LETTERE SENZA INDIRIZZO[13] (Passi scelti) : prima e seconda lettera

LETTERE SENZA INDIRIZZO[13] (Passi scelti) : prima e seconda lettera

 

Georgij Valentinovič Plechanov : Senza teoria rivoluzionaria, non c’è azione rivoluzionaria nel vero senso della parola”.

Prima a Belinskij piaceva l’idea della nota poesia di Puškin La plebaglia, mentre ora invece ne è indignato; ora egli è convinto che, giacché ogni autentica poesia ha origine dal terreno nazionale, il poeta non ha motivo né diritto di disprezzare la folla intesa come la massa del popolo. Anzi, noi abbiamo il diritto di esigere che nell’opera del poeta si riflettano le grandi questioni nazionali contemporanee. «Chi è poeta solo per sé e disprezza la folla rischia di essere l’unico lettore delle proprie opere», dice Belinskij nel quinto articolo della sua opera su Puškin. Nelle sue conversazioni con gli amici — come possiamo vedere dai ricordi di Turgenev — egli si esprimeva ancor più recisamente. Specialmente i due versi seguenti ridestavano la sua indignazione:
La pentola ti è più cara:
Tu ti ci cuoci il cibo.
«Ma certo, — confermava Belinskij misurando a gran passi la stanza da un angolo all’altro con gli occhi fiammeggianti, — certo che mi è cara. Io vi cuocio il cibo non soltanto per me, ma anche per la mia famiglia e anche per qualche altro poveraccio; e prima di ammirare la bellezza di un idolo — fosse pure stupendo come l’Apollo di Fidia — è mio diritto e mio dovere nutrire i miei e me stesso, anche se ciò non piace a certi sdegnosi signorini imbrattacarte». Ora Belinskij giudica completamente erronea anche l’idea che sta alla base del Poeta di Puškin. Il poeta dev’essere puro e nobile non soltanto quando Apollo lo chiama al santo sacrificio, ma sempre, nel corso di tutta la sua vita. «Il nostro tempo s’inchinerà soltanto davanti a quell’artista la cui vita sia il miglior commento della sua opera, e la cui opera sia la migliore giustificazione della sua vita. Goethe non appartiene certo al novero dei volgari mercanti di idee, di sentimenti e di poesia; ma il suo indifferentismo pratico e storico non gli permetterebbe mai di diventare il dominatore dei pensieri del nostro tempo, nonostante tutta la vastità del suo genio universale».

LETTERE SENZA INDIRIZZO[13](Passi scelti)
Egregio signore,
tratteremo insieme deI problema dell’arte. Ma in qualsiasi ricerca che aspiri ad una certa precisione, qualunque sia il suo oggetto, è indispensabile attenersi ad una terminologia rigorosamente fissata. Pertanto per prima cosa noi dobbiamo dire qual è propria mente il concetto che colleghiamo con la parola arte. D’altra par te è fuor di dubbio che una definizione in qualche misura soddisfacente dell’argomento trattato può emergere soltanto come risultato della ricerca stessa. Se ne deduce che noi dobbiamo assolutamente definire qualcosa che invece non siamo in grado di definire. Come uscire da questa contraddizione? Io penso che se ne possa uscire nel modo seguente: mi fermerò per ora su qualche definizione soltanto provvisoria, che in seguito prenderò a completare e a cor reggere man mano che la questione verrà chiarita dalla stessa ricerca.
Ma per il momento su quale definizione fermarmi?
Lev Tolstoj nel suo libro Che cos’è l’arte cita una quantità di definizioni dell’arte secondo lui contraddittorie fra loro, e le trova tutte insoddisfacenti. In realtà, le definizioni da lui citate non sono affatto così discordi tra loro e neppure tanto erronee come a lui sembra. Ma ammettiamo pure che siano tutte completamente erronee e vediamo se possiamo accettare la definizione che egli stesso ci offre.
«L’arte, — dice Tolstoj, — è uno dei mezzi di comunicazione degli uomini tra loro … La peculiarità di un tal mezzo di comunicazione, che lo distingue dalla comunicazione per mezzo della parola, consiste nel fatto che con la parola un uomo trasmette a un altro uomo i suoi pensieri (il corsivo è mio), mentre con l’arte gli uomini si comunicano i loro sentimenti» (anche qui il corsivo è mio).
Per parte mia, farò per ora solo quest’osservazione.
Secondo il conte Tolstoj, l’arte esprime i sentimenti degli uomini, mentre la parola esprime i loro pensieri. Questo non è giusto. La parola serve agli uomini non soltanto per esprimere i loro pensieri, bensì anche per esprimere i loro sentimenti. La prova ci è fornita dalla poesia, il cui organo è appunto la parola.
Lo stesso conte Tolstoj dice:
«Ridestare in sé un sentimento già provato, e quindi, dopo averlo ridestato in sé, trasmetterlo per mezzo di movimenti, di linee, di colori, d’immagini espresse con parole, e in modo tale che gli altri sperimentino questo stesso sentimento; in questo consiste l’attività artistica». Già da questa citazione si vede che non è possibile considerare la parola come un peculiare modo di comunicazione tra gli uomini, distinto dall’arte.
Inoltre è falso che l’arte esprima soltanto i sentimenti degli uomini. No, essa esprime tanto i loro sentimenti quanto i loro pensieri, ma li esprime non astrattamente, bensì in vive immagini. Proprio in questo sta il suo tratto distintivo più importante. Secondo il conte Tolstoj «l’arte comincia nel momento in cui l’uomo, allo scopo di partecipare agli altri uomini un sentimento da lui sperimentato, lo rievoca dentro di sé e quindi lo esprime per mezzo di certi segni esteriori». Io invece penso che l’arte comincia quando l’uomo rievoca in sé i sentimenti e i pensieri da lui sperimentati sotto l’influenza dell’ambiente che lo circonda, e conferisce ad essi una certa espressione figurata. Va da sé che nella schiacciante maggioranza dei casi egli fa ciò allo scopo di trasmettere agli altri uomini ciò che egli ha pensato e sentito. L’arte è un fenomeno sociale.
Con le correzioni sopraindicate si esaurisce per il momento ciò che vorrei cambiare nella definizione dell’arte offerta dal conte Tolstoj.
Tuttavia voglio ancora pregarla, egregio signore, di notare la seguente osservazione dell’autore di Guerra e pace:
«Sempre, in ogni epoca e in ogni società umana, esiste una coscienza religiosa — comune a tutti gli uomini di quella data società — di ciò che è male e di ciò che è bene, e appunto questa coscienza religiosa determina il valore dei sentimenti trasmessi dall’arte».
La nostra ricerca ci deve mostrare, tra l’altro, quanto sia giusto questo pensiero, che in ogni caso si merita la più alta considerazione giacché ci conduce direttamente ad impostare il problema della parte svolta dall’arte nella storia dell’evoluzione umana.
Adesso che abbiamo una certa definizione preliminare dell’arte, debbo assolutamente chiarire il punto di vista da cui io la considero.
A questo punto dirò senza ambagi che io considero l’arte — come del resto tutti i fenomeni sociali — dal punto di vista della concezione materialistica della storia.
Ma cos’è la concezione materialistica della storia?
E’ noto che in matematica esiste il procedimento della dimostrazione per assurdo. Ricorrerò qui ad un procedimento che si può chiamare procedimento di chiarimento per assurdo. In particolare, ricorderò dapprima in che consiste la concezione idealistica della storia e quindi mostrerò in che cosa si distingue da essa la concezione opposta, materialistica, della storia stessa.
La concezione idealistica della storia, considerata nel suo aspetto più puro, consiste nella convinzione che lo sviluppo del pensiero e delle scienze è l’ultima e più remota causa dell’evoluzione storica dell’umanità. Una simile visione della realtà dominava completamente nel diciottesimo secolo, e da questo passò nel diciannovesimo. Ad essa si attenevano ancora saldamente Saint-Simon e Auguste Comte, sebbene le loro vedute sotto alcuni rapporti si trovassero in diretta opposizione con il modo di vedere dei filosofi del secolo precedente. Saint-Simon, ad esempio, si pone il problema di come sia sorta l’organizzazione sociale dei greci[14]. Ecco com’egli risolve una tale questione: «il sistema religioso (le système réligieux) è servito loro di fondamento per il sistema politico … Quest’ultimo fu creato sul modello del primo». E per dimostrare ciò, egli cita il fatto che l’Olimpo dei Greci era «un’assemblea repubblicana» e che le costituzioni di tutti i popoli della Grecia, per quanto differissero tra di loro, presentavano come caratteristica comune il fatto che erano tutte repubblicane[15]. Ma questo non è ancora tutto. Il sistema religioso che si trovava alla base del sistema politico dei greci derivava esso stesso — secondo Saint-Simon — dall’insieme delle loro concezioni scientifiche, dal loro sistema scientifico del mondo. In tal modo quindi le concezioni scientifiche dei greci venivano a costituire la base più profonda del loro assetto sociale, e l’evoluzione di tali concezioni costituivano la molla essenziale dell’evoluzione storica di tale assetto, la principale causa che determinava la sostituzione di alcune forme con altre.
Analogamente Auguste Comte pensava che «tutto il meccanismo sociale si fonda in fin dei conti sulle opinioni[16]». Il che equivale a una semplice ripetizione dell’opinione degli enciclopedisti secondo la quale c’est l’opinion qui gouverne le monde.
Esiste un’altra varietà d’idealismo che ha trovato la sua estrema formulazione nell’idealismo assoluto di Hegel. Come viene spiegata l’evoluzione storica dell’umanità del punto di vista di questo ultimo? Lo chiarirò con un esempio. Hegel si domanda: perché cadde la Grecia? Egli presenta molte cause di un tal fatto; ma la più importante tra queste ai suoi occhi era la circostanza che la Grecia aveva espresso in se stessa un gradino di sviluppo dell’idea assoluta, e doveva cadere quando un tale gradino fosse stato superato.
E’ chiaro che secondo Hegel — il quale tuttavia sapeva bene che Sparta cadde per l’ineguaglianza delle ricchezze — i rapporti sociali e tutto il cammino dell’evoluzione storica dell’umanità sono determinati in ultima analisi dalle leggi della logica, e dal processo di evoluzione del pensiero.
La concezione materialistica della storia è diametralmente opposta a una tale concezione. Se Saint-Simon, considerando la storia dal punto di vista idealistico, pensava che i rapporti sociali dei Greci si spiegano mediante le loro concezioni religiose, al contrario io, partigiano della concezione materialistica, dirò che l’Olimpo religioso dei Greci era un riflesso del loro assetto sociale. E se Saint-Simon, alla domanda da dove derivassero le concezioni religiose dei Greci, rispondeva che esse derivavano dalle loro concezioni scientifiche, io invece penso che le stesse concezioni scientifiche dei Greci erano condizionate nel loro sviluppo storico dallo sviluppo delle forze produttive che si trovavano a disposizione dei popoli dell’Ellade[17].
Questa è, in generale, la mia visione della storia. E’ esatta o no? Questo non è il luogo di dimostrare la sua esattezza. Qui le chiedo soltanto, egregio signore, di supporre che essa sia esatta, e di prendere — insieme con me — una tale ipotesi come punto di partenza della nostra indagine sull’arte. Va da sé che una tale ricerca sul problema particolare dell’arte sarà allo stesso tempo anche una verifica della concezione generale della storia. Infatti, se la concezione generale sarà errata, noi, assumendola come punto di partenza, saremo in grado di spiegare ben poco del l’evoluzione dell’arte. Ma se noi invece ci convinceremo che l’evoluzione dell’arte, ricorrendo a una tale concezione, si spiega meglio che non ricorrendo a concezioni diverse, ecco che avremo un nuovo e potente argomento a suo favore.
