Pesnja o sentimental’nom boksere by Vladimir Vysotsky , finardi /capossela



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William Walton: Façade- Suite + varie Glenn Gould compreso – Edith Sitwell Interview

EDITH SITWELL

Edith Sitwell

(Gran Bretaña, 1887-1964) 

Poetisa, crítica y biógrafa inglesa, famosa por su poesía satírica o de género burlesco. Sitwell nació en Scarborough (Yorkshire) y estudió en escuelas privadas. Ella y sus hermanos Osbert y Sacheverell fueron probablemente la familia literaria más famosa de la época. Sitwell sorprendió y divirtió a la gente con sus escritos, sus extravagancias y sus espectaculares vestidos isabelinos. Un ejemplo de su elogiado arte es su famoso poema Façade (1922), que ella misma recitó en una divertida representación con música de William Walton. Su poesía destaca por su carencia de metáforas e imágenes anticuadas, por su destreza técnica, especialmente en el empleo de los ritmos de baile, y por la habilidad con que transmite sensaciones y emociones. Refleja la influencia de W. B. Yeats y T. S. Eliot. Durante la II Guerra Mundial escribió poemas sobre los bombardeos y otras circunstancias bélicas, como Aún cae la lluvia, que describe un ataque aéreo sobre Londres. En 1954 le fue otorgado el título de Comendadora de la Orden del Imperio Británico. Entre sus libros de poesía destacan La madre y otros poemas (1915), Costumbres de la costa de oro (1929) y Música y ceremonias (1963). También escribió las biografías Alexander Pope (1930), Excéntricos ingleses (1933) y Fanfarria para Elizabeth (1946), además del ensayo Aspectos de la poesía moderna (1934). En 1965 se publicó póstumamente Cuidándose, su autobiografía.

Aún cae la lluvia (fragmento)

Aún cae la lluvia
oscura como el mundo del hombre,

negra como nuestra carencia
ciega como los mil novecientos y cuarenta clavos
sobre la cruz.

Aún cae la lluvia
con su sonido como el pulso del corazón

que ha cambiado al latido martilleante
en el Campo de Potter, y el sonido los pies impíos

En la tumba
Aún cae la lluvia

En el campo de sangre donde las pequeñas

esperanzas son engendradas y el cerebro humano
nutre su avaricia, ese gusano con la frente de Caín

Aún cae la lluvia
a los pies de los hombres hambrientos colgados

en la cruz.
Cristo que cada día, cada noche, estás clavado ahí,

ten piedad de nosotros
en Divos y en Lázaro:
Bajo la Lluvia la herida y el oro son como uno sólo.

Aún cae la lluvia
todavía cae la sangre de los lados heridos

de los hambrientos hombres:
El soporta en su corazón todas las heridas,

aquellos de la luz que murieron,
el último débil destello.
En el corazón auto-exterminado,

las heridas de la triste e incomprendida oscuridad,
las heridas del oso hostigado
el ciego y sollozante oso que los cuidadores golpean
en su desolado cuerpo…

las lágrimas de la liebre abatid

http://poetassigloveintiuno.blogspot.it/2011/03/3337-edith-sitwell.html

poetessa e saggista inglese (Scarborough, Yorkshire, 1887-Londra 1964). Sorella di Osbert e di Sacheverell, esordì nel 1915 con il volumetto di poesie The Mother. Dal 1916 al 1921 pubblicò con i fratelli un’antologia di poesie, Wheels (Ruote), che si opponeva alle mode poetiche correnti. Tra le innovatrici della poesia moderna inglese, unì all’uso sapiente delle assonanze, allitterazioni e pause, la capacità di tradurre in vivissime immagini la sensibilità medievale e barbarica con cui intuiva la realtà delle cose. Testimonianza di queste sue notevoli peculiarità poetiche sono, tra l’altro, i versi di Clowns’ Houses (1918; Le case dei pagliacci), Façade (1922; Facciata), Gold Coast Customs (1929; Costumi della Costa d’Oro), mentre a una diversa fase cronologica, formale e contenutistica, appartengono The Canticle of the Rose (1949; Il cantico della rosa) e Gardeners and Astronomers (1953; Astronomi e giardinieri). Negli anni Trenta si dedicò invece alla saggistica: Alexander Pope (1930), Aspects of Modern Poetry (1934), Victoria of England (1936). Nel 1957 apparvero i Collected Poems e postuma l’autobiografia Taken Care of (1965; Una vita protetta).

