrate nel corso della conversazione iniziale durante la quale due giovani, un uomo e una donna, si scambiano alcuni timori e anche l’informazione di un luogo e un giorno dove qualcosa che li angoscia deve accadere, quelle voci si sfaldano in borbottii meccanici che trasmettono un’inquietudine angosciosa. Ci sono alcune vibrazioni, alcuni suoni, che producono alte concentrazioni di ormoni e neuro-trasmettitori che condizionano con decisione gli stati d’animo di chi li ascolta. Le vibrazioni possono efficacemente indurre stati d’animo. Quando la sequenza viene ripetuta per l’ultima volta, quando Harry la ripercorre interamente nella propria mente dopo aver scoperto, con raccapriccio, che quell’appuntamento che i due giovani si davano non conteneva una minaccia mortale per la loro incolumità, ma era l’intesa finale che concertavano per progettare essi stessi l’assassinio di qualcun altro, allora Harry ritorna a casa. Ha scoperto di essere indirettamente responsabile di tale omicidio perché è tramite la sua intercettazione che la vittima apprende di tale appuntamento e vi si reca – è una pedina decisiva senza saperlo, un po’ come accade a Jake Gittes in Chinatown.

Ritornato a casa, Harry si rimette a suonare il sax, accompagnando un disco, come lo abbiamo visto fare all’inizio. Un gesto privato, un hobby innocente e forse patetico, nel quale la sua solitudine è dolcemente sottolineata dagli applausi che, alla fine del brano sul disco, chiudono la sua esecuzione come se fossero destinati a lui.

Nel finale, invece, una telefonata lo costringe a interrompersi prima. Qualcuno, dall’altro capo del telefono, sta riavvolgendo il nastro di una registrazione, come capiamo dal tipico stridìo dei suoni riprodotti a una velocità maggiore del normale. Ciò che Harry ascolta è la sua stessa performance al sax di poco prima. Qualcuno lo sta intercettando, qualcuno ora gli intima di tenersi lontano dall’intero complotto che ha scoperto. Qualcuno – gli dice con chiarezza la voce al telefono – lo sta ascoltando.

Per scoprire i dispositivi attraverso i quali qualcuno lo sta sorvegliando, Harry inizia a passare su tutte le pareti della propria casa un rivelatore di sensori, svita gli interruttori della luce, stacca le tende e tira giù i lampadari. Smonta il telefono, rimuove i soprammobili e alla fine si concentra sull’unico rimasto: una statuetta della Madonna. E la spacca con ferocia per scoprire se all’interno vi sia nascosto qualcosa. Niente. L’impossibilità di trovare le “cimici” con le quali lo stanno spiando sembra farlo impazzire. Smonta anche le veneziane, frantuma sul pavimento una presa elettrica già divelta dalla parete, fa a pezzi il retro di una cornice, inizia a strappare la carta da parati, schioda gli infissi delle porte, il battiscopa, attacca le assi del parquet con martello e scalpello. Sotto c’è solo cemento. Per la rabbia, Harry scaglia un piede di porco sul pavimento devastato.

Coppola lo ha inquadrato più volte nel film in spazi vuoti e interni senza divisori.

Il suo ufficio è un vasto loft senza tramezzi, nell’inquadratura della telefonata alla padrona di casa, sullo sfondo, oltre le finestre, scorgiamo, tra le assicelle delle veneziane, una scavatrice che sta abbattendo le pareti di un edificio. Immagini che suggeriscono l’idea che le case non possano più difenderci dall’attenzione di nessuno.

Nell’ultima inquadratura, infine, il regista ripete il movimento a pendolo della doppia panoramica. In alto, da sinistra, come se quell’osservatore imperturbabile e sonnolento si fosse appollaiato in un angolo simile a un uccello notturno, la camera ruota lentamente per più di centottanta gradi descrivendo l’interno domestico distrutto. Alla fine della panoramica c’è Harry che ha ripreso il sax, seduto in un angolo. Mucchi di assi sbreccate del parquet sul pavimento, le pareti nude con radi brandelli di carta da parati, le porte senza infissi, gli oggetti in frantumi. Mentre Harry continua a soffiare dentro lo strumento producendo sconnesse vibrazioni, la camera panoramica fino a lui sulla sinistra e poi di nuovo, in direzione opposta, per due volte.