Ma a questo punto io già prevedo un’obiezione. Darwin nel suo libro L’origine della specie e la selezione sessuale cita, com’è noto, una quantità di fatti che stanno a testimoniare che il senso della bellezza (sense of beauty) svolge una parte piuttosto importante nella vita degli animali. Qualcuno potrebbe citare questi fatti e trarne la conclusione che l’origine del senso della bellezza deve essere spiegata per mezzo della biologia. Mi si potrebbe far osservare che è inammissibile («angusto») far dipendere l’evoluzione di questo sentimento negli uomini dalla sola economia delle loro società. E siccome la concezione darwiniana dell’evoluzione della specie è senza dubbio una concezione materialistica, mi si potrà anche obiettare che il materialismo biologico ci offre un ottimo materiale per la critica dell’unilaterale materialismo storico («economico»).
Comprendo tutta la gravità di una tale obiezione, e pertanto mi soffermerò su di essa. Ciò mi sarà tanto più utile in quanto, replicando a questa, risponderò con ciò stesso a tutta una serie di obiezioni analoghe che si possono trarre dall’osservazione del la vita psichica degli animali.
Anzitutto ci sforzeremo di definire nel modo più esatto possibile la deduzione che dobbiamo trarre dai fatti citati da Darwin; per far questo vediamo quali conclusioni ne trae egli stesso.
Nel secondo capitolo della prima parte (della traduzione russa) del suo libro sull’origine dell’uomo, egli scrive:
«Senso della bellezza; questo sentimento fu anche proclamato come una peculiarità esclusiva dell’uomo. Ma se ricorderemo che i maschi di alcuni uccelli spiegano a bella posta le loro penne e sfoggiano i loro vividi colori davanti alle femmine, mentre altri, che non dispongono di così belle penne, non civettano in tal modo, non potremo naturalmente dubitare che le femmine ammirano la bellezza dei maschi. E giacché, inoltre, le donne di tutti i paesi si adornano di tali penne, è evidente che nessuno potrà negare l’eleganza di quest’ornamento. I mantellati che adornano con gusto i loro chioschetti da gioco con degli oggetti vividamente colorati, e alcuni colibrì che abbelliscono allo stesso modo i loro nidi, dimostrano chiaramente di possedere il senso della bellezza. La stessa cosa si può dire del canto degli uccelli. E’ indubbio che le dolci canzoni dei maschi all’epoca degli amori piacciono alle femmine se le femmine degli uccelli fossero incapaci di apprezzare i vividi colori, la bellezza e la gradevole voce dei maschi, tutte le preoccupazioni e gli sforzi messi in atto da questi ultimi per affascinarle con questi mezzi andrebbero perduti, e questo naturalmente non è ammissibile.
Perché certi colori e certi suoni, raggruppati in una certa maniera, procurino un certo piacere, può essere tanto poco spiegato quanto poco si può spiegare perché questo o quell’oggetto è gradevole all’odorato o al gusto. Si può, comunque, affermare fondatamente che gli stessi colori e suoni piacciono tanto a noi quanto agli animali inferiori».
Pertanto i fatti citati da Darwin valgono a testimoniare che anche gli animali inferiori — così come l’uomo — sono capaci di provare il piacere estetico, e che talora i nostri gusti estetici coincidono con quelli degli animali inferiori[18], Ma questi fatti non ci spiegano l’origine dei gusti suddetti. E se la biologia non ci spiega l’origine dei nostri gusti estetici, tanto meno essa può spiegarci il loro sviluppo storico. Ma lasciamo ancora parlare lo stesso Darwin:
«Il senso del bello, — prosegue Darwin, — almeno per quanto si riferisce alla bellezza femminile, non presenta un carattere fisso e determinato negli uomini. In effetti, esso si presenta sotto aspetti molto vari presso le varie razze umane — come vedremo in seguito — e non è identico neppure presso le singole nazioni di una stessa razza. A giudicare dai detestabili ornamenti e dalla musica altrettanto ripugnante, che mandano in estasi la grande maggioranza dei selvaggi, si potrebbe affermare che il loro concetto della bellezza è ancor meno sviluppato che non quello di alcuni animali inferiori, ad esempio degli uccelli».
Se il concetto della bellezza si presenta diverso presso singole nazioni di una stessa razza, è chiaro che non è nella biologia che bisogna cercare le cause di una tale varietà. Lo stesso Darwin ci dice dunque che le nostre ricerche debbono venire rivolte in un’al tra direzione. Nella seconda edizione inglese del suo libro, nel paragrafo da me citato qui sopra, troviamo le seguenti parole che non sono riportate nella traduzione russa eseguita sotto la redaziqne di I. M. Secenov seguendo la prima edizione inglese: «With cultiyated men such (cioè, estetiche) sensations are however intimately associated with complex ideas and trains of thought».
Ciò significa: «Negli uomini civili tali sensazioni appaiono tuttavia associate con complesse idee e correnti di pensiero». Questa è un’indicazione di estrema importanza. Essa infatti ci rimanda dalla biologia alla sociologia, giacché, evidentemente, proprio da cause sociali — secondo lo stesso Darwin — è determinato il fatto che in uomini civili le sensazioni estetiche appaiono associate con molte idee complesse. Ma ha ragione Darwin quando crede che una tale associazione si verifichi soltanto presso gli uomini civili? No, non ha. ragione, e di ciò è molto facile convincersi. Facciamo un esempio. E’ noto che le pelli, gli artigli e i denti degli animali occupano un posto molto importante tra gli ornamenti dei popoli primitivi. Come si spiega tale loro importanza? Grazie a una particolare combinazione di colori e di linee in questi oggetti? No, in questo caso la causa è da ricercarsi nel fatto che, adornandosi, ad esempio, con la pelle, gli artigli e le zanne di una tigre, oppure con la pelle e le corna di un bisonte, il selvaggio fa allusione alla propria destrezza o forza: chi ha vinto un animale agile, è agile egli stesso; chi ha vinto un animale forte, è anch’egli forte. E’ possibile che, oltre a questo, qui intervenga una qualche superstizione. Lo Schoolcraft c’informa che le tribù di pellerossa della regione occidentale dell’America del nord apprezzano straordinariamente gli ornamenti fatti con artigli di orso grigio, il più feroce tra i carnivori di quella regione. Il pellerossa crede che la ferocia e il coraggio dell’orso grigio si comunichino a chi si adorna dei suoi artigli. Pertanto questi artigli hanno per lui la funzione — come osserva Schoolcraft — in parte di ornamento e in parte di amuleto[19].
In questo caso, naturalmente, non si può supporre che le pelli, gli artigli e le zanne di animali siano inizialmente piaciuti ai pellerossa unicamente a causa delle combinazioni di colori e di linee proprie di questi oggetti[20]. No, è molto più verosimile l’ipotesi contraria, e cioè che questi oggetti in principio venissero portati solo come segno di coraggio, di agilità e di forza, e che soltanto in seguito, e proprio in conseguenza del fatto che essi erano segno di coraggio, di agilità e di forza, essi cominciassero a suscitare delle sensazioni estetiche e venissero inclusi nella categoria degli orna menti. Ne risulta che le sensazioni estetiche presso i selvaggi, non soltanto possono associarsi con delle idee complesse, ma talora proprio sorgono sotto l’influenza di tali idee.
Un altro esempio. E’ noto che le donne di molte tribù africane portano alle gambe e alle braccia degli anelli di ferro. Le mogli dei ricchi certe volte si portano addosso quasi un pud[21]di tali ornamenti[22].
Naturalmente ciò è molto scomodo, eppure la scomodità non impedisce loro di portarsi addosso con piacere queste — come le chiama Schweinfurth — catene servili. Perché una negra prova piacere a trascinarsi addosso certe catene? Perché grazie a queste catene essa appare bella a se stessa e agli altri. E perché appare bella? Ciò dipende da un’associazione di idee abbastanza complessa. La passione per certi ornamenti si sviluppa proprio presso quelle tribù che — secondo le parole di Schweinfurth — vivono ora l’età del ferro, e cioè — per dirla altrimenti — presso le quali il ferro è un metallo prezioso. Ciò ch’è prezioso appare bello perché ad esso viene associata l’idea della ricchezza. Mettendosi ad dosso, supponiamo, venti libbre di anelli di ferro, una donna della tribù Dinka appare più bella a se stessa e agli altri di quando ne portava soltanto due libbre, e cioè quando era più povera. E’ chiaro che qui non si tratta della ricchezza degli anelli, bensì di quell’idea di ricchezza che viene ad essi associata.
Un terzo esempio. Presso la tribù dei Batoka, nel corso superiore dello Zambesi, si considera brutto un uomo a cui non siano stati strappati gl’incisivi superiori. Da dove prende la sua origine un così strano concetto della bellezza? Anch’esso si è formato in conseguenza di un’associazione d’idee abbastanza complicata. Strappandosi gl’incisivi superiori i Batoka si sforzano di assomigliare a un ruminante. Ai nostri occhi, si tratta di un’aspirazione piuttosto incomprensibile. Ma i Batoka sono tribù di pastori che quasi divinizzano le loro vacche e i loro tori. Anche in questo caso è bello ciò ch’è prezioso, e le concezioni estetiche hanno origine da un’idea di ordine completamente diverso.
Infine prendiamo un esempio citato dallo stesso Darwin su una testimonianza di Livingstone. Le donne della tribù dei Makololo si bucano il labbro superiore e cacciano nel foro un grande anello metallico o di bambù che si chiama pelele. Quando a un capo di questa tribù venne chiesto perché le donne portassero certi anelli, egli «evidentemente sorpreso da una domanda così assurda», rispose: «Per bellezza! Questo è l’unico ornamento della donna. Gli uomini hanno la barba, e le donne no. Che cosa sarebbe una donna senza pelele?». E’ difficile ora dire con sicurezza da dove proviene l’abitudine di portare il pelele; ma è chiaro che l’origine di tale abitudine è da ricercarsi in un’associazione d’idee molto complessa, e non nelle leggi della biologia, con le quali evidentemente essa non ha neanche il minimo (diretto) rapporto[23].
Fondandomi su tali esempi, io mi considero in diritto di affermare che le sensazioni provocate da certe combinazioni di colori o dalla forma degli oggetti si associano — anche presso i popoli primitivi — con idee molto complesse, e che almeno molte di tali forme e combinazioni appaiono a quei popoli belle solo a causa di una tale associazione.
Da cosa viene determinata una tale associazione? E da dove provengono queste idee complesse che vengono associate con le sensazioni determinate in noi dall’aspetto degli oggetti? E’ chiaro che non il biologo, bensì soltanto il sociologo può rispondere a queste domande. Se la concezione materialistica della storia contribuirà alla soluzione di tali problemi più di qualsiasi altra concezione, e se giungeremo alla convinzione che la suddetta associazione e le suddette idee complesse sono condizionate e create in ultima analisi dallo stato delle forze produttive della società considerata e dalla sua economia, bisognerà necessariamente riconoscere che il darwinismo non contraddice affatto quella concezione materialistica della storia che io ho cercato di caratterizzare in precedenza.
Non posso parlare a lungo in questa sede dei rapporti intercorrenti tra il darwinismo e la concezione materialistica. Dirò tuttavia ancora qualche parola a questo proposito.
Consideri attentamente le righe riportate qui di seguito:
«Considero indispensabile dichiarare fin dal principio che io sono lontano dal pensare che ogni animale che vive in società, e le cui facoltà intellettuali si sviluppino fino a un’attività e a un livello analogo a quello dell’uomo, adotterà delle concezioni morali simili alle nostre.
Così come in tutti gli animali è presente il sentimento del bello, sebbene essi siano affascinati da oggetti estremamente vari, allo stesso modo essi possono avere anche un concetto del bene e del male, sebbene un tale concetto li induca a compiere azioni completamente opposte alle nostre.
Se, ad esempio — considero a bella posta un caso estremo — noi fossimo stati allevati in condizioni perfettamente analoghe a quelle in cui vengono allevate le api di alveare, non vi è il minimo dubbio che le nostre donne nubili — così come le api operaie — considererebbero loro sacro dovere uccidere i loro fratelli, le madri farebbero tutto il possibile per uccidere le loro figlie feconde, e a nessuno verrebbe in testa di protestare per questo. Cionondimeno l’ape (o qualsiasi altro animale che viva in società), a quanto mi sembra, dovrebbe avere nel caso succitato un concetto del bene e del male, ovvero la coscienza[24]».
