Ezio Comparoni in arte Silvio D’Arzo, l’uomo che cam­mi­nava per le strade: incontrando uomini, capre, vecchie , castori, pinguini ..ma essi pensano ad altro

Silvio D’Arzo

il mondo non è casa tua; a te sembra di starci a dozzina”

il 6 febbraio 1920 nasceva , a Reggio Emilia, Ezio Comparoni in arte Silvio D’Arzo

Nato nel 1920 Silvio D’Arzo, all’anagrafe Ezio Comparoni, è figlio di Rosalinda Comparoni, originaria di Cerreto Alpi, e di padre ignoto. L’assenza paterna, vissuta dallo scrittore come una macchia originaria ineliminabile (come si evince anche analizzando la sua produzione letteraria), intensifica il legame, che fin da subito si connota come simbiotico ed esclusivo, con la madre assieme alla quale, trascorre tutta la sua breve esistenza nel misero stanzone di via Aschieri n°4, in centro a Reggio Emilia, tra difficoltà economiche e aspirazioni letterarie, Rosalinda Comparoni (di cui è felice trasposizione letteraria la Zelinda di Casa d’altri), sebbene sia una povera e umile donna del popolo che si barcamena con lavori saltuari per sbarcare il lunario, è, però, capace di intuire le straordinarie doti del figlio che si qualifica subito come genio precoce conseguendo la maturità classica da privatista a soli sedici anni e laureandosi poi a ventuno all’università di Bologna con una tesi in glottologia su tre varietà del dialetto reggiano. La scelta di laurearsi con una tesi riguardante Reggio Emilia testimonia il profondo legame che il nostro autore ha sempre avuto con la sua città natale, evidente non solo nei riferimenti paesaggistici, nelle usanze e nei proverbi della tradizione reggiana che compaiono in tutti i suoi racconti, ma anche nella scelta dello pseudonimo D’Arzo (utilizzato nel 1942 per l’unica sua opera pubblicata in vita, All’insegna del Buon Corsiero) con cui, attraverso un’originale etimologia, vuol rendere omaggio alle sue radici: D’Arzo, infatti, come spiega lui stesso ad un amico, è sostantivazione geografica e in lingua di Arzan che nel nostro dialetto significa appunto da Reggio.Il profondo vincolo che lo lega alla sua città, che a tratti, però, si muta in profonda insofferenza per il clima chiuso della vita provinciale, rende lo scrittore restio ad abbandonarla e, se se ne allontana, è solo perché costretto, come quando deve frequentare la scuola Ufficiali per il servizio di leva che lo porta da Como a Barletta dove l’8 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi ma riesce fortunosamente a fuggire; oppure quando soggiorna a Roma per sostenere il concorso a cattedre per insegnante di Lettere, e la breve permanenza sul lago di Garda quando ormai è in fin di vita.La sua attività principale è l’insegnamento; il suo campo di interesse è la letteratura, in cui i classici vengono dialetticamente messi confronto con i moderni (soprattutto inglesi e americani); solo nei ritagli di tempo si dedica a quella che è la sua vera passione: la scrittura. “Niente al mondo è più bello che scrivere -afferma, infatti – anche male anche in modo da far ridere la gente. L’unica cosa che so è forse questa”. Anche se D’Arzo muore giovanissimo, nel 1952, all’età di soli trentadue anni (per una forma grave di leucemia), la sua produzione appare abbastanza ampia ed eterogenea. Si va dai saggi critici, che si presentano come essays di taglio anglosassone, in cui emergono, per l’appunto, l’amore e la conoscenza profonda per la letteratura angloamericana, ora raccolti sotto il titolo, che lo scrittore stesso aveva ideato, di Contea inglese; all’attività poetica; alla narrativa per ragazzi, tra cui  ricordiamo Penny Wirton e sua madre, ma anche Il pinguino senza frac e Tobby in prigione; ai racconti brevi, tra cui spiccano Due vecchi e Alla giornata; e infine i romanzi di cui menzioniamo All’insegna del Buon Corsiero e, soprattutto, Casa d’altri (pubblicato postumo) che la critica unanime riconosce come il suo capolavoro (Montale ebbe a definirlo: “un racconto perfetto”), in cui i temi esistenziali della solitudine, dell’estraneità, della precarietà del vivere così presenti in tutta la sua poetica, toccano il vertice e vengono universalizzati in una sintesi felice e originale di stile e di immagini.

http://silviodarzo.com/2010/12/29/silvio-darzo/

CASA D’ALTRI di SILVIO D’ARZO: un dramma di coscienze

Ha ragione Luiginter LA PIOGGIA GIALLA di J.Llamazares è un libro “bello e terribile” che provoca sofferenza,ma che non puoi non leggere per la bellezza della scrittura, che ti emoziona e ti fa pensare. Io,grazie anche alla brevità, affascinata dalla scrittura e coinvolta emotivamente, ho sentito il bisogno di rileggerlo anche una seconda volta.

