23 marzo 1944: azione partigiana a Via Rasella

 

 

 

23 marzo 1944 – Alle 15,30 Carlo Borsani, cieco di guerra, medaglia d’oro, celebra, nel salone di un palazzo in via Veneto, la nascita del fascismo, avvenuta 25 anni prima a Milano, in piazza San Sepolcro. E’ una giornata senza nuvole, con il sole splendente. In mattinata i gerarchi e le autorità germaniche avevano assistito alla messa nella chiesa di Santa Maria della Pietà e deposto corone alle lapidi dei caduti fascisti in Campidoglio e al Verano. Borsani ha comniciato da poco a parlare quando, alle 15.52, si interrompe a causa del forte boato che rompe l’aria. Una forte carica di tritolo è esplosa a poca distanza, in via Rasella, davanti al palazzo Tittoni, mentre vi transitava a piedi una compagnia del I battaglione del Reggimento Polizei SS Bozen, composta da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, in assetto di guerra, con mitragliatrici montate su carrelli in testa e in coda alla colonna. Subito dopo, due squadre dei GAP Centrali, una di sette uomini l’altra di sei, al comando di Carlo Salinari (Spartaco) e Franco Calamandrei (Cola), lanciano a mano bombe da mortaio leggero Brixia, modificate per esplodere per accensione della miccia, e sparano con armi leggere. A far brillare la mina collocata in un carrettino metallico da spazzino era stato lo studente in medicina Rosario Bentivegna, con la copertura di un’altra giovane studentessa, Carla Capponi.

Secondo la testimonianza di Bentivegna, i gappisti erano disposti per l’attacco in questo modo: lui vicino al carretto, Carla Capponi, con un impermeabile sul braccio, da mettergli addosso per coprirgli la divisa da spazzino, la pistola alla cintura sotto il golf, in cima alla via con alle spalle palazzo Barberini; Raul Falcioni, Fernando Vitagliano, Pasquale Balsamo, Francesco Curreli e Guglielmo Blasi, con Salinari nei pressi del Traforo; poco distante Silvio Serra; all’ angolo di via del Boccaccio, Franco Calamandrei. Altri gappisti erano sistemati per coprirli durante lo sganciamento.

Le modalità dell’attacco: Calamandrei si era tolto il cappello, segno convenuto per avvisare Bentivegna che i tedeschi si stavano approssimando e doveva quindi accendere la miccia per poi allontanarsi rapidamente. Avvenuta l’ esplosione, gli altri gappisti raggiunsero Calamandrei di corsa per sviluppare l’assalto a bombe a mano e colpi di pistola. L’azione si concluse con 32 SS uccise e 110 ferite (una sarebbe morta in ospedale il giorno dopo). I gappisti non ebbero perdite nonostante la immediata reazione dei tedeschi. Morirono invece un ragazzo e due civili. Altri persero la vita o rimasero feriti nella violenta sparatoria che si protrasse con l’ arrivo di reparti tedeschi e fascisti, da questi rivolta soprattutto a colpire le finestre degli edifici più vicini, dai quali ritenevano fossero stati lanciati gli ordigni esplosivi.

L’attacco in via Rasella era stato deciso dal comando dei GAP Centrali in sostituzione dell’ assalto, programmato per quel giorno, al corpo di guardia di via Tasso per liberare i prigionieri della Gestapo. Dopo un sopralluogo Fiorentini, Salinari e Calamandrei avevano ritenuto irrealizzabile quell’ operazioe dato il sistema difensivo approntato dai tedeschi e avevano predisposto invece l’aggressione alla colonna tedesca che ogni giorno percorreva via Rasella ultimate le esercitazioni alla controguerriglia.

Il reggimento Bozen, come tutte le SS composto da volontari vincolati dal giuramento a Hitler, si stava infatti addestrando alla lotta contro i partigiani. Il battaglione di stanza Roma forniva anche elementi alla Gestapo in via Tasso, e avrebbe dovuto assolvere all’ incarico di proteggere il personale militare e civile tedesco e fascista durante l’ abbandono della capitale all’ arrivo degli alleati, e, inoltre, fare da scorta ai prigionieri che da via Tasso da Regina Coeli sarebbero stati trasferiti al nord.