Che cosa consegue dal passo citato? Il fatto che nelle concezioni morali degli uomini non v’è nulla di assoluto, e che esse invece mutano insieme al mutarsi delle condizioni in cui gli uomini si trovano a vivere.
E da che cosa sono create queste condizioni? Da cosa viene determinato il loro mutamento? Su questo punto Darwin non dice nulla; se quindi noi affermeremo e dimostreremo che esse vengono create dallo stato delle forze produttive e si mutano in conseguenza dello sviluppo ditali forze, non soltanto non ci troveremo in contraddizione con Darwin, ma al contrario completeremo quanto egli ha detto, spiegheremo ciò che resta in lui non spiegato, e faremo ciò avendo applicato allo studio dei fenomeni sociali quello stesso principio che ha reso a Darwin così notevoli servigi nel campo della biologia.
In generale appare stranissimo contrapporre il darwinismo alla concezione della storia da me difesa. Il campo di Darwin era tutt’altro. Egli considerava l’origine dell’uomo come varietà zoologica. I partigiani della concezione materialistica vogliono invece spiegare il destino storico di una tale varietà. Il campo della loro indagine comincia appunto proprio là dove finisce il campo esplorato dai darwinisti. I loro lavori non possono sostituire ciò che ci danno i darwinisti, e proprio allo stesso modo le più brillanti scoperte dei darwinisti non possono prendere per noi il posto delle loro ricerche, bensì possono soltanto preparar loro il terreno, così come il fisico prepara il terreno per il chimico, pur non negando minimamente con il suo lavoro la necessità di analisi propriamente chimiche[25]. Ecco dove sta tutta la questione. A suo tempo la teoria di Darwin apparve come un grande e indispensabile passo avanti nell’evoluzione della scienza biologica, soddisfacendo pienamente alle più rigorose esigenze che quella scienza poteva allora porre ai suoi cultori. Si può dire qualcosa di analogo sul conto della concezione materialistica della storia? Si può affermare che a suo tempo essa si è presentata come un grande e inevitabile passo avanti nello sviluppo della scienza sociale? Ed è essa attualmente capace di soddisfare tutte le sue esigenze? A ciò io rispondo con assoluta sicurezza: Sì, è possibile! Sì, ne è capace! E spero di dimostrare almeno parzialmente in queste lettere che una tale certezza non è priva di fondamento.
Ma torniamo all’estetica. Dalle sopraccitate parole di Darwin si vede che egli considera lo sviluppo dei gusti estetici dallo stesso punto di vista da cui considera quello dei sentimenti morali. Agli uomini, così come a molti animali, è proprio il senso del bello, e cioè essi hanno la capacità di sperimentare un piacere di particolare natura («estetica») sotto l’influsso di certe cose o certi fenomeni. Ma quali oggetti e quali fenomeni esattamente procurino loro un tale piacere, ciò dipende dalle condizioni sotto la cui influenza essi vengono educati, vivono e agiscono. La natura dell’uomo fa sì che in lui vi possano essere gusti e concetti estetici. Le circostanze che lo circondano determinano il passaggio di una tale potenzialità in realtà; in forza di tali circostanze si spiega il fatto che un certo uomo sociale (e cioè una certa società, un certo popolo, una certa classe) abbiano appunto questi particolari gusti e concetti estetici, e non altri.
Tale è la deduzione conclusiva che deriva di per sé da ciò che Darwin dice a questo proposito. E naturalmente una tale conclusione non verrà contestata da nessun partigiano della concezione materialistica della storia. Tutt’al contrario, ognuno di essi vedrà in una tale conclusione una nuova conferma della concezione materialistica. Infatti a nessuno di essi è mai venuto in mente di negare questa o quella delle qualità generalmente note della natura umana, o di abbandonarsi ad arbitrarie disquisizioni su tale natura. Essi si limitano a rilevare che se la natura umana fosse immutabile essa non sarebbe in grado di spiegare il processo storico che costituisce una somma di fenomeni in continuo mutamento, e che se invece tale natura muta di pari passo con l’evoluzione storica, deve evidentemente esservi una causa esteriore dei suoi cambiamenti. Sia nell’uno che nell’altro caso il compito dello storico e del sociologo oltrepassa di conseguenza di gran lunga i limiti di una considerazione sulle qualità della natura umana.
… Per quanto io ne so, Hyppolite Taine ha rilevato meglio di altri e più acutamente di ogni altro ha saputo definire l’importanza del principio dell’antitesi nella storia dei concetti estetici[26].
Nel suo acuto e interessante libro Voyage aux Pyrénées, Tai ne riporta la conversazione avuta con un «commensale», un certo signor Paul, il quale — come tutto sta a indicare — esprime le opinioni dello stesso autore: «Lei va a Versailles, — dice il signor Paul, — e rimane disgustato del cattivo gusto del XVII secolo … Ma rinunci per un attimo a giudicare dal punto di vista delle sue particolari necessità e delle sue personali abitudini … Noi abbiamo ragione di entusiasmarci alla vista di un panorama selvaggio così come avevano ragione gli uomini a cui un tale paesaggio ispirava soltanto una noia angosciosa. Per gli uomini del diciassettesimo secolo non c’era niente di più brutto di una montagna autentica[27], giacché essa richiamava alla loro mente una quantità di idee sgradevoli. Gli uomini che erano appena usciti dall’epoca delle guerre civili e della semibarbarie, alla vista di una montagna si ricordavano della fame, dei lunghi viaggi a cavallo sotto la pioggia o la neve, del cattivo pane nero, fatto per metà di crusca, che mangiavano in sporchi alberghi, infestati da parassiti. Quegli uomini erano stanchi di barbarie così come noi siamo stanchi di civiltà … Queste montagne … ci danno la possibilità di riposarci dimenticando i nostri marciapiedi, gli uffici e le botteghe. Un panorama selvaggio ci piace unicamente per questo motivo; se non intervenisse un tale motivo, esso ci apparirebbe altrettanto ripugnante quanto appariva un tempo a madame de Maintenon».
Il panorama selvaggio ci piace per contrasto con la vista del la città che ci ha così stancato. La vista della città con i suoi giardini ben curati piaceva agli uomini del diciassettesimo secolo per il suo contrasto con i luoghi selvatici. L’azione del «principio del l’antitesi» in questo caso è innegabile. Ma appunto perché innegabile, essa ci mostra all’evidenza in qual misura delle leggi psicologiche possono servire da chiave per la spiegazione della storia delle ideologie in generale e di quella dell’arte in particolare.
Il principio dell’antitesi svolse nella psicologia degli uomini del diciassettesimo secolo lo stesso ruolo che svolge anche in quella dei nostri contemporanei. E allora perché i nostri gusti estetici sono opposti ai gusti degli uomini del secolo diciassettesimo?
Perché noi ci troviamo in una situazione completamente di versa. Arriviamo dunque a una conclusione a noi già nota: la natura della psicologia umana fa sì che nell’uomo possano esser presenti dei concetti estetici e che il principio dell’antitesi di Darwin (che è quello di «contraddizione» di Hegel) svolga un ruolo estremamente importante — fino ad oggi insufficientemente considerato — nel meccanismo di tali concetti. Ma il fatto che un certo uomo sociale abbia proprio questi gusti e non altri, e che gli piacciano proprio questi oggetti e non altri, ciò dipende dalle particolari condizioni che lo circondano. L’esempio citato da Taine ci mostra inoltre con chiarezza quale sia il carattere ditali condizioni: da un tale esempio emerge che si tratta di condizioni sociali, il cui insieme viene definito — mi esprimo per ora in modo impreciso — dal cammino evolutivo della cultura umana[28].
A questo punto prevedo un’obiezione da parte sua. Lei mi dirà: «Ammettiamo che l’esempio citato da Taine indichi nelle condizioni sociali la causa che mette in azione le leggi fondamentali della nostra psicologia; ammettiamo che la stessa cosa venga dimostrata dagli esempi citati da lei. Ma non sarebbe possibile portare degli esempi che dimostrino qualcosa di completamente diverso? Non si conoscono forse degli esempi che dimostrano che le leggi della nostra psicologia entrano in azione sotto l’influenza della natura che ci circonda?».
Certo che si conoscono — rispondo io — e nell’esempio citato da Taine si parla appunto del nostro atteggiamento verso impressioni determinate in noi dalla natura. Ma il fatto è che l’influenza prodotta su di noi da tali impressioni muta in dipendenza dal modo in cui muta il nostro stesso rapporto con la natura, e quest’ultimo a sua volta viene determinato dal cammino evolutivo della nostra (e cioè sociale) cultura.
Nell’esempio citato da Taine si parla di paesaggio. La prego di notare, egregio signore, che nella storia della pittura il paesaggio è ben lontano dall’occupare sempre un posto di eguale importanza. Michelangelo e i suoi contemporanei l’hanno infatti trascurato. In Italia il paesaggio fiorisce solo alla fine del rinascimento, in una fase di decadenza.
Allo stesso modo, anche per i pittori francesi del diciassettesimo e perfino del diciottesimo secolo il paesaggio non ha importanza di per se stesso. Ma nel diciannovesimo secolo la situazione muta di colpo: il paesaggio comincia a venire apprezzato di per se stesso, e dei giovani artisti — Fiers, Cabat, Théodore Rousseau — cercano nel seno della natura, nei dintorni di Parigi, a Fontainebleau e a Meudon un’ispirazione di cui i pittori dell’epoca di Le Brun e Boucher non avevano nemmeno intravisto la possibilità. Perché mai questo? Perché in Francia sono mutati i rapporti sociali, e dietro di essi è mutata anche la psicologia dei francesi. Pertanto nelle varie epoche, corrispondenti a varie fasi di sviluppo sociale, l’uomo riceve dalla natura varie impressioni, e ciò per ché egli la considera da vari punti di vista.
L’azione delle leggi generali della natura psichica dell’uomo naturalmente non s’interrompe in nessuna di queste epoche. Ma giacché nelle varie epoche — in conseguenza della diversità esistente nei rapporti sociali — un materiale completamente diverso viene a riempire le teste umane, non c’è affatto da meravigliarsi che anche i risultati della elaborazione di tale materiale siano completamente diversi.
Ancora un esempio. Alcuni scrittori hanno espresso l’opinione che nell’aspetto esteriore dell’uomo ci appaia brutto tutto ciò che ci ricorda le caratteristiche degli animali inferiori. Questo è giusto se riferito ai popoli civili, sebbene anche in questo caso si diano non poche eccezioni: una «testa leonina» non sembrerà brutta a nessuno di noi. Comunque, nonostante tali eccezioni, in questo caso si può affermare che l’uomo, riconoscendo in se stesso un essere incomparabilmente superiore in confronto a tutti i suoi parenti del mondo animale, ha paura di assomigliar loro, e si sforza perfino di sottolineare, di esagerare la propria differenza nei confronti degli animali[29].
Ma se riferita ai popoli primitivi quest’affermazione è nettamente errata. E’ noto che alcuni di questi popoli si strappano gli incisivi superiori per assomigliare ai ruminanti, altri invece se limano per assomigliare ai predatori, mentre altri ancora s’intrecciano i capelli in modo tale da farne delle specie di corna, e così via quasi all’infinito[30].
Spesso quest’aspirazione a imitare gli animali è collegata con le credenze religiose dei popoli primitivi[31].
Ma ciò non cambia affatto le cose.
Infatti se l’uomo primitivo guardasse gli animali inferiori con i nostri occhi, probabilmente non vi sarebbe posto per loro nelle sue concezioni religiose. Invece egli li guarda diversamente. Ma perché diversamente? Perché egli si trova a un grado diverso di cultura. Ciò significa che, se in un caso l’uomo si sforza di assomigliare agli animali inferiori mentre in un altro egli si contrappone ad essi, ciò dipende dalle sue condizioni culturali, e cioè di nuovo da quelle condizioni sociali di cui ho parlato più sopra. Del resto, in questo caso posso esprimermi con maggior precisione; dirò dunque: ciò dipende dal grado di sviluppo delle sue forze produttive, dal suo modo di produzione. E per non venire accusato di esagerazione o di «unilateralità» introdurrò a parlare per me il già da me citato viaggiatore tedesco von den Steinen. «Noi riusciremo a comprendere questi uomini — dice von den Steinen, parlando degli amerindi brasiliani — soltanto quando cominceremo a considerarli come un prodotto della vita di caccia. La parte più importante di tutta la loro esperienza è collegata con il mondo degli animali, e la loro concezione del mondo si è formata sulla base di una tale esperienza. In conformità a ciò, anche i motivi ispiratori della loro arte vengono presi a prestito, con deprimente monotonia, dal mondo degli animali. Si può dire che tutta la loro arte straordinariamente ricca abbia le sue radici nella vita di caccia».