E nel rileggerlo il mio pensiero andava continuamente ad un altro romanzo breve, per lo più poco conosciuto anche se giudicato “perfetto” da un autorevole Montale e apprezzato da Bertolucci, Pasolini e altri al punto di essere giudicato uno dei più bei racconti del 900 italiano e non solo: CASA D’ALTRI di SILVIO D’ARZO, uno scrittore reggiano morto nel 1952 a trentadue anni di leucemia. E così ho riletto con altrettanta emozione anche Casa d’altri, che, pur nella diversità, ha in comune con” la Pioggia gialla” parole chiave come SOLITUDINE, SILENZIO, MORTE. E poi lo stesso tipo di scrittura lirica, musicale, agile, immediata, scarna, essenziale.

Ed anche l’atmosfera di una terra di montagna,anche se i Pirenei non sono l’Appennino e anche se Montelice non è un paese del tutto abbandonato come Ainielle:

Sette case addossate..due strade, un cortile che chiamano piazza,uno stagno e un canale e montagna quanta ne vuoi. Che fanno qui a Montelice? vivono e basta e poi muoiono..qui non succede niente di niente…gli uomini al pascolo..le donne a far legna..in strada una vecchia o una capra o nemmeno quello..l’inverno dura mezzo anno. due mesi continui di pioggia, due tre mesi di neve-neve. non succede niente di niente solo che nevica e piove e la gente nelle stalle a guardare la pioggia e la neve come i muli e le capre.

C’ è un tempo della narrazione che è tre-quattro anni dopo la seconda guerra mondiale e c’è uno spazio al di là di quelle sette case, i cui colori si ripetono come un ritornello..un po’ come la pioggia gialla:

L’aria fuori viola e viola i sentieri e l’erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti…c’è quassù una certa ora. I calanchi si fanno color ruggine vecchia e poi viola, e poi blu..le capre si affacciano agli usci con degli occhi che sembrano i nostri. E non c’è sole nè luna nel cielo

E invece dell’assoluta solitudine di Andrés c’è la solitudine di Zelinda con la sua spietata, bestiale vita di stenti, non diversa da quella della capra che le sta sempre accanto giù al canale, dove in ogni stagione lava stracci e budella, ogni giorno fino a sera.

La storia è fatta di niente, eppure potrebbe essere “un giallo esistenziale”, “un giallo dell’anima”, perchè c’è un mistero da svelare nel rapporto che si stabilisce tra la donna e il vecchio parroco del paese, ridotto ad essere “un prete da sagre e nient’altro”

Zelinda in questa tragica vita di stenti cerca una via d’uscita dal mondo, vuole l’autorizzazione a morire come un gesto di carità ” se senza far dispetto a nessuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima..anche uccidersi “ La tragedia del vivere, la consapevolezza dell’impossibilità del vivere e la fede, il sentimento religioso: uccidersi e non trasgredire.

Una vecchia con una terribile domanda e un prete con il suo silenzio ” da provare vergogna per tutte le parole del mondo”

La vecchia alla fine muore e non si sa come e anche per il vecchio prete è ormai ora di preparare le valigie”e senza chiasso partir verso casa.Credo di avere anche il biglietto”: la vita come esilio, in senso laico, il non senso del vivere, l’irreparabile alienazione, scoprire che non solo Zelinda vive in casa d’altri.

In un dattiloscritto del racconto, di cui esistono diverse redazioni, D’arzo ha aggiunto a penna:”il mondo non è casa tua; a te sembra di starci a dozzina” e in emiliano significa “starci in prestito”.

Anche D’Arzo, figlio illegittimo in tempi in cui era vergognoso esserlo, è un esule senza nome, ma con tanti pseudonimi( anche Silvio D0′Arzo !)in casa d’altri, senza una sua terra.

