a prescindere

 

Una faccia asimmetrica e surreale, come un Pulcinella disegnato da Picasso. L’incredibile capacità di trasformare il ridicolo in arte. Vi sveliamo che cosa si nasconde dietro i volti del principe dei comici italiani

Il naso e il mento tendono visibilmente a destra. Gli occhi, allineati su due assi diversi, paiono sempre pronti ad agire in modo indipendente. La bocca, dal canto suo, segue l’andamento del mento: più bassa a sinistra, si impenna al centro e a destra, disegnando una sorta di punta parabolica. Nessun comico, neanche tra i più famosi, può vantare una faccia come quella di Totò: asimmetrica, appuntita, irregolare.

Con un che di surreale, forse perfino con un tocco “dada”: come se un artista d’avanguardia, in vena di beffe e clowneries, si fosse divertito a trasformare un volto “normale” nella più straordinaria maschera della cultura italiana del ‘900. Arcaica, eppure modernissima. Come un Pulcinella ridisegnato da Picasso.

Totò funziona così. Riunisce in sé (e nell’asimmetria del suo volto) una incredibile pluralità di maschere e di tradizioni precedenti (dal cabaret all’avanspettacolo, dalla farsa partenopea al mimo, da Buster Keaton a Stan Laurei, da Petrolini al maestro napoletano Gustavo De Marco), ma poi la piega a un’estetica del comico che colpisce per la modernità delle sue aritmie e per la spregiudicatezza con cui agisce sui movimenti muscolari (quel distendersi e contrarsi del collo, quel muovere gli arti con scatti da marionetta, quel disarticolarsi del corpo in gesti imprevisti) per fare di sé una macchina perennemente intenta alla produzione (o alla distruzione) del senso.

Non è un “dono di natura”, la maschera di Totò. I tratti fisiognomici sono il frutto artificiale combinato di un pugno troppo forte tiratogli quand’era ragazzo da un istruttore di boxe e di lunghi esercizi preparatori sull’arte dello “sganciarsi della mascella”. I tratti culturali vengono invece dalla scuola impagabile dei vicoli di Napoli, in cui il piccolo Antonio de Curtis è cresciuto, assorbendone d’istinto l’innata vocazione alla teatralità. Perché Totò è in tutto e per tutto una maschera partenopea. L’ultima di una grande tradizione, senz’altro la più moderna dopo quella di Eduardo.

Da Napoli, Totò ha assorbito la cultura del “pazzariello” e quella del “pulcinella”, l’arte dell’imbroglio e il gusto del sofismo, la tecnica della pernacchia e la tattica del sarcasmo. Oltre a quella straordinaria mistura di comico e di tragico, di senso della morte e di amore per la vita che fa del suo personaggio un unicum irripetibile e di valore universale. Prendete il suo “costume di scena”, quasi una divisa: dai pantaloni corti “a saltafossi” all’immancabile fracchesciacche (il frac largo e lungo) fino al laccio da scarpe allacciato al collo della camicia a mo’ di cravattino, tutto esprime l’idea napoletanissima dell’omino povero ma dignitoso, inserito nel sistema ma capace di mandarlo a gambe all’aria con la sua logica del nonsenso e del ridicolo.

Nato come personaggio comico negli anni del cubismo e del futurismo, Totò sembra assorbire spontaneamente gli umori estetici del suo tempo, fino a fare di sé e del proprio corpo un paradigma esemplare dei flussi innovativi della modernità. E poco importa che le grandi platee afferrino al volo la dimensione ricca e complessa della sua comicità: basta che capiscano (e lo capiscono d’istinto) che Totò è capace di entrare in ogni storia senza farsi catturare davvero da nessuna, con un’inimitabile capacità di rovesciare i ruoli e capovolgere i luoghi comuni. Perché Totò è di volta in volta il provinciale che diventa uomo di mondo, il truffatore che diventa giudice, il seduttore incallito che diventa fanciulla vereconda. Senza aver rispetto di nulla e di nessuno. Non per l’autorità, non per la coerenza, non per il significato. Ha scritto bene Roberto Escobar nell’ultimo dei tanti libri che al comico napoletano sono stati dedicati in occasione del centenario della nascita (15 febbraio 1898): “Totò è esplosione iperbolica di desiderio, rivincita di quel che sta sotto su quel che sta sopra, trionfo della fame e del corpo e dell’amore su qualsiasi pretesa di ordine e stabilità. Gerarchle, onori, senso comune: mentre i suoi antagonisti sprofondano nel panico, Totò tutto travolge in un fiume di parole e di gesti impazziti, mascherando la ragione da follia e la follia da ragione” (Totò – Avventure di una marionetta. Il Mulino, 1998).