Già Černyševskij scrisse nella sua dissertazione Rapporti estetici tra l’arte e la realtà: «Nelle piante ci piace la vivacità del colore, il rigoglio e la ricchezza delle forme che rivelano una vita fresca e ricca di forze. Una pianta appassita non è bella; una pianta in cui siano scarsi i succhi vitali non è bella». La dissertazione di  è un esempio straordinariamente interessante e unico nel suo genere di applicazione dei principi generali del materialismo di Feuerbach alle questioni di estetica.
Ma la storia è sempre stata il tallone di Achille di un tale materialismo, e ciò lo si può constatare nelle righe da me qui sopra citate: « Nelle piante ci piace … ».
Ma chi è questo «ci»? Il fatto sta che i gusti degli uomini sono straordinariamente variabili, come più di una volta lo stesso Černyševskij ha avuto occasione di dirci in questa sua stessa opera. E’ noto che alcune tribù primitive, per esempio i boscimani e gli australiani, non si adornano mai di fiori, sebbene vivano in paesi che ne sono molto ricchi. Dicono che gl’indigeni della Tasmania costituissero un’eccezione sotto questo riguardo, ma ormai non siamo più in grado di controllare la veridicità di una tale affermazione: essi infatti sono estinti. In ogni caso si sa benissimo che nell’ornamentazione di alcuni popoli primitivi, o più esattamente di cacciatori, i quali prendono a prestito i loro motivi ornamentali dal mondo animale, le piante sono completamente assenti. La scienza contemporanea spiega un tale fatto esclusivamente fondandosi sullo stato delle forze produttive.
«I motivi ornamentali che le tribù di cacciatori prendono a prestito dalla natura comprendono esclusivamente aspetti animali o umani — afferma Ernest Grosse — essi quindi scelgono proprio quegli elementi che presentano ai loro occhi il massimo interesse pratico. La raccolta di piante — che pure, naturalmente, costituisce per lui una necessità — viene considerata dal cacciatore primitivo come un’occupazione di genere inferiore e lasciata alla donna, mentre egli stesso non se ne interessa affatto. In tal modo si spiega il fatto che nella sua ornamentazione non troviamo neppure una traccia di motivi vegetali, che invece sono così riccamente sviluppati nell’arte decorativa dei popoli civili. In effetti, il passaggio da motivi ornamentali animali a motivi vegetali costituisce il simbolo del maggior progresso mai compiuto nella storia della cultura: il passaggio dalla vita di cacciatore a quella di agricoltore»[32].
Se tutto ciò è giusto, noi possiamo adesso modificare la conclusione da noi tratta dalle parole di Darwin sopra riportate, nel modo seguente: la natura psicologica del cacciatore primitivo fa sì che egli possa avere dei gusti e dei concetti estetici in generale, ma la situazione delle forze produttive, la sua vita di cacciatore fa sì che in lui si formino proprio quei particolari gusti e concetti, e non altri. Una tale conclusione, che illumina di viva luce l’arte delle tribù cacciatrici, costituisce allo stesso tempo un ulteriore argomento a favore della concezione materialistica della storia.
(Presso i popoli civili la tecnica produttiva esercita molto più raramente un’influenza immediata sull’arte. Questo fatto, che apparentemente parla a sfavore della concezione materialistica della storia, in realtà ce ne offre la più brillante conferma. Ma di questo se ne parlerà in un’altra occasione)[33].
Passerò ora ad un’altra legge psicologica che svolge anch’essa un ruolo di grande importanza nella storia dell’arte e a cui non è stata rivolta tutta l’attenzione che merita.
Il Berton afferma che presso certi negri africani a lui noti l’orecchio musicale è poco sviluppato, mentre in compenso essi sono straordinariamente sensibili al ritmo: «Il rematore canta seguendo il ritmo del movimento dei suoi remi, il portatore canta lungo il cammino, la massaia canticchia a casa sua macinando il grano[34]. La stessa cosa dice il Casalis dei cafri della tribù dei Basuto, a lui ben noti: «Le donne di questa tribù portano alle braccia degli anelli di metallo che tintinnano a ogni loro movimento. Per macinare il loro grano in dei mulini a mano esse spesso si raccolgono insieme e accompagnano il movimento misurato delle loro mani con un canto che corrisponde esattamente al suono cadenzato emesso dai loro anelli. Gli uomini di quella stessa tribù, quando capita di conciare delle pelli, emettono ad ogni movimento uno strano suono di cui — dice il Casalis — io non riesco a spiegarmi il significato» . Nella musica a questa tribù piace specialmente il ritmo, e quanto più esso è accentuato in una certa melodia, tanto più essi apprezzano la melodia stessa. Durante le danze i Basuto battono il ritmo con i piedi e le mani, e per rafforzare i suoni prodotti in tal modo essi si appendono intorno al corpo dei sonagli di un tipo particolare. Nella musica degli amerindi brasiliani si avverte inoltre con molta forza il senso del ritmo, mentre invece essi sono molto deboli nella melodia e non hanno evidentemente neanche la più piccola idea dell’armonia[35]. Lo stesso dobbiamo dire degl’indigeni australiani[36]. Insomma per tutti i popoli primitivi il ritmo riveste effettivamente una colossale importanza. La sensibilità al ritmo — come in generale la facoltà musicale — costituisce evidentemente una delle fondamentali qualità della natura psicofisiologica dell’uomo. E non soltanto dell’uomo. «La capacità — se non di godere — per Io meno di avvertire la musicalità della cadenza e del ritmo è evidentemente propria a tutti gli animali — dice Darwin — e senza dubbio dipende dalla comune natura fisiologica del loro sistema nervoso»[37]. In considerazione di ciò, si potrebbe forse supporre che quando si manifesta questa facoltà comune all’uomo e agli altri animali, una tale manifestazione non dipenda dalle condizioni della vita sociale dell’uomo in generale e in particolare dallo stato delle sue forze produttive. Ma sebbene una tale ipotesi appaia a prima vista estremamente logica e naturale, essa in realtà non resiste alla critica dei fatti. La scienza ha infatti dimostrato che un tale legame esiste. E la prego di notare, egregio signore, che la scienza ha fatto ciò nella persona di uno dei più notevoli economisti: Karl Bücher.
Come si constata dai fatti da me sopra citati, la facoltà propria dell’uomo di avvertire il ritmo e di goderne fa sì che il produttore primitivo si sottoponga volentieri, nel corso del processo produttivo, a una certa cadenza, e che accompagni i suoi movimenti di lavoro con ritmati suoni della voce o con il suono cadenzato di appendici di vario genere. Ma da cosa dipende la cadenza a cui si attiene il produttore primitivo? Perché nel corso dei suoi movimenti produttivi egli si attiene appunto a quella, e non a una cadenza diversa? Ciò dipende dal carattere tecnologico di quel particolare processo produttivo, dalla tecnica di quella particolare produzione. Presso le tribù primitive ogni tipo di lavoro possiede un proprio canto, un motivo che è sempre adattato molto precisamente al ritmo dei movimenti produttivi propri di questo genere di lavoro. Con lo sviluppo delle forze produttive l’importanza dell’attività ritmica s’indebolisce nel processo produttivo; tuttavia anche presso i popoli civili — per esempio nei villaggi tedeschi — ogni stagione possiede — secondo l’espressione di Bücher — i suoi peculiari suoni lavorativi, e ogni lavoro possiede una sua peculiare musica[38].
Bisogna inoltre osservare che, in dipendenza da come viene svolto il lavoro — da un produttore unico o da tutto un gruppo — si hanno canzoni per un cantore unico o per tutto un coro, e le stesse canzoni per coro si suddividono in varie categorie. In tutti questi casi il ritmo della canzone viene rigorosamente definito dal ritmo del processo produttivo. Non solo; il carattere tecnologico di tale processo produttivo esercita una decisiva influenza anche sul contenuto dei canti che accompagnavano il lavoro. Lo studio dello scambievole rapporto esistente tra il lavoro, la musica e la poesia condusse Bücher alla conclusione che «al primo gradino di sviluppo il lavoro, la musica e la poesia erano reciprocamente collegati nel modo più stretto, ma l’elemento fondamentale di questa triade era costituito dal lavoro, mentre gli altri elementi avevano solo un’importanza subordinata».
Dal momento che i suoni che accompagnano molti processi produttivi hanno già di per se stessi un effetto musicale e dal momento che — per giunta — per i popoli primitivi l’elemento essenziale della musica è il ritmo, non è difficile capire in che modo le loro semplici creazioni musicali siano sorte dai suoni originati dal contatto degli strumenti di lavoro con il loro oggetto. Ciò avveniva attraverso il rafforzamento dei suoni suddetti, mediante l’introduzione di una certa varietà nel loro ritmo e in generale attraverso l’adattamento dei suoni stessi all’espressione dei sentimenti umani. Ma per far ciò era necessario modificare per prima cosa gli strumenti di lavoro, i quali in tal modo si trasformarono in strumenti musicali.
Prima degli altri dovettero subire una tale trasformazione quegli strumenti con l’ausilio dei quali il produttore semplicemente batteva l’oggetto del suo lavoro. E’ noto che il tamburo è straordinariamente diffuso tra i popoli primitivi, e presso molti di essi esso resta fino ad oggi l’unico strumento musicale. Gli strumenti a corda appartengono inizialmente alla stessa categoria, giacché i primi musicanti suonano battendo sulle corde. Gli strumenti a fiato presso i popoli primitivi restano senz’altro in secondo piano: più frequentemente degli altri s’incontra il flauto, il cui suono spesso accompagna alcuni lavori di gruppo allo scopo di conferire ad essi una ritmica regolarità. Non posso in questa sede esporre dettagliatamente le opinioni di Bücher sul sorgere della poesia; sarà più pratico farlo in una delle prossime lettere. Dirò brevemente che Bücher è convinto che il sorgere della poesia fu determinato da energici e ritmici movimenti del corpo, e in particolare da quei movimenti che noi chiamiamo lavoro, e che una tale ipotesi è esatta non soltanto riguardo alla forma poetica, bensì anche riguardo al contenuto.
Se sono giuste le notevoli conclusioni del Bücher, noi abbiamo il diritto di affermare che la natura umana (la natura fisiologica del sistema nervoso dell’uomo) ha dato all’uomo la facoltà di cogliere la musicalità del ritmo e di goderne, mentre la tecnica della sua produzione ha determinato la sorte ulteriore di una tale facoltà.
I ricercatori già da un pezzo hanno constatato lo stretto legame esistente tra la condizione delle forze produttive dei cosiddetti popoli primitivi e la loro arte. Ma giacché essi, nella loro enorme maggioranza, erano partigiani di una concezione idealistica, riconoscevano l’esistenza di tale collegamento come a malincuore e ne davano una spiegazione erronea. Così, il noto storico dell’arte Wilhelm Lübke afferma che presso i popoli primitivi le opere d’arte portano impresso su di sé il marchio della necessità naturale, mentre presso le nazioni civili esse sono compenetrate dalla coscienza spirituale. Una simile contrapposizione non è sostenuta da null’altro che da un pregiudizio idealistico. In realtà, le opere d’arte dei popoli civili sono sottoposte alla necessità non meno di quelle dei popoli primitivi. La differenza consiste soltanto nel fatto che nei popoli civili scompare la dipendenza immediata dell’arte dalla tecnica e dai modi di produzione. So naturalmente che si tratta di una grandissima differenza. Ma so anche che essa non è determinata da nient’altro se non appunto dallo sviluppo delle forze produttive sociali che determinano la divisione del lavoro sociale tra le varie classi. Una tale differenza quindi non smentisce la considerazione materialistica della storia, bensì al contrario ci offre una decisiva testimonianza a suo favore.