Forse la sua patria è quella letteratura angloamericana, di cui era raffinato ed esperto conoscitore, come dimostrano i suoi saggi.

Amava Stevenson, James, Conrad, Kipling, Hemingway e in loro cercava il senso del vivere.

 http://gruppodilettura.wordpress.com/2008/05/06/casa-daltri-di-silvio-darzo-un-dramma-di-coscienze/

Silvio D’Arzo/I morti nelle povere case

Non aveva mai potuto imma­gi­nare che si potesse morire anche di dome­nica. Un assurdo, un non senso: qual­cosa di vera­mente inconcepibile.

A Fer­ra­go­sto nes­suno pensa ai morti.

Intanto con­ti­nuava a star­sene lì, presso il tavolo, impac­ciato, come deluso. Il foglio aperto (la busta fode­rata d’un viola eccle­sia­stico era tutta accar­toc­ciata vicino a un piede del letto) posava, colla parte scritta all’insù, sopra l’orlo a giorno di sua sorella Erme­linda. E pareva quasi non ci fosse altro, ora, in quella stanza folta invece di cose come tutte le stanze povere; quella let­tera del suo paese, che sapeva un po’ di sale e di tabacco, e lui, Marco, che si guar­dava ora le mani pen­dere inerti dalla giacca. Ebbe, anche, per un momento l’impressione che esse, così unite e com­po­ste, fos­sero cose fatte, non sue.

Poi guardò una zan­zara color d’aria e, subito dopo, la bici­cletta magra, da ope­raio, con un freno solo e impossibile.

S’accorse allora che man­cava un rag­gio e decise di por­tarla uno di quei giorni dal mec­ca­nico. Domani ­– pensò. – Senz’altro: l’avrebbe por­tata pro­prio il giorno dopo.

Nté nté nté. Inu­tile cer­care di dar tanta impor­tanza a quel fatto che non ne aveva invece nes­suna. Il pen­siero di suo fra­tello, morto pro­prio ieri a Bar­graio, lo riprese tutto, occhi, cuore, san­gue. Gli si pro­pagò giù giù per il corpo, come qual­cosa di fisico, di con­creto. E desi­derò stra­na­mente di aver qual­cosa da acca­rez­zare in quel momento, su cui affon­dare le mani, e lasciar­vele anche un poco: non una donna, ora, però: qual­cosa di caldo, di vivo, quasi come noi, ma che però se ne stesse in silen­zio, senza doman­dar la ragione di niente. Un bracco, ecco. Un bracco ras­se­gnato e bona­rio, dal muso tenero, come la lin­gua dei bambini.

Per­ché suo fra­tello gli aveva fatto da padre, da com­pa­gno e da tutto: e lun­ghe sere gli tor­na­vano ora alla mente, e par­tite inter­mi­na­bili con carte unte e ver­da­stre, che sape­vano un poco di cre­denza. E di vino, anche, cer­tune, curve come le tegole dei tetti.

Erano vis­suti sem­pre in due, per quasi vent’anni: due sol­tanto, nella città piena di case e di gente: ma due sono più di cin­quanta e di cento, quando ci si capi­sce e ci si vuol bene.

Riprese un momento la let­tera poi la lasciò di nuovo sci­vo­lare dalle dita e quella, come una far­falla, andò calma a posarsi un poco, disco­sta, presso la porta: una let­tera uguale a tutte le altre, insomma, a vederla così, che gli giun­ge­vano ormai da anni ed anni e fini­vano sem­pre: io non mi lamento e così spero di te.

A tutte le altre sul serio: anche a quelle di “mister” asso­mi­gliava quella let­tera sul pavimento.

Il “mister” gli aveva pro­prio scritto il giorno prima che non c’era male in fondo in fondo e che forse lo avrebbe ingag­giato ad ogni modo non per adesso intanto però s’allenasse per­ché non aveva molto fiato il ragazzo poi si vedrebbe fra un mese o due o ai primi di novem­bre a farla lunga. E lui aveva anche veduto, la sera.

Intanto biso­gnava fare ad ogni modo qual­che cosa: uscire, pren­dere un treno; qual­cosa. Ma che cosa poteva fare lui, povero dia­volo, se aveva sem­pre davanti agli occhi suo fra­tello, disteso quieto sul letto, e lungo, lungo quasi da far paura ai bam­bini, con i piedi fuori dalle len­zuola? Due piedi, lividi, enormi, che la coperta non riu­sciva a coprire. Anche suo padre era morto così, tempo addie­tro, su un letto simile, in una stanza simile e con quei piedi. I morti nelle povere case hanno i piedi fuori dalle lenzuola.