Danza di marinai

Giungono marinai in folla

al suon dei tamburi

fuori dalle mura di Babilonia,

Cavallucci di legno

spumano, un torvo

cielo come un rinoceronte offeso

osservava il rollio dei frangenti sui loro cavalli a dondolo e con Glauco,

Madama Venere sul sofà del mare in lana di cavallo!

Proprio dove Lord Tennyson aveva scritto con l’alloro in capo un Gloria gratis,

a bordo di un iceberg boreale giunse Vittoria; ella

sapeva che la grande statua in memoria del Principe Alberto riflette i colori dei vivai fioriti

e dell’iceberg boreale; continuando a navigare vedono

appena nata dalle acque Madame Vénus per il cui amore di lontano

si mise in marcia l’Imperatore ciccione e a strisce zebrate di Zanzibar,

dove come tanti splendidi mazzi di fiori sorgono Asia, Africa e Catai,

tutti gettati ai piedi di quell’ambigua signora dal gottoso Scià.

Venne Capitan Fracassa, robusto e solido come una botte per l’acqua piovana, si accompagnò

a Ser Bacco nel tracannare coppe di nero sangue di negra uva

colta tra le vigne in tessuto scozzese

sotto un vento peloso il cui dolore la vecchiaia

non riusciva a disseccare – come scoiattolo con una noce d’oro.

La Regina Vittoria seduta scandalizzata sul cavalluccio

di un’onda, disse al poeta laureato: «Questo visone naturalmente

è furbo come una lince e più nero di quel vino e quasi

caldo come un ottentotto, senza esagerare!

«Davvero, il visone,

ella disse,

e il vino,

potete dirlo anche voi,

tengono caldi come un ottentotto e… via! non è roba per me!».

                          Edith Sitwell

(da Da Hardy a Davie – la moderna poesia inglese,

Edizioni Accademia 1976, a cura di Giorgio Miglior)

Hornpipe

Sailors come

To the drum

Out of Babylon;

Hobby-horses

Foam, the dumb

Sky rhinoceros-glum

Watched the courses of the breakers, rocking-horses and with Glaucis

Lady Venus on the settee of the horsehair sea!

Where Lord Tennyson in laurels wrote a gloria free

In a borealic iceberg came Victoria; she

Knew Prince Albert’s tall memorial took the colours of the floreal

And the borealic iceberg; floating on they see

New-arisen Madam Venus for whose sake from far

Came the fat and zebra’d emperor from Zanzibar

Where like golden bouquets lay fat Asia, Africa, Cathay,

All laid before that shady lady by the fibroid Shan.

Captain Fracasses stout as any water-butt came, stood

With Sir Bacchus both a-drinking the black tarr’d grape’s blood

Plucked among the tartan leafage

By the furry wind whose grief age

Could not wither – like a squirrel with a gold star-nut.

Queen Victoria sitting shocked upon the rocking-horse

Of a wave said to the Laureate, «This minx of course

Is as sharp as any lynx and blacker-deeper than the drinks and quite as

Hot as any hottentot, without remorse!

       «For the minx,»

            Said she,

       «And the drinks,

          You can see

Are hot as any hottentot and not the goods for me!»

http://www.retididedalus.it/Archivi/poesie%20della%20settimana/poesie/Sitwell.htm



William Walton – Façade: Tango-Pasodoblé. Lyrics: Edith Sitwell

 

Sir William Walton : Façade – Henry V, a Shakespeare Scenario

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The New Atlantis Sir Francis Bacon pdf e le deportazioni di massa dei poveri in virginia

The New Atlantis Sir Francis Bacon

La Nuova Atlantide – Sentieri della mente

L’avallo delle deportazioni in Virginia

Dopo la privatizzazione delle terre, come uomo politico concettualizzò la scienza del terrore assecondando e sostenendo le deportazioni di massa dei diseredati e dei poveri nelle colonie americane della Virginia. Tra le altre cose è necessario ricordare che nel 1619 il Consiglio Privato, di cui a quel tempo Bacone faceva parte, violando apertamente la legge inglese, e per assecondare la volontà della Virginia Company, costrinse alla deportazione nelle colonie americane ben 165 bambini, provenienti dal Bridewell Palace. Di quei 165 bambini (di età compresa tra gli 8 e i 16 anni) nel 1625 a seguito dei maltrattamenti subiti nelle piantagioni ne rimasero in vita solo dodici. Le deportazioni continuarono coinvolgendo altri millecinquecento bambini nel 1627 e ulteriori quattrocento, di origine irlandese, nel 1653[12].