Voglio ancora parlare della «legge della simmetria». La sua importanza è grande e indubitabile. Su che cosa essa si fonda? Verosimilmente sulla struttura dello stesso corpo umano, così come del corpo degli animali; è privo di simmetria soltanto il corpo degli storpi o dei mostri, i quali hanno sempre prodotto un’impressione spiacevole su un uomo fisicamente normale. Quindi la facoltà di godere della simmetria ci viene anch’essa data dalla natura. Ma non si può sapere in quale misura una tale facoltà si svilupperebbe se essa non venisse rafforzata ed educata dallo stesso modo di vita degli uomini primitivi. Noi sappiamo che l’uomo primitivo è prevalentemente un cacciatore. Un tale modo di vita fa sì — come già sappiamo — che nella sua ornamentazione predominino i motivi presi a prestito dal mondo animale. E ciò costringe il pittore primitivo a fare attentamente e molto presto i conti con la legge della simmetria[39].
Il fatto che il senso della simmetria proprio dell’uomo venga educato appunto da questi modelli lo si vede dalla circostanza che nella loro ornamentazione i selvaggi (e non i selvaggi soltanto) apprezzano più la simmetria orizzontale che non quella verticale: osservate la figura del primo uomo o animale che incontrate (naturalmente purché non sia un mostro) e vedrete che gli è propria la simmetria del primo e non del secondo tipo. Inoltre bisogna considerare il fatto che le armi e gli oggetti di casa dovevano spesso avere una forma simmetrica già solo per il loro carattere e la loro destinazione. Infine se è vero — secondo l’esattissima osservazione del Grosse — che il selvaggio australiano dipingendo il proprio scudo riconosce l’importanza della simmetria nella stessa misura in cui la riconoscevano i civilissimi costruttori del Partenone, è chiaro che il senso della simmetria di per se stesso non spiega proprio nulla nella storia dell’arte, e che anche in questo caso — come in tutti gli altri — dobbiamo ripetere: la natura conferisce all’uomo una determinata facoltà, ma l’esercizio e l’applicazione pratica di essa sono determinati dal processo di sviluppo della sua cultura[40].
Ricorro intenzionalmente anche qui ad un’espressione indeterminata: cultura. Avendo letto ciò, lei esclamerà con fuoco:«Ma chi mai ha negato ciò? Noi diciamo soltanto che lo sviluppo della cultura non è condizionato soltanto dallo sviluppo delle forze produttive né dalla sola economia!».
Ahimé! Conosco anche troppo bene certe obiezioni! E confesso che non ho mai potuto capire come mai anche delle persone intelligenti possano non accorgersi del gravissimo errore logico che si trova alla base stessa di tali obiezioni.
In sostanza lei vorrebbe, egregio signore, che il cammino della cultura venisse determinato anche da altri «fattori». lo allora le domando: l’arte rientra nel numero di tali fattori? Naturalmente lei risponderà di sì; e allora ecco che noi veniamo a trovarci nella situazione seguente: il cammino seguito dallo sviluppo della cultura umana viene determinato, tra l’altro, dall’evoluzione dell’arte, mentre l’evoluzione dell’arte viene determinata dal cammino seguito dallo sviluppo della cultura umana. E la stessa cosa lei dovrà ripetere a proposito di tutti gli altri «fattori»: dell’economia, del diritto civile, delle istituzioni politiche, della morale e così via. E allora ecco cosa ne verrà fuori: il cammino seguito dall’evoluzione della cultura umana viene determinato dall’azione di tutti i suddetti fattori, mentre l’evoluzione di tutti i suddetti fattori viene determinato dal cammino seguito dall’evoluzione della cultura. Si tratta quindi del solito, antico vizio logico in cui incappavano un tempo così vistosamente i nostri antenati: — Su cosa poggia la terra? — Sulle balene. — E le balene? — Sull’acqua. — E l’acqua? — Sulla terra. — E la terra? — Sulle balene, e così via, sempre in questo stesso assurdo ordine[41].
Lei converrà che svolgendo delle ricerche su seri problemi di evoluzione sociale è possibile e necessario, finalmente, tentare di ragionare in modo più serio.
Io sono profondamente convinto che da oggi la critica (o meglio, la teoria scientifica dell’estetica) sarà in condizione di avanzare solo a patto di fondarsi sulla concezione materialista della storia. Io penso inoltre che nel suo precedente sviluppo la critica si è costruita una base tanto più solida quanto più i suoi rappresentanti si sono avvicinati alla concezione storica da me difesa.
Per fare un esempio prenderò in considerazione l’evoluzione della critica in Francia.
Questa evoluzione è strettamente collegata con lo sviluppo delle generali idee storiche. Gl’illuministi del diciottesimo secolo — come ho già detto — consideravano la storia da un punto di vista idealistico. Essi vedevano nell’accumulazione e nella diffusione delle conoscenze la causa essenziale, che si trovava al disotto dì tutte le altre, del movimento storico dell’umanità. Ma se i successi delle scienze e in genere il movimento del pensiero umano rappresentassero effettivamente la causa più importante e più profonda del movimento storico, è naturale che ci si ponga la domanda: da che cosa è condizionato lo stesso moto del pensiero? Dal punto di vista del diciottesimo secolo a una tale domanda era possibile dare soltanto una risposta: dalla natura dell’uomo, dalle immanenti leggi di sviluppo del suo pensiero. Ma se la natura dell’uomo condiziona tutto lo sviluppo del suo pensiero, è chiaro che da essa viene condizionata anche l’evoluzione della letteratura e dell’arte. Dunque la natura dell’uomo — e soltanto essa — può e deve darci la chiave per la comprensione dell’evoluzione della letteratura e dell’arte nel mondo civile.
Le caratteristiche della natura umana fanno sì che l’uomo passi attraverso varie età: l’infanzia, la giovinezza, la maturità e così via. Anche la letteratura e l’arte, nel corso della loro evoluzione, passeranno attraverso queste età.
«Quale popolo non fu dapprima poeta e quindi pensatore?» si chiede Grimm nella sua Correspondance littéraire, intendendo con ciò dire che il fiorire della poesia corrisponde all’infanzia e alla giovinezza dei popoli, mentre i successi della filosofia corrispondono all’età matura. Questa opinione del diciottesimo secolo venne ereditata dal diciannovesimo. La incontriamo perfino nel famoso libro della signora de Staël: De la littérature dans ses rapports avec les institutions sociales, dove s’incontrano allo stesso tempo dei germi molto significativi di un’opinione completamente diversa. «Studiando le tre diverse epoche di sviluppo della letteratura greca, — dice la signora de Staël — noi possiamo osservare in esse il naturale cammino dell’intelletto umano. Omero caratterizza la prima epoca; all’epoca di Pericle fiorisce rigogliosa l’arte drammatica, l’eloquenza e la morale, e anche la filosofia muove i suoi primi passi; all’epoca di Alessandro un più profondo studio delle scienze filosofiche diventa la principale occupazione degli uomini che si presentano nell’agone letterario. Naturalmente è indispensabile un certo grado di sviluppo dell’intelletto umano per poter raggiungere i più alti vertici della poesia; tuttavia questo aspetto della letteratura dovrà perdere alcune delle sue più brillanti caratteristiche all’epoca in cui, grazie al progresso, alla civiltà e alla filosofia, si correggeranno alcuni errori dell’immaginazione».
Ciò significa che quando un popolo esce dall’epoca della giovinezza la poesia deve immancabilmente conoscere una certa decadenza.
La signora di Staël sapeva che i popoli nuovi, nonostante tutti i successi ottenuti dalla loro intelligenza, non avevano dato una sola opera poetica che si potesse collocare al disopra dell’Iliade o dell’Odissea. Una tale circostanza minacciava di scuotere la sua certezza in un continuo e inarrestabile perfezionamento dell’umanità, e pertanto essa non voleva abbandonare la teoria delle varie età ereditata dal XV secolo, teoria che dava la possibilità di superare agevolmente la suddetta difficoltà.
In effetti noi vediamo che dal punto di vista dì questa teoria la decadenza della poesia costituiva un segno della virilità intellettuale raggiunta dai popoli civili del nuovo mondo. Ma quando la signora de Staël tralasciando i confronti, passa alla storia della letteratura dei nuovi popoli, essa si dimostra capace di considerarla da un punto di vista completamente diverso. Sotto questo rapporto appaiono particolarmente interessanti quei capitoli del suo libro in cui si parla della letteratura francese. «La gaiezza francese, il buon gusto francese diventarono proverbiali in tutti i paesi europei — osserva l’autrice in uno di questi capitoli — buon gusto e allegria che vengono generalmente attribuiti al carattere nazionale; ma che cos’è il carattere di un certo popolo se non il risultato delle istituzioni e delle condizioni che esercitano un’influenza sulla sua prosperità, i suoi interessi e le sue abitudini? Nel corso di questi ultimi dieci anni, perfino nei momenti di massimo ristagno del movimento rivoluzionario, neppure i contrasti più piccanti servirono da pretesto per un solo epigramma o per un solo motto di spirito. Molti degli uomini che hanno avuto una grande influenza sul destino della Francia erano completamente privi sia di eleganza di espressione che di prontezza d’ingegno; è perfino probabile che una parte della loro influenza fosse dovuta alla loro tetraggine, taciturnità e fredda crudeltà». Per noi non è importante in questa sede né stabilire a chi si allude in queste righe, né in qual misura l’allusione in esse contenuta sia in accordo con la realtà. Noi dobbiamo osservare soltanto questo, e cioè che secondo la signora de Staël il carattere nazionale è un prodotto delle condizioni storiche. Ma cos’è il carattere nazionale se non la natura dell’uomo così com’essa si manifesta nelle peculiarità spirituali di una determinata nazione?
E se la natura di una determinata nazione è un prodotto della sua evoluzione storica, è evidente che essa non poté essere il primo motore di una tale evoluzione. Da ciò discende che la letteratura — che è il riflesso della natura spirituale della nazione — è un prodotto di quelle stesse condizioni storiche da cui è creata questa stessa natura spirituale. Ciò significa che non la natura del l’uomo, non il carattere di un determinato popolo, bensì la sua storia e il suo assetto sociale ci spiegano la sua letteratura. E appunto da questo punto di vista la signora de Staël considera la letteratura francese. Il capitolo da lei dedicato alla letteratura francese del diciassettesimo secolo costituisce un tentativo straordinariamente interessante di spiegare il carattere predominante di questa letteratura attraverso i rapporti politico-sociali della Francia di allora e la psicologia della nobiltà francese considerata nei suoi rapporti con il potere monarchico.
Qui s’incontrano molte osservazioni straordinariamente sottili relative alla psicologia della classe allora dominante, nonché alcune considerazioni molto felici relative al futuro della letteratura francese. «Con il nuovo assetto politico della Francia — comunque tale assetto venga organizzato — noi non vedremo più nulla di simile (alla letteratura del diciassettesimo secolo) — dice la signora de Staël — e con ciò verrà convincentemente dimostrato che la cosiddetta arguzia e la cosiddetta eleganza francese erano soltanto un prodotto immediato e inevitabile delle istituzioni e dei costumi monarchici, così com’essi erano esistiti in Francia nel corso di molti secoli». Questa nuova considerazione, secondo la quale la letteratura è un prodotto dell’assetto sociale, diventò a poco a poco predominante nella critica europea del diciannovesimo secolo.
In Francia venne ripetuta da Guizot nei suoi articoli letterari[42].Venne espressa anche da Sainte Beuve, che in realtà l’accolse non senza riserve; infine essa trovò completa e brillante espressione nei lavori di Taine.
Taine si atteneva saldamente alla convinzione che «ogni cambiamento nella situazione degli uomini determina un mutamento nella loro psiche».