Lo stile “zen”, giapponese, delle inquadrature del film, dove predomina il vuoto, trionfa in quest’ultima panoramica in cui l’osservatore torpido e accurato che è la macchina da presa guarda la devastazione della vita del protagonista come se di fronte a essa non fosse in grado di provare nulla.

[Da Mario Sesti: “In quel film c’è un segreto”. Raccontare al cinema, raccontare il cinema – Feltrinelli Ed. 2006]

http://schedefilmvisioni.blog.tiscali.it/2009/06/11/la_conversazione__11_giugno_2009__1993221-shtml/

Francis Ford Coppola is a director often remembered for launching his career with his blockbuster adaptation of Mario Puzo’s The Godfather (1972), continuing through two other noteworthy films, and essentially committing career suicide by following his filmmaking dreams and going over schedule and over budget on two consecutive films: Apocalypse Now (1979) and One from the Heart (1982). While The Godfather helped save Paramount Pictures from the box office rut of the late 1960s and early 70s, his last two films ensured his financial bankruptcy while his studio, American Zoetrope, was placed on the auction block. While he would make several good films over the next 25 years (his S.E. Hinton adaptations and Bram Stoker’s Dracula), he would never again reach the heights of his 70’s masterpieces.

Out of those four films, The Godfather films and Apocalypse Now tend to get the most attention. The former films completely deserve it for a list of reasons, the latter not so much. Sure, Apocalypse Now has some amazing sequences, but it’s overlong and the philosophical message is rather trite. I often find myself thinking that the story of the film’s production, as chronicled in his wife Eleanor’s documentary Hearts of Darkness: A Filmmaker’s Apocalypse (1991), is more engrossing and engaging than the film itself. Why do I sound bitter about this assessment of Coppola’s career? Because it often produces an oversight of my favorite Coppola film, The Conversation (1974). Now, it’s not as if The Conversation has been completely overlooked during the last 30-odd years. In the awards season following its release, the film was nominated for Oscars in the best picture, best original screenplay, and best sound categories. Yet, the film lost out to Coppola’s other film that year, The Godfather II (1974). While The Godfather II holds a slew of awards and an intimidating cinematic legacy, ranking #32 on the last American Film Institute’s Top 100 Movies poll and #4 on the Sight & Sound canon, The Conversation holds a Golden Palm from Cannes Film Festival and was selected for preservation in the United States National Film Registry. I assume more filmgoers have seen its “re-imagining,” Enemy of the State (1998), than the original film and that thought, quite frankly, depresses me.

The film focuses on Harry Caul (Gene Hackman), a surveillance expert hired by an executive (Robert Duvall) to record his wife’s (Cindy Williams) conversations with her possible lover (Frederic Forrest). Caul is great at his job, assembling a master recording from separate microphones in a crowded San Francisco plaza, so perfectly captured by the film’s masterful opening sequences. Yet, Caul’s mastery of surveillance does not translate into a mastery of security. While he prides himself on being able to keep his life private, we watch as he continually fails to do so: Caul allows himself to be bugged by his professional rival, his triple-locked apartment is easily accessed by his landlord, and his equipment is stolen. Yet, despite Caul’s incompetence when it comes to his securing his life, the film posits that his chief weakness is the fact that he is a moral man doing immoral work. From this point-of-view, The Conversation could be viewed as a neo-noir.

Caul is drawn into a sleazy profession that he tries to redeem by emphasizing the technical aspects of (the ability to rig a microphone to a telescope for example) over the moral, and sometimes mortal, consequences of. Yet, as a devout Catholic, Caul is unable to repress the real-life repercussions of his abilities. Once, he confesses, his work led to the death of a woman and a child. Now, after hearing the two lovers say, “He’d kill us if he got the chance,” Caul worries his work will bring more death and he refuses to turn in his finished recording. When the tapes are stolen and tragedy does occur (don’t worry, no spoilers here), Caul is helpless, forcing him to realize his failures.