Pensò per un momento a un castigo cat­tivo e inve­ro­si­mile, ad una ben strana con­danna: e di doverla por­tare per sem­pre, fino alla morte della fami­glia, come il negro sulla pelle. Poi uscì fra gli uomini, in strada: e fu allora che si accorse, che sco­prì quasi, di avere le tasche, in cui affondò subito le mani, sor­preso come di un dono sotto il piatto.

Le tasche. Era vero. Se l’uomo non avesse le tasche si sen­ti­rebbe troppo solo.

Que­sto rac­conto è tratto dal volume “ Sil­vio D’Arzo, L’uomo che cam­mi­nava per le strade”, Quod­li­bet, 1993.

http://www.rable.it/?p=4487

Secondo Eugenio Montale, il grande poeta, “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo è il miglior racconto del ‘900. Ma questo non soltanto secondo Montale. Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni (1920-1952: mancò giovanissimo per una leucemia fulminante) era uno scrittore emiliano, piuttosto appartato, mite e un po’ ombroso, ma non era assolutamente un introverso. Molti i suoi racconti brevi, dispersi qua e là: quelli ritenuti migliori furono raccolti in un volume intitolato, appunto, “Casa d’altri”, con quello classico della stesso titolo in prima battuta.

Nel racconto in questione, “fatto d’aria” come scrisse sempre Montale sul “Corriere”, una vicenda assurda viene fatta passare per normale dall’autore. E’ normale che una vecchietta chieda ad un prete “da sagra” il permesso di suicidarsi. Ed è normale che il prete non sappia cosa rispondere, se non cose banali e convenzionali. D’Arzo ha la bravura di tenere tutto in sospeso, tutto in essere. La vicenda, infatti, non ha uno sviluppo: allo scrittore preme mettere in evidenza l’assurdità della richiesta o, molto più semplicemente, la sola richiesta.

Nello sfondo, rimane sfumato, riservato, schivo, il dolore per il vivere. D’Arzo suggerisce che si tratta di un dolore sotterraneo, metafisico che nasce da considerazioni sentimentali e da delusioni terribili per il loro esito.

La profondità del sentire le cose, la vita, l’esistenza, la realtà, è quanto mai intensa e suggestiva nel racconto, senza che vi sia ricorso mai ad effetti tradizionali, a tentazioni tragiche facilmente sfocianti nella teatralità o, peggio, nel melodramma.

A D’Arzo si sono fatti e si fanno torti inaccettabili: si leggono le sue pagine con una gravità del tutto impropria, con una cupezza che il nostro scrittore non prende neppure in considerazione.

Dal racconto in questione, Alessandro Blasetti trasse a suo tempo un breve filmato, inserito nel film ad episodi “Tempi nostri” (altrimenti noto come “Questa è la vita”, 1954) recitato dall’immenso Michel Simon (l’attore prediletto da Jean Vigo, che lo volle per il mitico film “L’Atalante”): riprese meste, in bianco e nero, dramma incombente, volti atteggiati, ritmo funebre. Tutte cose che non esistono nel racconto.

Nel racconto esiste uno stupore sospeso, per nulla indagato, accettato così com’è: una sorpresa per certe sensazioni, per certe larve di pensieri e la rassegnazione, però vigile, quanto consapevole della partecipazione alla stranezza, a dar loro retta, come se si trattasse, infine, di una cosa del tutto ovvia.

Nessun cedimento emotivo e nessuna concessione alla malinconia o alla tristezza. Miracolosamente il racconto sta in piedi da solo, senza bisogno di aiuti esterni. E’ una vicenda interiore, non è un evento esteriore. Ecco perché il prete, che rappresenta il sistema preposto a collocare, bene o male, ogni cosa, si trova a mal partito di fronte ad una espressione completamente fuori dalle righe, ma in qualche modo legittima perché presentata con ingenuità e candore. Non è spiazzante? Non è irreale?

Ovviamente, la verità dice che candore e ingenuità non esistono affatto in quella richiesta assurda (assurda per le istituzioni), esiste piuttosto una normalità inquietante, una normalità che decreta la sconfitta della consuetudine. La vita e la morte sono cose troppo serie per questo mondo.