Ma la letteratura e l’arte di ogni singola società si spiegano appunto con la loro psiche, giacché le «opere dello spirito umano, così come quelle della natura vivente, si spiegano soltanto mediante l’ambiente». Pertanto, per comprendere la storia dell’arte e della letteratura di questo o quel paese è necessario studiare la storia di quei cambiamenti che si sono prodotti nella situazione dei loro abitanti. Questa è una verità indubitabile. E’ sufficiente leggere la Philosophie de l’art, l’Histoire de la littérature anglaise o il Voyage en Italie per trovare una quantità di chiare e geniali illustrazioni di tale teoria. Ma Taine, così come la signora de Staël e gli altri suoi predecessori, si attiene tuttavia alla considerazione idealistica della storia, e ciò gl’impedì di trarre da quella verità, da lui così chiaramente e brillantemente illustrata, tutta l’utilità che potrebbe trarne uno storico della letteratura e dell’arte.
Giacché l’idealista considera i successi dell’intelligenza umana come la causa ultima del movimento storico, è evidente che per Taine doveva risultare che la psiche degli uomini viene determinata dallaloro situazione, e la situazione a sua volta dalla loro psiche. Di qui ha origine tutta una serie di contraddizioni e di difficoltà da cui Taine, come i filosofi del XVIII secolo, esce soltanto appellandosi alla natura umana, che in lui si presenta sotto l’aspetto della razza. Quali porte gli abbia aperto una tale chiave Io si vede bene dal seguente esempio. E’ noto che la rinascenza ha avuto inizio in Italia prima che in ogni altro luogo, e che l’Italia ha abbandonato il tipo di vita medievale prima degli altri paesi. Da che cosa venne determinato un tale cambiamento nella situazione degli italiani? Dalle facoltà della razza italiana, risponde Taine[43]. Lascio a lei giudicare quanto sia soddisfacente una tale spiegazione, e passo a un altro esempio. A Roma, a palazzo Sciarra, Taine vede un paesaggio del Poussin, e osserva a questo proposito che gli italiani, per le peculiari qualità della loro razza, comprendono il paesaggio in un modo particolare: per loro esso è la villa, solo che si tratta di una villa di notevoli dimensioni, mentre invece la razza germanica ama la natura di per se stessa. Ma in un altro luogo lo stesso Taine a proposito di un paesaggio dello stesso Poussin dice: «Per saperne godere, bisogna amare la tragedia (classica), il verso classico, lo sfarzo dell’etichetta e la maestà aristocratica o monarchica. Tali sentimenti sono infinitamente lontani dai sentimenti dei nostri contemporanei». Tuttavia bisogna chiedersi: perché mai i sentimenti dei nostri contemporanei sono così diversi dai sentimenti degli uomini che amano la sfarzosa etichetta, la tragedia classica e il verso alessandrino? Forse perché, mettiamo, i francesi del tempo del Re Sole erano uomini di una razza diversa rispetto ai francesi del XIX secolo? Strana domanda! Eppure lo stesso Taine ci ha ripetuto con insistenza e con convinzione che la psiche degli uomini cambia seguendo i mutamenti della loro situazione. Noi non l’abbiamo dimenticato, e ripetiamo con lui: la condizione degli uomini del nostro tempo è straordinariamente lontana dalla condizione degli uomini del XVIII secolo, e proprio per questo i loro sentimenti non sono simili a quelli dei contemporanei di Boileau e di Racine. Resta da sapere perché è mutata la situazione, e cioè perché l’ancien régime ha lasciato il posto all’attuale regime borghese, e come mai la borsa governa oggi in quello stesso paese dove Luigi XIV poteva dire, quasi senza esagerazione: «Lo stato sono io!». Ma a questa domanda può rispondere in maniera assolutamente soddisfacente la storia economica di quel paese.
Le sarà noto, egregio signore, che a Taine sono state mosse delle obiezioni da parte di scrittori che si attenevano a punti di vista estremamente vari. Io non so cosa pensi lei di tali obiezioni, ma io dico che nessun critico di Taine è riuscito anche soltanto a far vacillare la tesi a cui si può riportare quasi tutto ciò che c’è di vero nella sua teoria estetica, tesi che afferma che l’arte è un prodotto della psiche umana, e che la psiche umana muta a seconda del variare della situazione umana. E allo stesso modo nessuno di quei critici ha scoperto quella fondamentale contraddizione che rende impossibile un ulteriore fruttuoso sviluppo delle opinioni di Taine; nessuno si è accorto che, attenendosi alle sue opinioni sulla storia, la psiche degli uomini, determinata dalla loro situazione, viene essa stessa ad essere la causa ultima di tale situazione. Come mai nessuno ha rilevato ciò? Ma perché questa contraddizione permeava di sé le loro stesse concezioni della storia. Ma cos’è questa contraddizione? Di quali elementi essa si compone? Essa si compone di due elementi, l’uno dei quali si chiama concezione idealistica e l’altro concezione materialistica della storia. Quando Taine diceva che la psiche degli uomini si muta secondo i mutamenti della loro situazione egli era un materialista, ma quando quello stesso Taine diceva invece che la situazione degli uomini era determinata dalla loro psiche, non faceva che ripetere la concezione idealistica propria del XVIII secolo. E’ appena il caso di aggiungere che certo non da quest’ultima concezione gli sono state suggerite le sue più felici intuizioni sulla storia della letteratura e dell’arte.
Che cosa deduciamo da ciò? Ecco cosa ne deduciamo: liberarsi dalla su indicata contraddizione che ostacolava il fruttuoso sviluppo delle acute e profonde concezioni dei critici francesi dell’arte avrebbe potuto farlo soltanto un uomo che dicesse a se stesso: l’arte di ogni popolo viene determinata dalla sua psiche; la sua psiche a sua volta è un prodotto della sua situazione, e la sua situazione è condizionata in ultima analisi dallo stato delle sue forze produttive e dai suoi rapporti di produzione. Ma chi avesse detto tutto ciò, avrebbe con ciò stesso espresso una concezione materialistica della storia …
Comunque mi accorgo che per me è ormai tempo di farla finita. Alla prossima lettera! Mi voglia scusare se mi è accaduto di irritarla con l’angustia delle mie concezioni. La prossima volta parlerò dell’arte presso i popoli primitivi, e spero in quell’occasione di dimostrarLe che le mie concezioni non sono affatto così anguste come Le era parso, e come forse Le sembra ancora adesso.

LETTERA SECONDA
…La soluzione del problema del rapporto in cui il lavoro viene a trovarsi nei confronti del gioco, o — se volete — il gioco nei confronti del lavoro, è estremamente importante per chiarire la genesi dell’arte. Pertanto io La invito, egregio signore, ad ascoltare attentamente e a ponderare accuratamente tutto ciò che Bücher dice a questo proposito. Lasciamo quindi che Bücher stesso esponga il suo modo di vedere.
«L’uomo che oltrepassa i confini della semplice ricerca del cibo viene probabilmente spinto a ciò da istinti simili a quelli che si osservano presso gli animali superiori, e in particolare dall’istinto d’imitazione e dall’istintiva, inclinazione ad esperimenti di ogni genere. L’addomesticamento degli animali casalinghi, ad esempio, ha inizio non dagli animali utili, bensì da quelli che l’uomo mantiene solo per suo piacere. Lo sviluppo dell’industria manifatturiera ha evidentemente avuto dunque inizio dalla colorazione del corpo, dal tatuaggio, dalla perforazione o altra forma di mutilazione di singole parti del corpo, in conseguenza delle quali si sviluppa a poco a poco la preparazione di ornamenti, di maschere, disegni su corteccia d’albero, geroglifici e simili occupazioni … Quindi le capacità tecniche si elaborano durante i giochi, e solo gradualmente ricevono un’applicazione utile. Pertanto bisogna presupporre un ordine di successione dei vari gradi di sviluppo nettamente opposto a quello prima accettato: il gioco è più antico del lavoro e l’arte è più antica della produzione di oggetti utili».[44]
Ha sentito bene: il gioco è più antico del lavoro e l’arte è più antica della produzione di oggetti utili.
Ora le sarà chiaro perché io l’ho pregata di fare la massima attenzione alle parole di Bücher: esse infatti si trovano in strettissimo rapporto con la teoria della storia da me difesa. Se il gioco è effettivamente più antico del lavoro e se l’arte è davvero più antica della produzione di oggetti utili, allora la spiegazione materialistica della storia — almeno nella forma che le venne conferita dall’autore del Capitalenon resiste alla critica dei fatti, e tutto il mio ragionamento dovrebbe venir capovolto: dovrei parlare della dipendenza dell’economia dall’arte, e non dell’arte dall’economia. Ma ha ragione Bücher?
Controlliamo anzitutto le sue affermazioni a proposito del gioco. Dell’arte parleremo in seguito.
Secondo Spencer, il principale tratto distintivo del gioco consiste nel fatto che esso non facilita direttamente i processi indispensabili per il sostentamento della vita. L’attività di chi gioca non persegue un determinato scopo utilitario. E’ vero che l’esercizio degli organi messi in moto dal gioco è utile tanto per l’individuo che gioca, quanto, in ultima analisi, per tutta la tribù. Ma l’esercizio si ha anche in un’attività che persegue fini utilitaristici. La questione non sta nell’esercizio, bensì nel fatto che l’attività utilitaristica, oltre l’esercizio e il piacere che esso ci procura, porta anche al raggiungimento di un qualche scopo pratico, ad esempio ad ottenere il cibo, mentre invece nel gioco un tale scopo è assente. Quando un gatto acchiappa un sorcio, oltre al piacere che gli procura l’esercizio dei suoi organi, esso ottiene anche un ghiotto boccone, mentre quando quello stesso gatto corre dietro un gomitolo di filo che rotola sul pavimento esso non ottiene nulla, eccettuato il piacere che il gioco gli procura. Ma se le cose stanno così, com’è potuta sorgere una tale attività priva di scopo?
E’ noto come Spencer risponde a questa domanda: negli animali inferiori tutte le forze dell’organismo si spendono nell’esecuzione delle funzioni indispensabili per il sostentamento della vita. Gli animali inferiori conoscono soltanto l’attività utilitaristica. Ma ai gradi superiori della vita animale le cose non stanno più così. Qui non tutte le forze vengono inghiottite dall’attività utilitaristica. Grazie alla migliore alimentazione, nell’organismo si accumula un certo residuo di forza che esige uno sfogo, e quando l’animale gioca ubbidisce appunto a questa esigenza. Il gioco è un artificiale esercizio della forza[45].
Tale è l’origine del gioco. Ma qual’è il suo contenuto? In altre parole: se è vero che nel gioco l’animale esercita le proprie forze, come mai un animale le esercita in un dato modo, e un altro in un modo diverso? Come mai ad animali di razze diverse sono propri e peculiari giochi diversi?
Secondo le parole di Spencer, gli animali da preda ci mostrano chiaramente che il loro gioco consiste in una caccia e in un lotta simulate. Tutto il loro gioco consiste in una «rappresentazione drammatica dell’inseguimento della preda, e cioè in un’ideale soddisfazione degl’istinti distruttivi, in assenza di una soddisfazione reale». Che cosa significa ciò? Ciò significa che negli animali il contenuto del gioco viene determinato dall’attività mediante la quale essi si mantengono in vita. E quindi cos’è che precede: il gioco precederà l’attività utilitaristica o l’attività utilitaristica il gioco? E’ chiaro che l’attività utilitaristica precede il gioco, che la prima è «più antica» del secondo. E cosa vediamo negli uomini? «I giochi dei bambini: cullare la bambola, giocare agli ospiti e così via, sono delle rappresentazioni teatrali delle occupazioni degli adulti». Ma quali scopi perseguono gli adulti nella loro attività? Nell’immensa maggioranza dei casi essi perseguono degli scopi utilitaristici. Ciò significa che anche presso gli uomini l’attività che persegue fini utilitaristici, o per dirla altrimenti, l’attività necessaria per il sostentamento delle singole persone e di tutta la società, precede il gioco e ne determina il contenuto. Tale è la conclusione che deriva logicamente da ciò che Spencer dice del gioco.
Questa logica conclusione coincide perfettamente con l’idea che su tale argomento professa Wilhelm Wundt.
«Il gioco è figlio del lavoro, — afferma il noto psico-fisiologo. — Non esiste una sola forma di gioco che non abbia il suo modello in qualche tipo di occupazione seria, la quale — come s’intende da sé — naturalmente la precede nel tempo. Giacché è la necessità vitale che costringe al lavoro, e nel lavoro l’uomo a poco a poco impara a considerare come un piacere la messa in opera della propria forza»[46].