Al reggimento Bozen saranno addebitate le stragi di civili commesse in seguito, in Istria, nel Bellunese, a Bois e Falcade, 87 azioni di rappresaglia documentate negli archivi tedeschi di Coblenza, ricostruite da storici ricercatori altoatesini nel 1994.

http://www.storiaxxisecolo.it/Resistenza/resistenza3.htm

 

LUCIA OTTOBRINI

E’ nata a Roma nel 1924, seconda di nove figli. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Alsazia dove il padre era emigrato e aveva sposato una tedesca; perciò parla bene il tedesco e il francese, meno l’italiano; quando nel 1939, la famiglia è rimpatriata e conosce dure condizioni di vita perché il padre non ha la tessera. Per essere d’aiuto alla famiglia, Lucia si impiega al ministero del Tesoro; estranea all’ambiente di lavoro, prende coscienza della situazione e approva l’antifascismo del padre. La sua vita solitaria è mutata dall’incontro con Mario Fiorentini, giovane laureando in matematica, attraverso il quale conosce gli antifascisti dell’ambiente intellettuale romano, pittori, scultori, registi, attori; questo accade nella prima metà del ’43, che Lucia ricorda come “splendido periodo per conoscenze e contatti” : esso prelude all’attività resistenziale, che inizia dopo l’armistizio con il nome di Piera. Lucia parteciperà a quasi tutte le azioni dei GAP, di solito insieme con Fiorentini, che dopo la guerra diventerà suo marito, e con Carla Capponi e Bentivegna; conoscere il tedesco la facilita, ma insieme, come lei stessa racconta, è per lei spaventoso comprendere le urla e le imprecazioni profferite dai tedeschi colpiti a morte: e ricordando queste impressioni indimenticabili afferma che il rimpianto suo e dei suoi compagni è sempre stato “di non aver saputo mutare il lacerante dolore popolare in un impeto di rivolta verso coloro che erano i responsabili veri”. Lucia, insieme ad altre compagne, era particolarmente preziosa perché raccoglieva le armi prima e dopo le azioni e si infiltrava tra i fascisti e i tedeschi, tra i quali raccoglieva notizie (grazie anche alla sua conoscenza del tedesco). Dopo l’attentato di via Rasella, con il marito, Lucia lascerà Roma insieme a Mario Fiorentini, perché orami erano troppo noti; furono inviati a dirigere le operazioni nella zona di Tivoli e Castelmadama. Lucia era l’unica donna e garantiva, a piedi, il collegamento con Roma. Dopo i bombardamenti a Tivoli fu inviata sulle alture di Castel Madama per dirigere un nucleo partigiano, con il compito in particolare di preservare una centrale idroelettrica che i tedeschi intendevano far saltare. Non vuole raccontare “niente di particolarmente eroico” e anzi afferma: “Eravamo gente costretta a lottare e non guerrieri in cerca di gloria”.
Dopo l’8 settembre, quando era ancora a casa, Mario le portava una gran quantità di armi da nascondere. La sua famiglia diede protezione a due carabinieri. Sua madre era eccezionale: si adoperava per portare da mangiare ai ragazzi che stavano nascosti, ne aiutò tanti. Negli anni della lotta nei Gap divenne la spalla e l’ombra di Fiorentini. Partecipò a molte azioni, di solito in ruoli secondari. Ad esempio gli appostamenti all’Adriano per preparare l’agguato di via Tomacelli; o il carretto della nettezza urbana che aiutai a riempire per l’attentato di via Rasella (li non partecipò perché ero malata). Una volta, insieme a Mario, Rosario e Carla andarono a fare un’azione in via Veneto. Era inverno. Verso le sette di sera. Pioveva. Il loro obiettivo era un ufficiale nazista. Camminava per la strada dà solo scendendo verso piazza Barberini. Era bello, elegante nella sua divisa di pelle nera. Avanzava felice e contento. Si avvicinarono armati di pistola. Tutti e quattro. Per primi premettero il grilletto Lucia e Mario. Le loro armi, succedeva spesso, non funzionarono. Intervennero Sasà (Rosario Bentivegna) e Carla. Sparano. Il nazista, ferito a morte, si mise a urlare. Tutte le finestre si aprirono. Poi i battenti si richiusero in fretta mentre i quattro si mischiavano tra la gente. Lucia comunque dice: “Con gli anni me lo chiesta tante volte. Ma ero io quella che sparava a sangue freddo? Che lasciava che un uomo, anche se un nemico, un tedesco, morisse per la strada sotto la pioggia? Spesso mi sento come se la Lucia di quegli anni fosse stata un’altra. E invece no, quella ero io. E il coraggio per fare certe cose si doveva avere per forza.” Era amica di Carla. Parlava invece poco con Marisa Musu.
“Sono stati nove mesi tristi, ma adesso li ricordo con nostalgia.” ci confida Lucia.