Influenze del pensiero baconiano

Per studiare le idee di Bacone, un gruppo di 12 scienziati inglesi fondò la Società Reale, divenuta in seguito l’accademia nazionale inglese delle scienze. Ispirò profondamente il pensiero ed il lavoro di Hobbes e di Locke. Durante l’Illuminismo francese, l’Encyclopédie è stata dedicata a Bacone; D’Alembert chiamò Bacone il massimo, il più universale e più eloquente filosofo. La Convenzione Nazionale pubblicò le opere di Bacone a spese dello Stato.

« Se siamo riusciti nel nostro intento, ne siamo debitori al Cancelliere Bacone. »

 

di Angelo Papi

QUADRO STORICO

L’Inghilterra di Elisabetta I

L’Inghilterra, dopo aver subito un grossolano tentativo di ricattolicizzazione per opera di Maria Tudor e del cardinale Pole, ed un tentativo di unione politica con la Spagna attraverso Filippo II, negli anni “60 si distacca nuovamente dal mondo cattolico e dalla politica filoasburgica. Con l’ascesa al trono di Elisabetta I (1558) in concomitanza con una fase estremamente favorevole del commercio inglese, e con l’apertura di nuove vie transeuropee ed atlantiche, l’Inghilterra riprendeva la propria vicenda autonoma, di sviluppo interno e di politica internazionale, parte dell’Europa ma un po’ discosta, influenzata dal continente ma capace di produrre un’identità propria.

La nuova regina Elisabetta (1558-1603) si fece interprete della decisa opposizione nazionale antispagnola e antiromana, che s’era manifestata nel paese, e si affrettò a restaurare la confessione riformata come unica religione di stato, sicché ancora una volta la Chiesa anglicana risultò sottratta al controllo del Papato. La lotta politico-religiosa in Inghilterra s’inasprì a seguito dell’atteggiamento intransigente assunto dal pontefice Pio V, il quale nel 1570 lanciò una bolla di scomunica e di deposizione contro la regina Elisabetta, i cui diritti di successione non erano mai stati legittimati dalla Chiesa romana, essendo ella nata dal matrimonio di Enrico VIII con Anna Bolena, ritenuto canonicamente invalido.

L’opposizione cattolica: Maria Stuart

L’opposizione cattolica interna contrappose ad Elisabetta la candidatura al trono della cattolica Maria Stuart, regina di Scozia e pronipote di Enrico VII, educata alla corte francese.

Nel 1568, per la crescita del calvinismo in Scozia, la regina Maria Stuart è costretta ad abdicare e si rifugia nel nord dell’Inghilterra. Qui ottiene il sostegno degli aristocratici cattolici, che promuovono la ribellione nell’intento di difenderne la persona e di ottenere il riconoscimento come erede. La rivolta viene repressa e Maria Stuart imprigionata, che solo dopo la scoperta di due complotti contro la regina Elisabetta, verrà condannata e decapitata (1568).

La guerra anglo-spagnola

L’esecuzione di Maria Stuart offrì al sovrano spagnolo l’occasione per venire allo scontro armato diretto e decisivo. Filippo II, infatti, si decise di dare esecuzione al progetto da tempo maturato di tentare l’invasione dell’Inghilterra, che tuttavia si concluse con una clamorosa sconfitta della sua Invincibile Armata (1588).

L’ascesa della “gentry”

Le grandi riforme di Enrico VIII avevano portato alla ribalta della vita politica inglese una nuova classe sociale di proprietari terrieri (la “gentry”) che si era affermata a detrimento del clero e di quell’aristocrazia feudale che si era suicidata nella Guerra delle due rose. Costoro rappresentarono la base sociale più consapevole del consenso monarchico durante il regno di Elisabetta, dato che vedevano nel consolidamento del potere centrale una salvaguardia tanto alle rivendicazioni dell’aristocrazia feudale quanto alle pressioni del basso.