C’è un sistema etico ben preciso che fa da sfondo alla comicità di Totò. Prendete una delle sue battute più celebri: “Siamo uomini o caporali?”, pronunciata nell’omonimo film diretto nel 1955 da Camillo Mastrocinque. Nella sua lapidaria apoditticità, è ormai entrata nel linguaggio comune. Ma vi siete mai chiesti che differenza c’è fra gli “uomini” e i “caporali”? Nel gergo di Totò è una differenza esistenziale: in caserma il “caporale” è colui che si è elevato di un grado al di sopra della truppa non per meriti particolari, ma per servilismo e ossequio nei confronti dei superiori. Grazie al suo innato spirito adulatorio, il “caporale” non “ramazza”, fa ramazzare gli altri. Evita le corvées più fastidiose e le distribuisce ai commilitoni. È, insomma, quasi il paradigma del “leccapiedi”: cioè colui che per la sua attitudine al servilismo non è degno di appartenere al consorzio degli “uomini”. Altro che battuta da avanspettacolo: Totò ridisegna col suo linguaggio i confini del mondo (e della napoletanità). Manifestando un’avversione irriducibile per tutti i conformismi e le convenzioni sociali. E svillaneggiando con la sua verve sanguigna e plebea ogni valore e ogni istituzione. Nulla gli resiste: non deputati e senatori, non burocrati e uomini d’affari. Basta che Totò si intrometta in un contesto culturale che gli è estraneo per mandarlo in frantumi. A colpi di bazzecole, quisquilie e pinzillacchere, di tampoco e di eziandio, di a prescindere e di quaquaraguà. Che sono le marche e le sigle linguistiche con cui Totò ridicolizza il frasario e il galateo burocratico dell’italiano ufficiale, strapazzando già sul piano della lingua le abitudini e i costumi espressivi di un’Italietta ipocrita, meschina e provinciale.

Totò disdegna il dialetto: pur essendo maschera partenopea, sceglie di esprimersi in una koiné linguistica che preferisce accanirsi sulle rigidità inespressive dell’italiano ufficiale che trovare facili scorciatoie nella voce idiomatica o gergale. Ammesso e non concesso. Parli come badi. I suoi modi sono interurbani: Totò è un dadaista della comunicazione, un giocoliere del linguaggio. Uno che le parole le sgretola, le tritura, le reimpasta. Le deforma espressionisti-camente. Le reinventa. Sorprendente e impertinente: da vero buffone che smaschera il re, e lo mette a nudo. Forse per questo Totò piaceva tanto a Pasolini, che lo volle interprete di due dei suoi film più belli (Uccellacci e uccellini del 1966 e La terra vista dalla luna del 1967): perché solo un poeta come lui poteva sentire nella maschera di Totò – allora trattata con snobistica diffidenza e con sprezzante sussiego dalla maggior parte degli intellettuali – il sogno anarchico di un’umanità libera e innocente. [Gianni Canova]

 

Così conobbi Totò e, nei limiti delle nostre due timidezze, diventammo quasi amici. Totò era un “signore”, perlomeno del signore meridionale aveva la calma, la tolleranza, la cortesia. Questa fu la prima impressione. Salutava togliendosi il cappello, non faceva mai circolo attorno a se, non raccontava storielle, né cadeva preda di quelle concitate allegrie o depressioni che, nel lavoro del cinema, sono il prodotto delle lunghe e inspiegabili attese. Dagli uomini della troupe veniva chiamato principe. Anche il duca Caracciolo, che era l’aiuto regista, lo chiamava principe. Prima di iniziare una scena, sentii una volta l’operatore Tonti che implorava: “Per favore, le Altezze mantengano un dignitoso silenzio”. Totò era infatti sai il Principe Antonio Focas Flavio Comneno de Curtis di Bisanzio, Conte Palatino, Cavaliere del Sacro Romano Impero. Mi chiesi allora perché quest’attore era così diverso da tutti gli altri e, direi, così lontano. Sorrideva quasi sempre e con un tratto di ironia indefinibile. Quando gli consegnavo il foglio delle sue battute (di solito scrivevamo i dialoghi un’ora prima di girare, sul tamburo) egli lo leggeva assumendo un’aria serissima, ma ad ogni parola, con una sorpresa sempre nuova, il suo volto cominciava a scomporsi in una reazione continua, apparentemente comica, e di una intensità infantile. Un re da favola, che avesse letto il discorso preparatogli dal ciambellano non avrebbe espresso in altra forma la sua contenuta meraviglia. Un minuto dopo era pronto a dire nel migliore dei modi le povere cose da noi scritte. Mi chiedevo quale fosse il segreto della sua calma e della sua sottile capacità di interpretazione. Mi sembrò di trovarlo proprio nella sua disposizione surreale di fronte alla vita e alla rappresentazione italiana, cioè al realismo che è la piattaforma del nostro teatro, e ora del nostro cinema. Egli poteva rappresentare soltanto se stesso, non era un tipo o un carattere proveniente dalla commedia dell’arte, un Pulcinella, un Brighella, un Pantalone, un Arlecchino, anche se poteva improvvisarne i modi; ma una formazione autonoma, un ‘invenzione che riassumeva quei caratteri e li spostava sul : piano della caricatura assoluta, senza legami col resto, la società, il tempo: pura astrazione comica. Insomma, Totò non esisteva in natura, non era vero. In questo senso egli si distacca da tutti gli altri attori comici, che sono derivati dalla commedia popolare. [Ennio Flaiano, 1952, film “dov’è la libertà”, regia di Rossellini. Citazione tratta da http://www.ibmsnet.it/toto/]

http://www.ilportaledelsud.org/tot%C3%B2.htm

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