Nel 1953 le è stata assegnata la medaglia d’argento al valore militare con la seguente motivazione:
“Ottobrini Lucia di Francesco e di Domenica De Nicola, Roma, classe, 1924, partigiana combattente. Giovane e ardimentosa partigiana, dava alla causa della Resistenza a Roma e nel Lazio, apporto entusiastico e infaticabile. Raccoglieva e trasportava armi, procurava notizie, contribuiva validamente alla organizzazione di numerosi atti di sabotaggio. Con coraggio virile non esitava ad impugnare le armi battendosi più volte a fianco dei compagni di lotta, sempre dando esempio di impareggiabile ardimento e facendosi ricordare tra le figure rappresentative della Resistenza romana. Zona di Roma, settembre 1943- giugno 1944)”.

(tratto da “Partigiane. Tutte le donne della Resistenza” di Marina Addis Saba, Varese, 1998, Mursia; e da “Roma città prigioniera” di Cesare De Simone, Milano, 1996, Mursia; e da “Donne e Resistenza nella Provincia di Roma” a cura di Simona Lunadei e Lucia Motti

 

La storia di Lucia sembra un romanzo

 

La giovanissima alsaziana che amava i tedeschi e odiava i nazisti.”

Edouard Boeglin

 

Omaggio a Lucia Ottobrini, “une mulhousienne”, una delle due “volpi argentate”, prima donna gappista italiana già dall’ottobre 1943, nomi di battaglia Maria Fiori, Leda Lamberti, qualifica partigiana di “Capitano”, per suo ottantasettesimo compleanno:

“La principale motivazione della mia scelta antifascista fu sicuramente l’entrata in guerra contro la Francia, la mia seconda patria, l’infamia di un’aggressione contro un Paese che era stato già piegato dai tedeschi.
Poi le leggi razziali. Molta gente, specie nel “popolino”, aveva creduto in una matrice proletaria del fascismo e in una certa propensione ad occuparsi della povera gente e questo spiega il consenso di massa che il fascismo, e il fascino personale di Mussolini, avevano conseguito.
Con i fallimenti della campagna di Grecia e di Russia, si capì subito però che la guerra non sarebbe stata la passeggiata imprudentemente promessa. Fu il fatto di aver passato la prima parte della mia esistenza in un ambiente proletario e i miei trascorsi in Francia che fecero maturare in me la coscienza di stare dalla parte degli operai e del popolo.
All’inizio del 1943 (sono nata nell’ottobre 1924, avevo da poco compiuto 18 anni) conobbi Mario (Fiorentini, n.d.r.). Fu una fiammata che non si è mai spenta né attenuata. Fu subito il mio ragazzo e il mio compagno di tutta una vita; insieme a lui ho superato vicende difficili. Tramite Laura Lombardo Radice, mi fu assegnato il primo incarico politico: la raccolta di indumenti, medicine e cibo per i prigioneri politici. Così conobbi le sofferenze dei perseguitati antifascisti. Per me fu una rivelazione. Incontrai, accanto a Mario, uomini e donne antifascisti, persone di estrazione borghese che poi sarebbero diventate famose, ma anche operai, artigiani e piccoli negozianti.

