In casa Cupiello. Eduardo critico del populismo
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Una volta scoperchiato il vaso del mito, bisogna marcare la funzione
‘organica’ che esso racconta del rito. Secondo una teoria di Joseph Campbell,condotta nell’ottica di una sintesi tra mito e rito, si possono individuare alcuni caratteri costanti, che corrispondono perfettamente ai leit-motiv di
Natale in casa Cupiello:
il piacere (cibo, casa, sesso, famiglia) ed il dovere (come rispetto dei valori tradizionali della tribù).
Il “presebbio” si situa in questo contesto cerimoniale. Ha una funzione
polivalente nell’economia dell’opera, ed è il catalizzatore del desiderio di Luca Cupiello nei primi due atti.
Esso significa moralmente e ritualmente.
Da un lato come giustificazione di un rito che evoca appunto una ‘riunione familiare’, portatore di un carattere (orgiastico e mistico) inadattabile alle norme sociali ed epistemologiche del contesto borghese. La seconda valenza si connette alla prima nel contrasto: il presepe diventa simulazione
dell’attività artistica, luogo di condensazione dei fantasmi da temere.
Il primo dialogo ha la funzione di rappresentare questo difetto comunicativo come tema dominante dell’opera attraverso una serie di simboli stridenti: il caffé, la colla.
Vale la pena di soffermarci sulle analogie che connettono questi simboli rituali nello stesso insieme: la negatività. Il caffé è un rito polivalente: una funzione conviviale che si accompagna ad un effetto eccitante del sistema nervoso. In questo senso la volontà di unione si collega ad una componente emotiva, nervosa, che tende a svincolarsi dal controllo della ragione, fino a simbolizzare da subito l’alienazi ne del soggetto.
Concetta infatti non è in linea con questo sistema di ritualità, incontestabilmente antieconomico:
LUCA
Non ti piglià collera, Conce’. Tu sei una donna di casa e sai faretante cose […]. Ma ’o ccafé non è cosa per te.
CONCETTA
E nun t’ ’o piglià… Tu a chi vuoi affliggere.
LUCA
Non lo sai fare e non lo vuoi fare, perché tu vuoi risparmiare. Col caffé non si risparmia
….
Nicolino si presenta dunque da subito come un personaggio inserito, con successo economico, nel contesto positivo-borghese.
La serietà dell’“uomo positivo” viene rappresentata nella controparte del ridicolo, a causa della disattenzione nel vestirsi (dovuta anche alla fretta di rincorrere la moglie) e la seguente battuta di Tommasino:“Uh,Niculino c’a pettola a’ fore!” (NCC, p. 28). È il richiamo ad un concetto
erasmiano della dignità, come attributo estrinseco alla natura dell’uomo.
In questo senso il re (Nicolino, uomo serio nel senso positivo), cioè chi sta al centro del cerchio, è chi ignora di essere diventato lui stesso il buffone della corte, della quale crede di essere sovrano: da subito l’atmosfera di casa Cupiello non sembra congeniale al marito di Ninuccia.
Subito prima Concetta aveva spinto Ninuccia verso Nicolino e Luca aveva spinto Nicolino verso Ninuccia. Apparentemente le azioni del protagonista si muovono per un rappacificamento tra marito e moglie, ma una battuta di Luca evidenzia una falla tra gli elementi visibili e impliciti dell’azione scenica: “A’ femmena, devo dire la verità, è colpa mia” (NCC, p. 26).
A causa del malore di Concetta sono stati trascurati i preparativi per il pranzo, e Luca si oppone alla moglie che dopo essersi ripresa propone di scendere lei stessa per “fa’ ’o ppoco ’e spesa”. Nicolino si inserisce in questa situazione di vuoto, contraddicendo l’intenzione di Luca di andare lui stesso:
LUCA
:Mo scendo io.
NICOLINO
Ma niente affatto, ci penso io… vi mando tutto per un giovane mio.
LUCA
Sì, ma non esagerare. Noi ci vogliamo mantenere leggieri. Nu poco’e brodo vegetale… Ninuccia conosce le verdure che ci vogliono… e cin-quecento grammi di tubetti. (NCC, p. 28)
Sono assenti fin qui elementi di contrasto; Luca gioca di scherma con Nicolino, che si è proposto di servirlo, con una raccomandazione significativa sulla sostanza. Altro avvertimento è la chiamata in causa di Ninuccia, la quale, essendo stata educata al desiderio da Luca, “conosce le verdure che ci vogliono”. Il pensiero di Luca acquista un significato maggiore se si considera che nominare Ninuccia lo induce a divagare dal contenuto informativo, rivelando la figlia come sottotesto del dialogo.
Nicolino – : Ma che dovete fare co’ sto brodo vegetale? Mo vi mando io una bella gallina!
Si può ricondurre nuovamente la comunicazione ad un livello gerarchico: il servitore si ribella parzialmente, fedele all’ordine nella forma, ma non nella sostanza. Non a caso il termine compare nella risposta di Luca, legittimando la differenza tra “brodo vegetale” e “brodo di gallina”;
il brodo come sostanza lubrificante, non formata, alla quale Nicolino intende attribuire una forma finita: la gallina. Si tratta di un intento difensivo (il brodo di gallina è aggressivo, oltre che “sostanzioso”, perché comporta un sacrificio animale), una mossa che lo protegga da Nicolino, reo di portare una sostanza definitiva, in eccesso, non richiesta secondo il desiderio.
NICOLINO
Ma niente affatto, vi dovete sostenere. Io vi mando una bella gallina.