Gene Hackman’s performance as Caul stands first amongst many of the film’s noteworthy characteristics. Hackman plays the role far more quietly than his Oscar winning turn as the volcanic Popeye Doyle in The French Connection (1971) three years earlier. He plays Caul as a man seeking control, but not desperately. He seems repressed, but without the obvious nervous tics of someone about to crack. Hackman brings Caul’s obsession with detachment to the forefront and it’s a wonderfully understated performance. Sure, he’s good as the loud cop Doyle, but there’s something inherently more interesting in Caul. No wonder why Tony Scott cast him in a similar role in Enemy of the State. Of course, there are other performances of note in the film, including Allen Garfield as Caul’s professional rival and a young Harrison Ford as a threatening presence but, quite simply, this is Hackman’s film.

If Hackman’s performance is one of the many noteworthy elements in The Conversation, Coppola’s utilization of film form (with the help of sound designer Walter Murch and composer David Shire) is the other. The film begins with an amazingly shot and choreographed sequence in a San Francisco square as Caul attempts to capture every line of the conversation as the targets weave through the crowd. The sequence begins with a long zoom shot from one of the neighboring rooftops, giving us a full view of the plaza so we can understand where each character is spatially in relation to one another. As the sequence continues, we’re given several points-of-view on the couple, each “subjectively” rendered through audio filters that keep us from an omniscient perspective on the dialogue. Thus, when Caul discovers the conversation’s subject later on, we join him in his discovery.

Now, some cinephiles have criticized Coppola and the film for standing on the toes of Michelangelo Antonioni’s Blowup (1966). There are some similarities as both films follow a protagonist who uncovers a murder plot via a form of media (photography in Blowup, sound recording in The Conversation). Sure, Antonioni’s film includes a sequence in which the protagonist repeatedly tinkers with a piece of media in order to tease out any more information, just as Coppola’s film does. Yet, the preoccupations of both films couldn’t be more different. The protagonist of Blowup is a snobbish, upper-class fashion photographer, giving the substance of his crisis a completely different meaning than Caul’s, which is drenched in Catholic guilt. Hell, Blowup probably has more in common with Hitchcock’s Rear Window (1954) than it does with The Conversation (both films are about photographers whose boredom with upper-class existence plays tricks on their imaginations). I won’t argue that Coppola’s film wasn’t influenced by Blowup, just as Brian De Palma’s Blow Out (1981) was as well, but I cannot see where those similarities keep The Conversation from being a film that stands on its own merits. After all, do critics hold back Sergio Leone’s A Fistful of Dollars (Per un Pugno di Dollari, 1964) back for being a revision of Akira Kurosawa’s Yojimbo (1961) or Kurosawa’s Throne of Blood (1957) for being an adaptation of William Shakespeare’s Macbeth? No, simply due to the fact that precedence only matters when a work cannot stand on its own merits (I’m looking at you Gus Van Sant for remaking Psycho!).

Re-watching The Conversation, I cannot help but lament the direction Coppola’s career took. Unlike some other directors who flew too close to the sun, Coppola’s path of forgettable films was forged with his own participation. While I have yet to see Tetro (2009), Coppola lost his touch in 1974 when he completed the near-impossible feat of releasing two perfect films in one year. I’d like to hope that he could some day pull out of his rut, just as Paramount Studios did with the release of The Godfather. Yet, Coppola’s failures have helped prove the unfortunate fact that the complexities of his own vision often bring him back to the path. Apocalypse Now and One from the Heart were bad films because Coppola, like his friend and colleague George Lucas, lost himself in the spectacle of sequences and set-design whereas his gift was always for intimacy and performance, both of which are present in The Conversation.

Drew Morton is a Ph.D. student in Cinema and Media Studies at the University of California-Los Angeles. He has previously written for the Milwaukee Journal Sentinel and UWM Post and is the 2008 recipient of the Otis Ferguson Award for Critical Writing in Film Studies.

http://www.pajiba.com/pajiba_blockbusters/the-conversation-review.php

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