Fu un periodo splendido: Mario e Plinio De Martiis avevano formato una compagnia teatrale, che doveva far conoscere gli autori classici del teatro di prosa al popolo, evitando le rappresentazioni degli autori cosiddetti borghesi. Avevano pensato ai cinema di periferia, in modo da raggiungere un pubblico popolare fino ad allora escluso dal teatro. Iniziammo dal cinema Mazzini con una meravigliosa interpretazione di Gassman dell’Uomo dal fiore in bocca di Pirandello, ma incontrammo subito delle difficoltà finanziarie perché né il proletariato né il ceto medio corsero ai nostri spettacoli. Attori e registi si ridussero la paga e qualcuno addirittura vi rinunciò. Facemmo una sola rappresentazione al Teatro delle Arti. Avevamo progettato che Gassman saltasse sopra un tavolo e cantasse l’Internazionale in francese. I registi della nostra compagnia erano Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Gerardo Guerreri, Vito Pandolfi, Mario Landi. Gli attori erano Gassman (stupendo per la sua classe, il suo ardore, la sua cultura), Lea Padovani, Nora Ricci, Antonio Pierfederici, Vittorio Caprioli, Carlo Mazzarella, Alberto Bonucci, Gianni Santuccio, Ave Ninchi, Nino Dal Fabbro, i fratelli Ettore e Corrado Gaipone e tanti altri. Ho dimenticato molti nomi, ma eravamo tutti giovani, entusiasti e antifascisti. Dopo l’8 settembre, la situazione divenne confusa sia sul piano militare sia su quello politico. Subito dopo l’armistizio, entrai tra i partigiani combattenti nella quarta zona, poi nei GAP di zona, quindi nel GAP centrale “Antonio Gramsci” diretto da Mario (in stretto contatto con il GAP “Carlo Pisacane”, diretto da Rosario Bentivegna). Ho combattuto avendo al mio fianco carabinieri, graduati, ufficiali, civili di idee liberali o socialiste, comunisti e democristiani, ebrei e preti, monarchici e repubblicani, tutti uniti dal comune intento di cacciare i nazisti. Il fascismo, il nazismo, il franchismo erano modelli da respingere, perché avevano calpestato le libertà, e la stragrande maggioranza dei partigiani si batteva per la libertà.”

Dall’intervista di Pietro Nastasi a Mario Fiorentini e Lucia Ottobrini sul numero 39-40 di Lettera Matematica PRISTEM – Marzo-giugno 2001

“- Che cosa resta, in lei, di quel periodo di lotta?

“Una sensazione di aver fatto poco e molto. Poco, perché eravamo pochi. Molto, sempre perché eravamo troppo pochi. Con una speranza che è una certezza: nella malaugurata ipotesi che la cosa si ripetesse, non saremmo più così pochi.”. Lucia Ottobrini

intervista  rilasciata a Adris Tagliabracci – «Il Contemporaneo», a. XI, n. 7 -dicembre 1964

“La storia di Lucia sembra un romanzo. Ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza in Alsazia dove il padre, molisano, era emigrato e aveva sposato una tedesca; perciò parla bene il tedesco e il francese, un po’ meno l’italiano, Con la Resistenza in Italia lei lasciò il paese per far ritorno alla sua terra d’origine, non parlava che tedesco e qualche parola in dialetto. Lucia visse un forte dissidio (lei partigiana, madre filotedesca).

Senza di lei non sarei una persona civile: lei si occupa di me e mi cura amorevolmente e quotidianamente. Ci siamo accettati sempre per quello che eravamo, per questo conviviamo amandoci da 66 anni. E’ il destino che ci ha fatto incontrare. La mia Lucia dice di me: ‘Mario è un aquilone; io tengo i fili e lo riporto giù.’ Sì, è esattamente così…”

Dall’intervista di Cecilia Lugi a Mario Fiorentini in “Ondanomala” – Il Giornale del Pilo Albertelli di Roma – Mag/Giu 2011 – Numero 5 – Anno IV

http://www.stampacritica.it/Attualita/Voci/2011/10/3_La_storia_di_Lucia_sembra_un_romanzo.html

 

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