LUCA
:Tu mànneme a gallina, ma io mi faccio ’o brodo vegetale. (NCCp. 29)
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TOMMASINO
Te lo giuro sull’anima viva santa di mia madre: mi metto in mano all’avvocato.
PASQUALE
E io ti faccio un giuramento sacro, un giuramento che non ho mai fatto nella mia vita: te lo giuro sul direttore del Banco Lotto di Napoli, che se non trovo la cinque lire, ti faccio fare Natale al pronto soccorso( NCC, p. 35)
DALLA STRUTTURA SCISSA ALLINVERSIONE
Se nel giuramento di Tommasino si riafferma il blocco del suo desiderio, il giuramento di Pasquale significa che l’elemento irrazionale, “Io per gua – dagnare cinque lire devo cecare una settimana intera a fa’ nummere dint’ ’o Banco Lotto” (NCC, p. 33), struttura la logica del personaggio: il procedere antiempirico di Pasquale è assimilabile alla carenza visiva che abbiamo riscontrato in Luca, e su questa affinità si struttura il loro legame fraterno. La natura di questo rapporto si innesta proprio in quello spazio che dovrebbe risolvere il rapporto tra padre e figlio: lo spazio del presepe.
In definitiva, Pasquale ruba spazio a Tommasino. Il contesto economico è infatti un contesto spaziale: un recinto nel quale Tommasino si trova intrappolato: Pasquale ruba a Luca, Tommasino ruba a Pasquale.
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TOMMASINO
Sì, io ho ragione da vendere… Io le scarpe me le sono ven-
dute perché mi credevo che non ti alzavi più. (NCC, p. 13).
Perché io so’ sfortunato, questa è la verità. (NCC’77)
La simbologia delle scarpe può intendersi in questo senso alla stregua di un guscio, che ha il compito di contenere l’essenza della persona assente.
Tommasino fa ricorso ad una pretesa condizione strutturale dell’esistenza (la sfortuna) per giustificarsi: è un inetto, e lo stadio confusivo del suo desiderio ne impedisce l’azione. L’inetto è un sintomo epistemologico funzionale alla scissione natura\cultura.
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L’inversione epistemologica.
La situazione scenica si verifica nei termini del rovesciamento
. La scena finale ne può introdurre la portata: il finale èlieto; i due innamorati vincono le avversità e vengono ricongiunti con tanto di benedizione paterna. Questo permette all’opera di rientrare nella definizione aristotelica:
“La commedia è imitazione degli umili, e non imita loro mali, ma la loro turpitudine; il ridicolo ne è una parte. Infatti l’errore è ridicolo, e la deformità non si accompagna mai al dolore e non è mai causa di morte, proprio come la maschera ridicola è sconcia ed è distorta senza traccia di dolore. La tragedia, al contrario, è imitazione di un’azione seria e compiuta, che abbia una grandezza intrinseca, composta da parole ricercate per ciascuna delle sue parti; si ottiene attraverso gli attori e non attraverso il racconto, in modo tale da compiere attraverso la commozione e la paura la purificazione da queste passioni dell’animo”
Poetica
. Rilevo le stonature tra la definizione e l’opera:
1) La componente catartica manifesta il suo effetto nella malattia.
2) La convivenza nell’opera di due categorie che nella definizione logica si trovano distinte: le antitesi morte \ ridicolo e deformità \ dolore. Il rovesciamento del canone è evidente nella descrizione del volto di Luca Cupiello nella scena finale, che, paradossalmente, aderisce in pieno il contrario della definizione Aristotelica: una maschera ridicola che reca in sé una traccia di dolore.
Il riso, in quanto sostituto castratore, dovrebbe conservare l’effetto simulativo, senza avvicinare alla morte.
Natale in casa Cupiello, fondendo la simulazione (mito) con la realtà (la verità della storia)
sovverte l’effetto di castrazione. Mai il riso si sostituisce al pianto, e non
c’è nel testo un punto di separazione tra essi: il comico è spugnato di intenzioni sacre.
Nel terzo atto gli oggetti significanti appaiono esattamente rovesciati
nelle loro valenze, in quanto sono mutati i rapporti di forza della struttura interna dell’opera. Il sipario si apre sul rito del caffé, della cui significazione si è già parlato nei termini della negatività. Ma questa volta si tratta di un’azione cui tutti desiderano prendere parte, il rito è trasformato in un momento condiviso dalla maggioranza.
Don Luca.
Nel terzo atto ci si riferisce al protagonista chiamandolo
“Don Luca”. Le forze che impedivano al padre di essere padre si sono dissolte: è ora possibile “baciare la mano a Don Luca”. L’ascesa al rango di dominus (si pensi anche alla ‘corte di personaggi’ del terzo atto) è il segno di una autorità che era stata inutilmente invocata, e conferma il rovesciamento di condizioni che ci erano apparse strutturali.
Un dato assente:
non conosciamo il momento empirico in cui il protagonista conosce i fatti. A questo proposito, l’unico dato si riferisce al momento in cui Concetta spiega che la malattia si è manifestata in seguito all’apprendimento dei fatti. Luca, cioè, comprende l’effetto delle proprie azioni. In altre parole, il passaggio da Luca a Don Luca è una comprensione emotiva del proprio effettivo esserci nel mondo. Il suo raggiungimento passa attraverso la resa in effetti di una situazione umorale: nell’effettivo implicito ed esplicito convergono: lo sguardo interno al soggetto ha abbracciato dall’esterno il proprio essere.