Silvio D’Arzo segue la vicenda con passo leggero, ma lascia orme indelebili: lievi e incisive come poche. Sono orme imbarazzanti che non portano da nessuna parte, se si esclude il duro mestiere di vivere. E’ un mestiere che il nostro scrittore conosce molto bene: l’ha, curioso e insistente nel proprio animo, con profonda semplicità. E’ vivo e palpitante come nient’altro.

Dello stesso autore:

Testi di Silvio D’Arzo

http://www.homolaicus.com/letteratura/silviod_arzo.htm

                                              

Tobby in prigione

Gli uomini visti con gli occhi di un cucciolo di castoro, studioso, volenteroso e curioso dopo che lui e la sua comunità sono stati presi prigionieri dagli uomini. Quando i castori si accorgono della fine che li attende, diventare pellicce per femmine d’uomo, si organizzano e con grande coraggio e riescono a fuggire

Piccolo, bianco, povero e senza frac: è Limpo, un pinguino che, triste e sconsolato, si allontana da Mamma e Papà pinguino avventurandosi nell’immenso e sconosciuto Nord, alla ricerca della risposta a un’unica domanda: perché lui non ha il frac? Sopravissuto a paurose burrasche, a lunghi periodi di digiuno, incontrando foche, trichechi, gabbiani e renne, a poco a poco impara che, di fronte alla sofferenza e alla violenza, tutti i cuccioli di animali, compresi i piccoli degli uomini, piangono allo stesso modo. Sconcertato e infelice fa ritorno a casa. La tristezza si trasforma in sorpresa quando il piccolo si accorge di indossare il più elegante frac che pinguino abbia mai visto, segno del raggiungimento di una conoscenza fatta di esperienza e di coraggio.

Sicut beneficum Lethe? – 1 – Silvio D’Arzo

Pubblicato il 14 giugno 2013 di

Essi_pensano_ad_altro

Sicut beneficum Lethe? – 1 – Silvio D’Arzo

Con un verso di Baudelaire (il verso iniziale della terza strofa di Franciscae meae laudes, dalla sezione Spleen et idéal, Les fleurs du mal) seguito dal punto interrogativo si apre una rubrica dedicata ad autori e autrici dimenticati troppo presto, o semplicemente – e altrettanto inspiegabilmente – ignorati.

La prima puntata è dedicata a Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni. Di un episodio della sua breve vita (Comparoni morì nel 1952) ha scritto Giovanni Lindo Ferretti (CCCP, CSI, poi PGR) nel suo secondo libro Bella gente d’Appennino (2009).

Mi sono avvicinata alle opere di questo autore noto a un pubblico non ampio, ma fedele, di lettori, grazie al suggerimento di Maria Serena Peterlin, all’epoca mia collega, che nell’autunno del 1996, dinanzi al mio quesito interessato – ero stata chiamata a partecipare a un seminario in Assia sulla letteratura per ragazzi in Europa – mi parlò di Penny Wirton e sua madre, proprio di Silvio D’Arzo.
Qualche anno dopo, animata da una curiosità volta a scoprire anche altri aspetti della produzione narrativa di Silvio D’Arzo, scelsi di leggere Essi pensano ad altro.
Essi pensano ad altro è stato definito da Giovanni Raboni un “tipico libro d’apprendistato” (G. Raboni, “D’Arzo, ‘caso’ e leggenda’” in Tuttolibri-Attualità, 30 ottobre 1976). Scritto tra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta del 20° secolo, narra delle difficoltà di Riccardo, giovane studente universitario, a inserirsi a Bologna. Riccardo alloggia presso Berto Arseni, amico del padre e imbalsamatore di professione. Ciò che accomuna i due è un senso diffuso di estraneità e il rifugio da un mondo ostile nel violino per Riccardo e negli animali – vivi o imbalsamati – per Arseni.
Ecco l’incipit del romanzo, pubblicato per la prima volta da Garzanti nel 1976 e riproposto, con una bella e ampia introduzione dal titolo significativo, Il moderno disagio della diversità, da Roberto Carnero nel 2002:

Quando egli giunse al numero sette bis di via Marsala, il cielo d’un color morto e compatto d’alluminio era malinconico come gli sbadigli e l’acqua delle pozzanghere, ed un po’ meno dell’asfalto forse su cui i pneumatici delle macchine e dei camion davano uno strano rumore.
«Forse non riuscirò a trovarla,» pensò poi. Perché viaggiava per la prima volta e le sue scarpe erano ancora così terribilmente goffe e lucide e quasi inesperte ancora di vie e pietre, da sentirsi vagamente convinto che arrivare a destinazione e trovare casa numero e cortile si potesse solo per caso o una fortunata combinazione, non per altro.
Intanto si sentiva lontano dalle cose. La gente, passando svelta sotto l’acqua, mostrava un’indifferenza remota, quasi offensiva, e il colore degli impermeabili, più grigi ancora sotto quella pioggia, appariva anche più triste, sconsolante. Le spalle che si indovinavano in una magrezza rassegnata sotto la gomma, facevano provare un lontano ricordo di disagio.
Quando, infine, scoprì la casa fra le altre, c’era già gente per le scale perché stavano imbiancando un appartamento al primo piano.
Dappertutto, per la ringhiera e il corridoio, l’aria ricordava vagamente il latte. Due uomini, in un grembiule gialliccio e aspro di calce, e un cappello di carta da giornale, stavano parlando nella stanza vuota, dove spruzzi bianchi e minuti punteggiavano tutto il pianerottolo, ma sparsi in un certo ordine inspiegabile come agitando un cestello d’insalata. La stanza sembrava quasi chiesastica, immensa, non da uomini, e le voci dei due vi risuonavano ora stranamente: tanto che, anche ad occhi chiusi, bastavano quelle voci soltanto a far capire che all’interno, lungo le pareti e al contro, non c’erano né armadio né tavoli né cuscini od altro, e che un comò, lasciato lì da una parte come dimenticato o trascurato, sarebbe sembrato in quel vuoto una strana cosa, e forse inverosimile.*

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Silvio D’Arzo, uno dei molti pseudonimi, il più noto, di Ezio Comparoni, nasce nel 1920 a Reggio Emilia, dove morirà prematuramente nel 1952. Lo pseudonimo, che appare in una lettera dell’editore Vallecchi a “Silvio D’Arzo, presso Comparoni, via Aschieri 4, Reggio Emilia” (con la lettera si rifiutava Ragazzo in città, probabilmente proprio la prima stesura di Essi pensano ad altro), deriva dall’espressione arzan, che nel dialetto della zona vuol dire “reggiano”. Figlio naturale, vivrà sempre con la madre in modeste condizioni economiche e dalla provincia emiliana si sposterà soltanto per frequentare l’Università di Bologna e per svolgere il servizio militare. Quindicenne pubblica a sue spese una plaquette di diciassette poesie, Luci e penombre, e una raccolta di sette racconti, Maschere; è del gennaio 1943 (anche se porta la data del 1942) la pubblicazione, per la casa editrice Vallecchi, dell’unico volume in vita: il romanzo All’insegna del Buon Corsiero. La biografia pubblicata sul sito della casa editrice MUP recita così: «Laureatosi in lettere nella Bologna di Longhi e Calcaterra, divide il suo tempo tra l’insegnamento e la scrittura. L’accavallarsi di trame, poesie e storie per ragazzi, che giungeranno al pubblico solo dopo la sua morte, sono l’esito di un incessante lavorio sulla pagina ispirato ad una idea assoluta di letteratura. “Lettore di provincia”, ama gli scrittori inglesi e americani a cui dedica saggi – preziosi i contributi sui venerati Stevenson, Conrad e James – apparsi nelle riviste “Il Ponte”, “Palatina” e “Paragone”. Dall’alterna fortuna critica, D’Arzo è stato un autore di culto per lettori d’eccezione, da Montale a Bertolucci, da Pasolini a Tondelli.» Montale definì Casa d’altri, il racconto lungo per il quale Sivio D’Arzo è maggiormente conosciuto, “un racconto perfetto” (sul Corriere della Sera del 10 marzo 1954). Nel 2003 MUP Editore ne ha pubblicato l’opera omnia in: Silvio D’Arzo, Opere, a cura di S. Costanzi, E. Orlandini, A. Sebastiani. Di Alberto Sebastiani è un interessante contributo su due “dispersi” darziani, reperibile qui. Sempre l’editore Monte Università Parma ha pubblicato nel 2004 le sue Lettere.

http://poetarumsilva.com/2013/06/14/sicut-beneficum-lethe-1-silvio-darzo/

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