Il gioco sorge dall’aspirazione a provare nuovamente il piacere determinato in noi della messa in opera della nostra forza. E quanto più grande è la provvista di forza, tanto maggiore è l’aspirazione al gioco, a patto naturalmente che le altre condizioni rimangano immutate. Non vi è nulla di più facile che convincersi pienamente di ciò.
Qui, come sempre, illustrerò e chiarirò il mio pensiero ricorrendo a degli esempi.
E’ noto che i selvaggi nelle loro danze riproducono spesso i movimenti di vari animali[47]. Come si spiega ciò? Semplicemente con l’aspirazione a provare di nuovo il piacere determinato dall’impiego della propria forza nella caccia. Guardate come l’esquimese va a caccia di foche: striscia sulla pancia dietro di loro; si sforza di tenere la testa nella stessa posizione in cui la tengono le foche; imita tutti i loro movimenti, e solo quando è riuscito ad arrivare a distanza ravvicinata si decide infine a sparare[48]. L’imitazione dei movimenti dell’animale costituisce dunque una parte molto importante della caccia. Non c’è da meravigliarsi quindi che quando il cacciatore avverte il desiderio di provare nuovamente il piacere originato dall’impiego della sua forza nella caccia, egli si metta ad imitare i movimenti degli animali creando un’originale danza di caccia. Ma da che cosa è determinato in questo caso il carattere della danza, e cioè del gioco? Dal carattere dell’occupazione seria, e cioè della caccia. Il gioco è figlio del lavoro, e quest’ultimo lo precede necessariamente nel tempo.
Un altro esempio. Presso una tribù brasiliana von den Steinen assistette a una danza che rappresentava con sconvolgente drammaticità la morte di un guerriero ferito[49]. Che ne pensa Lei, qual’era l’elemento che precedeva l’altro in questo caso: la guerra precedeva la danza, o la danza precedeva la guerra? Io penso che dapprima vi fu la guerra, e poi sorsero delle danze che rappresentavano varie scene di guerra; dapprima vi fu l’impressione prodotta sul selvaggio dalla morte del suo compagno ferito durante la guerra, e poi si ebbe l’aspirazione a riprodurre tale impressione mediante la danza. Se ho ragione in questo — e ne sono assolutamente certo io ho qui il pieno diritto di affermare che l’attività che persegue un fine utilitaristico è più antica del gioco, e che il gioco ne è il figlio.
Bücher forse direbbe che tanto la guerra quanto la caccia costituiscono per l’uomo primitivo non tanto un lavoro quanto un divertimento, e cioè un gioco. Ma questo vuol dire giocare con le parole. Allo stadio di sviluppo in cui si trovano le tribù di cacciatori inferiori la caccia e la guerra sono attività indispensabili per il sostentamento della vita del cacciatore e per la sua difesa. Tanto la prima che la seconda perseguono un fine assolutamente utilitaristico, e identificarle con il gioco, che invece è caratterizzato proprio dall’assenza di un tale scopo, è possibile soltanto forzando gravemente e quasi coscientemente la terminologia. Per giunta i conoscitori della vita dei selvaggi affermano che questi non cacciano mai per il solo piacere[50].
Del resto possiamo ricorrere a un terzo esempio, che non lascia più assolutamente nessun dubbio sulla giustezza dell’opinione da me difesa.
Prima io ho avuto occasione di rilevare la notevole importanza del lavoro sociale nella vita di quei popoli primitivi i quali insieme alla caccia si occupano anche di agricoltura. Ora intendo richiamare la Sua attenzione sul modo in cui viene effettuata la lavorazione sociale dei campi presso i Bagobosi, una delle tribù indigene del Mindanao meridionale. Presso tale tribù entrambi i sessi si dedicano ai lavori agricoli. Il giorno della seminagione del riso gli uomini e le donne si raccolgono insieme sin dal mattino presto e si mettono al lavoro. Avanti vanno gli uomini che, danzando, affondano nel terreno le loro zappe di ferro. Dietro vengono le donne che gettano i chicchi di riso nelle fossette scavate dagli uomini, e le ricoprono di terra. Tutto ciò viene eseguito con solennità e serietà[51].
Qui noi vediamo l’unione del gioco (la danza) con il lavoro. Ma una tale unione non nasconde il reale collegamento tra i fatti. Se non credete che i Bagobosi dapprima affondassero le loro zappe nel terreno e seminassero il riso per divertimento, e solo in seguito abbiano cominciato a lavorare la terra per sostentare la propria esistenza, dovrete necessariamente ammettere che in questo caso il lavoro è più antico del gioco, e che il gioco è stato originato dalle particolari condizioni in cui avviene la semina presso i Bagobosi. Il gioco è figlio del lavoro, che lo precede nel tempo.
Osservate che in tali casi le stesse danze sono una semplice riproduzione dei movimenti del lavoratore. A conferma di ciò, citerò lo stesso Bücher che nel suo libro Arbeit und Rhythmus dice anche che «molte danze di popoli primitivi non sono nient’altro che una cosciente imitazione di certi atti produttivi … Quindi, in tali rappresentazioni mimiche, il lavoro doveva necessariamente precedere la danza». Dopo di ciò io non riesco assolutamente a capire come Bücher possa sostenere che il gioco è più vecchio del lavoro.
In generale si può affermare senza alcuna esagerazione che il libro Arbeit und Rhythmus, con tutto il suo contenuto, confuta completamente e brillantemente l’opinione di Bücher sul rapporto del gioco e dell’arte col lavoro, rapporto che io sto attualmente analizzando. E’ estremamente sorprendente che lo stesso Bücher non rilevi questa stridente contraddizione che salta da sé agli occhi.
Egli è stato evidentemente indotto in errore dalla teoria del gioco presentata recentemente al mondo scientifico dal Professor Karl Groos di Giessen[52]. Quindi non sarà inutile mettersi al corrente della teoria di Groos.
Secondo Groos, l’opinione che vede nel gioco una manifestazione dell’eccedenza di forze non è interamente confermata dai fatti. «I cagnolini giocano tra loro fino alla più completa spossatezza e ricominciano a giocare dopo un riposo brevissimo che determina in loro non un’eccedenza di forze, bensì solo quel tanto di forza che permette appena che si ricominci il divertimento. Allo stesso modo anche i nostri bambini, anche quando siano stanchissimi, ad esempio per una lunga camminata, dimenticano immediatamente la stanchezza appena cominciano a giocare. Essi non dimostrano di aver bisogno di un prolungato riposo né di dover accumulare un’eccedenza di forze: l’istinto li spinge all’attività non soltanto quando — per esprimersi figuratamente — la tazza è ricolma, ma anche quando essa non contiene più di una goccia». L’eccedenza di forze non è quindi una conditio sine qua non del gioco, bensì soltanto una circostanza particolarmente favorevole.
Ma anche se le cose non stessero realmente così, la teoria di Spencer (Groos la chiama teoria di Schiller-Spencer) sarebbe pur sempre insufficiente. Essa infatti si preoccupa di chiarirci l’importanza fisiologica del gioco, ma non ci chiarisce quella biologica. E una tale importanza è molto grande. I giochi, specialmente i giochi degli animali cuccioli, hanno uno scopo biologico esattamente definito. Così come per gli uomini, anche per gli animali i giochi dei cuccioli costituiscono un’esercitazione di facoltà utili per i singoli individui o per tutta la tribù. Il gioco prepara il giovane animale alla sua futura attività nella vita. Ma appunto perché essa prepara il giovane animale alla sua futura attività, è chiaro anche che la precede, e per questa ragione Groos non vuole ammettere che il gioco è figlio del lavoro: egli dice, al contrario, che il lavoro è figlio del gioco.
Si tratta, come Lei vede, della stessa opinione che abbiamo incontrato in Bücher. Pertanto ad essa si può riferire tutto ciò che io ho già detto sull’autentico rapporto tra il lavoro e il gioco. Ma Groos si accosta al problema da un altro lato: egli prende in considerazione anzitutto i giochi dei bambini, e non quelli degli adulti. Sotto quale aspetto ci si presenta il problema se anche noi, come Groos, lo consideriamo da questo punto di vista?
Facciamo un altro esempio. Eyre[53]dice che i figli degli indigeni australiani giocano spesso alla guerra, e che tale gioco viene molto incoraggiato dagli adulti perché esso sviluppa la destrezza dei futuri guerrieri. La stessa cosa vediamo fra i pellerossa dell’America settentrionale, presso i quali a un tale gioco prendono talora parte molte centinaia di bambini sotto la direzione di guerrieri sperimentati. Secondo Catlin, i giochi di questo genere per i pellerossa costituiscono un aspetto del loro sistema di educazione[54]. Qui ci troviamo davanti a un chiaro esempio di quella preparazione dei giovani alla loro futura attività nella vita di cui parla Groos. Ma questo esempio conferma forse la sua teoria? Sì e no! Il «sistema di educazione» esistente presso i popoli primitivi da me citati fa sì che nella vita dell’individuo il gioco della guerra precede l’effettiva partecipazione alla guerra[55]. Ne risulta, quindi, che Groos ha ragione: dal punto di vista del singolo individuo il gioco è effettivamente più antico dell’attività utilitaristica. Ma perché presso questi popoli si è affermato un sistema educativo tale che in esso il gioco alla guerra occupa un posto così importante? E chiaro perché: perché per quei popoli è molto importante avere dei guerrieri bene addestrati e abituati fin dall’infanzia a vari esercizi militari; quindi, dal punto di vista della società (della tribù) la faccenda si presenta sotto tutt’un altro aspetto: dapprima c’è la guerra reale che determina l’esigenza di disporre di buoni guerrieri, e solo dopo viene il gioco alla guerra per soddisfare una tale esigenza. In altre parole, dal punto di vista della società l’attività utilitaristica si rivela più antica del gioco.
Un altro esempio. La donna australiana rappresenta nella danza, tra l’altro, anche in che modo essa strappa dal terreno le radici nutritive delle piante[56]. Sua figlia osserva la sua danza e per la tendenza all’imitazione, propria dei bambini, essa riproduce i movimenti della madre[57]. La bambina fa questo in un’età in cui non le tocca ancora impegnarsi seriamente nella raccolta del cibo. Quindi nella sua vita il gioco (la danza) a strappare radici precede l’effettivo lavoro di raccolta delle radici; per lei il gioco è più antico del lavoro. Ma nella vita della società naturalmente l’effettiva raccolta delle radici ha preceduto la riproduzione di tale processo nelle danze degli adulti e nei divertimenti dei bambini. Pertanto nella vita della società il lavoro è più antico del gioco[58].Ciò sembra assolutamente evidente. E se questo è evidente, allora ci resta soltanto da chiederci da quale punto di vista l’economista e chi, in generale, si occupi di una scienza sociale deve considerare il problema del rapporto intercorrente tra il gioco e il lavoro. Penso che la risposta sia chiara anche in questo caso: un uomo che si occupi di una scienza sociale non può considerare questo problema — così come tutti gli altri problemi che insorgano all’interno di tale scienza — da un punto di vista diverso da quello della società. E ciò perché, una volta adottato il punto di vista della società, noi troviamo con maggiore facilità la causa per cui i giochi compaiono prima del lavoro nella vita dell’individuo; ma se noi non oltrepassiamo il punto di vista dell’individuo, noi non comprenderemo né perché il gioco si presenta nella vita del singolo prima del lavoro, né perché l’individuo si diverta proprio con questi e non con altri giochi.
Ciò è esatto anche in biologia, solo che in tal caso al concetto di «società» bisogna sostituire quello di «genere» (più esattamente «specie»). Se il gioco serve a preparare il giovane al compito che lo attende nella vita, è evidente che dapprima lo sviluppo della specie gli pone davanti un determinato compito, che richiede una certa attività, e soltanto dopo e in conseguenza di ciò si ha una selezione di individui in funzione delle facoltà che tale compito richiede, nonché l’educazione di tali facoltà durante l’infanzia. Anche qui il gioco non è altro che il figlio del lavoro, funzione dell’attività utilitaristica.
Tra l’uomo e gli animali inferiori in questo caso la differenza consiste soltanto nel fatto che lo sviluppo degli istinti ereditati svolge nell’educazione del primo un ruolo molto minore che non nell’educazione dell’animale. Il tigrotto nasce già come animale da preda, mentre l’uomo non nasce come cacciatore o agricoltore, come guerriero o mercante: egli diventa l’uno o l’altro sotto l’influenza delle circostanze. E questo è vero in relazione a entrambi i sessi. La bambina australiana, venendo al mondo, non porta con sé istintivamente la tendenza a strappare radici dal terreno, né a svolgere altri lavori economici simili a questo. Una tale tendenza è originata in lei dall’inclinazione all’imitazione: nei suoi giochi essa si sforza d’imitare il lavoro della madre. Ma perché essa imita la madre e non il padre? Per ché nella società a cui essa appartiene si è già stabilita una di visione del lavoro tra l’uomo e la donna. Anche la causa di questo fatto è da ricercarsi, come Lei vede, non negli istinti delle persone, bensì nell’ambiente sociale che li circonda. Ma quanto maggiore è l’importanza dell’ambiente sociale, tanto meno ci si può permettere di abbandonare il punto di vista della società per adottare quello dell’individuo, come invece fa Bücher nelle sue considerazioni sui rapporti tra gioco e lavoro.
Groos dice che la teoria di Spencer perde di vista l’importanza biologica del gioco. Con molto maggior fondamento si potrebbe dire che lo stesso Groos non ha rilevato la sua importanza sociologica. Del resto è possibile che una tale omissione venga da lui corretta nella seconda parte della sua opera, che sarà dedicata ai giochi degli uomini. La divisione del lavoro tra i due sessi ci dà la possibilità di considerare i ragionamenti di Bücher da un nuovo punto di vista. Egli presenta come divertimento il lavoro del selvaggio adulto. Ciò, naturalmente, è già di per sé errato; per il selvaggio la caccia non è uno sport, bensì un’occupazione seria, indispensabile per il sostentamento della sua vita.
Lo stesso Bücher rileva giustamente che «spesso i selvaggi soffrono crudelmente la fame e che la cintura — che costituisce tutto il loro abbigliamento — serve in realtà per loro da vero Schmachtriemen, come dice il popolino tedesco, con cui essi si stringono il ventre per lenire il tormento della fame che li divora». Forse che anche in questi «frequenti» (come dice esplicitamente lo stesso Bücher) casi i selvaggi rimangono pur sempre degli sportivi e cacciano per divertimento e non per la penosa necessità? Da Liechtenstein veniamo a sapere che ai boscimani capita di restare senza cibo per più giorni di seguito. Tali periodi di digiuno sono naturalmente periodi di febbrile ricerca di cibo. Dunque anche una tale ricerca rimarrebbe pur sempre un divertimento? I pellerossa dell’America settentrionale ballano la loro «danza del bisonte» proprio quando ormai da un pezzo non hanno incontrato bisonti e sono minacciati dalla morte per fame. La danza continua finché non arrivano i bisonti, la cui apparizione viene posta dagli indiani in relazione con la danza stessa. Lasciando da parte la questione — che ora non c’interessa — di come sia potuta sorgere nel loro cervello l’idea di una tale relazione, siamo in grado di affermare fondatamente che in tali casi né la «danza dei bisonti», né la caccia che ha inizio all’apparire degli animali, possono essere considerati come un divertimento. Qui la danza in questione si rivela come un’attività che persegue uno scopo utilitaristico ed è strettamente collegata con la principale attività vitale del pellerossa[59].
Inoltre consideri un po’ la moglie del nostro preteso sportivo. Essa si carica di gravi pesi durante la marcia, scava le radici, costruisce la capanna, accende il fuoco, concia le pelli, intreccia canestri e per finire lavora nei campi[60]. E tutto ciò sarebbe un gioco e non lavoro? Stando alle parole di F. Prescott, presso gli indiani Dakota l’uomo d’estate non lavora più di un’ora al giorno; questo, se si vuole, lo si può anche chiamare divertimento. Ma in quella stessa tribù e in quella stessa stagione la donna lavora circa sei ore al giorno; in questo caso è già più difficile supporre che abbiamo a che fare con il «gioco». D’inverno poi tanto all’uomo che alla donna tocca lavorare molto di più che durante l’estate: d’inverno l’uomo lavora circa sei ore al giorno, e la donna circa dieci[61].
In questo caso è ormai decisamente impossibile parlare di «gioco». Qui ci troviamo di fronte al lavoro «sans phrases», e sebbene questo lavoro sia meno intenso e meno estenuante del lavoro eseguito dagli operai in una società civilizzata, non per questo esso cessa di essere una attività economica di tipo assolutamente determinato.
Pertanto la teoria del gioco proposta dal Groos non salva la tesi del Bücher da me analizzata. Il lavoro si rivela tanto più antico del gioco, quanto più antichi sono i genitori rispetto ai figli e la società rispetto ai suoi singoli membri.
…É possibilissimo che già da un pezzo Le siano venute a noia queste considerazioni sull’economia primitiva. Tuttavia Lei ammetterà certamente che io non potevo assolutamente farne a meno. Come ho già rilevato più sopra, l’arte è un fenomeno sociale, e se il selvaggio fosse in realtà un perfetto individualista, invano noi staremmo a domandarci quale fosse la sua arte: infatti non troveremmo in lui nessun accenno a un’attività artistica. Ma l’esistenza di una simile attività è assolutamente indubitabile: l’arte primitiva non è affatto un mito. Già questo solo fatto può servire da convincente, anche se indiretta, confutazione dell’opinione di Bücher sulla «primitiva organizzazione economica».
Bücher ripete spesso che «in una vita continuamente nomade la preoccupazione per il cibo inghiottiva totalmente l’uomo e non permetteva che accanto ad essa insorgessero perfino quei sentimenti che noi consideriamo più naturali». Lo stesso Bücher è fermamente convinto — come Lei già sa — che l’uomo nel corso d’innumerevoli secoli sia vissuto senza lavorare, e che perfino nell’epoca attuale vi siano una quantità di luoghi le cui condizioni geografiche permettono all’uomo di vivere con un minimo dispendio di forze. A ciò si ricollega — nel nostro Autore – a convinzione che l’arte sia più antica della produzione di oggetti utili, così come il gioco è più antico del lavoro. Ne risulta:
in primo luogo, l’uomo primitivo sosteneva la propria esistenza a prezzo di sforzi assolutamente insignificanti;
in secondo luogo, questi sforzi insignificanti cionondimeno assorbivano totalmente l’uomo primitivo e non gli lasciavano il tempo per nessun’altra attività, neppure per uno solo di quei sentimenti che a noi sembrano naturali;
in terzo luogo, l’uomo, che pure non pensava a null’altro che al proprio nutrimento, si accinse per prima cosa non alla produzione di oggetti che fossero utili alla propria nutrizione, bensì alla soddisfazione delle proprie esigenze estetiche.
Ciò è veramente strano! La contraddizione è qui evidente, ma come uscirne?
Da una simile contraddizione si può uscire soltanto riconoscendo l’infondatezza dell’opinione di Bücher sui rapporti tra l’arte e l’attività indirizzata alla produzione di oggetti utili.
Bücher è in grave errore quando afferma che lo sviluppo della manifattura ha inizio dovunque con la colorazione del corpo. Egli non ha prodotto — e naturalmente non poteva nemmeno produrre — neanche un solo fatto che ci desse motivo di pensare che la colorazione del corpo o il tatuaggio siano precedenti alla lavorazione delle armi primitive e dei primitivi strumenti di lavoro. Presso alcune tribù di Botocudi il più importante tra i numerosi ornamenti del corpo è la loro famosa botoka, e cioè un pezzo di legno inserito nel labbro[62]. Sarebbe stranissimo supporre che questo pezzo di legno adornasse il Botocudo prima ancora che questi imparasse a cacciare, o perlomeno a strappare le radici di piante nutritive con l’aiuto di un bastone appuntito. Degli australiani R. Zemon afferma che molte loro tribù sono completamente prive di qualsiasi ornamento[63]. Probabilmente le cose non stanno affatto così; in realtà è probabile che tutte le tribù australiane si servano di ornamenti di questo o di quel tipo, anche se talora essi sono semplicissimi e in numero molto scarso. Ma anche in questo caso non è possibile supporre che questi semplici e poco numerosi ornamenti dell’australiano siano stati inventati prima e occupino nella sua attività un posto maggiore che non le preoccupazioni per il proprio nutrimento e i relativi arnesi di lavoro, cioè le armi e i bastoni appuntiti che gli servono per procurarsi il cibo vegetale. I Sarrasin pensano che presso i primitivi Vedda, che non avevano ancora sperimentato l’influenza di una cultura a loro estranea, gli uomini, le donne e i bambini non conoscessero nessun ornamento e che ancora oggi nei luoghi montani s’incontrino dei Vedda che si distinguono per una completa assenza di ornamenti[64]. Questi Vedda non si forano neppure gli orecchi, ma naturalmente conoscono invece l’uso delle armi che vengono fabbricate da loro stessi. E’ evidente che presso questi Vedda la lavorazione a mano diretta alla fabbricazione di armi ha preceduto quella indirizzata alla fabbricazione di ornamenti.
E’ vero che persino i cacciatori che si trovano a un livello di civiltà molto basso, ad esempio i boscimani e gli indigeni australiani, praticano la pittura: presso di loro vi sono delle vere e proprie gallerie di quadri delle quali tornerò a parlare in altre lettere[65]. I Ciukci e gli Eschimesi si distinguono per le loro opere di scultura e di intaglio[66]. Allo stesso modo si distinguevano per le loro inclinazioni artistiche le tribù che abitavano l’Europa all’epoca del mammut[67]. Tutti questi sono fatti molto importanti che nessun storico dell’arte deve ignorare. Ma da dove si dedurrebbe che presso gli australiani, i boscimani e gli eschimesi, o presso i contemporanei del mammut, l’attività artistica avrebbe preceduto la produzione di oggetti utili, e cioè che presso di loro l’arte sarebbe più antica del lavoro? Una simile tesi non si deduce proprio da nulla. Tutt’al contrario. Il carattere dell’attività artistica del cacciatore primitivo sta a testimoniare in maniera assolutamente inequivocabile che la produzione di oggetti utili e in genere l’attività economica ha preceduto presso quei popoli il sorgere dell’arte, ed anzi ha imposto chiaramente sull’arte stessa il suo suggello. Che cosa rappresentano i disegni dei Ciukci? Varie scene di vita di caccia[68]. E’ chiaro che dapprima i Ciukci si occuparono della caccia e soltanto dopo si accinsero a raffigurare la loro caccia in disegni. Allo stesso modo se i boscimani rappresentano quasi esclusivamente degli animali, e cioè babbuini, elefanti, ippopotami, struzzi e così via[69], ciò dipende dal fatto che gli animali svolgono un ruolo di primaria, anzi decisiva importanza nella loro vita di cacciatori. Dapprima l’uomo si trovò in certi determinati rapporti con gli animali (cominciò a dar loro la caccia), e soltanto dopo, e proprio perché si era trovato con essi nei suddetti rapporti, si originò in lui la tendenza a disegnare gli animali stessi. Dunque quale dei due ha preceduto l’altro: il lavoro ha preceduto l’arte o l’arte il lavoro?
No, egregio signore, io sono fermamente convinto che noi non capiremo proprio un bel niente nella storia dell’arte primitiva se non ci convinceremo dell’idea che il lavoro è più antico dell’arte, e che in generale l’uomo dapprima considera gli oggetti e i fenomeni dal punto di vista utilitaristico, e soltanto in seguito adotta un atteggiamento estetico nei loro confronti.
Nella mia prossima lettera porterò molte prove, a mio parere assolutamente convincenti, di una tale tesi; in essa tuttavia dovrò cominciare con l’esaminare il problema di quanto corrisponda all’attuale stato delle nostre conoscenze etnografiche l’antico e ben noto schema che suddivide i popoli in cacciatori, pastori e agricoltori.
http://www.criticamente.com/cultura_arte/Plechanov_Georgij_Valentinovic_-_Scritti_di_estetica.htm

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