Il padre di Bacone apparteneva a questa generazione di uomini nuovi. Erano i primi statisti di professione che producesse l’Inghilterra; cresciuti in mezzo alle sottili controversie teologiche erano, in quanto protestanti, all’avanguardia della vita intellettuale, ma lontani da ogni forma di zelo e fanatismo religioso. Riformarono la chiesa inglese non con impeto da teologi, ma con tranquilla sicurezza di statisti; si appoggiarono all’opinione pubblica, decisamente anticattolica, e giocarono le loro fortune sul trionfo del protestantesimo in Europa; la loro politica abile e prudente gettò le basi della potenza inglese.

Elisabetta I andò a prendere i suoi consiglieri fra gli uomini nuovi, figli di yeomen (proprietari terrieri) o di mercanti, notevoli non per la loro nascita, ma per la loro intelligenza.

Guidata da questa nuova classe sociale di uomini di legge e gentiluomini di campagna l’Inghilterra vide accrescere straordinariamente, sotto il regno di Elisabetta, la sua prosperità: operai, industriali e commercianti, provenienti soprattutto dalla Francia e dai Paesi Bassi sconvolti dalle guerre di religione, si rifugiarono in Inghilterra portando nella nuova patria capitali, capacità tecniche, spirito di iniziativa.

Nascevano nuove industrie e l’Inghilterra andava trasformandosi da nazione agricola e pastorale in uno stato industriale e mercantile.

Nei cento anni che seguirono la chiusura dei monasteri decretata da Thomas Cromwell, consigliere di Enrico VIII, l’Inghilterra attuò la sua prima rivoluzione industriale.

Fra il 1575 e il 1642 essa divenne il primo paese di Europa per quanto riguardava le miniere e l’industria pesante. La manifattura della lana, che prima veniva spedita nelle Fiandre per la lavorazione, si diffuse rapidamente nelle città e nelle campagne. Il sorgere di compagnie commerciali che armavano nuove flotte per il traffico, per i viaggi di scoperta, per la pirateria, dava all’Inghilterra nuova ricchezza e potenza.

L’artigiano, il mercante, il banchiere sono i tre tipi umani dominanti nell’ambiente di allora, pieno di fermenti, proteso verso il futuro e verso la ricerca di nuove tecniche capaci di consentire all’uomo un sempre più ampio dominio sul mondo. Per vie del tutto differenti si accostava a questo mondo dell’azione anche la religiosità puritana; essa era ben lontana dal risolversi in contemplazione: solo attraverso un duro, continuo assoggettamento della realtà l’uomo può muovere alla conquista di Dio. Di qui nasceva l’idealizzazione religiosa del lavoro e la concezione di una conoscenza concepita come strumento della volontà.

QUADRO CULTURALE

F. Bacon visse, fra il 1561 e il 1626, in un ambiente politico e culturale ricco di contrasti, in un’età cruciale per la storia inglese. Di molte delle idee che furono espresse in quella cultura è certo possibile andar rintracciando le origini e le fonti nella cultura inglese ed europea delle età precedenti. E’ ormai un risultato acquisito che le prime origini della nuova problematica culturale che si afferma nel secolo XVII vanno ricercate nell’empirismo della scuola di Occam, nell’identificazione occamista della conoscenza con l’esperienza, nel nominalismo.

D’altra parte la rinascita delle letterature classiche, la rivolta antiecclesiastica e il sorgere di una nuova filosofia della natura contribuiranno in seguito ad accentuare questo distacco della cultura inglese dalla teologia sistematica e dalla disciplina peripatetica. La critica degli umanisti inglesi alle forme “barbariche” dell’erudizione teologica e il loro interesse per un rinnovamento religioso che accentuasse i valori “pratici” del messaggio evangelico, in opposizione alle pretese definitorie della teologia, implicavano un radicale mutamento di attitudini verso il corpus delle dottrine metafisiche.

Resta tuttavia il fatto, innegabile, che l’intellettuale inglese degli inizi del secolo XVII era “medievale” più che a metà e, intorno al 1660, era più che a metà un uomo “moderno.

Il mondo culturale inglese che sta a cavallo fra il Rinascimento e l’età moderna si presenta complesso e denso di contraddizioni, ancora pieno degli echi della cultura e della mentalità medievale.

La posizione storica di Bacone

Nonostante la sua febbrile attività, la sua quasi affannosa partecipazione alla vita politica e culturale del tempo, Bacone rimase, almeno come “filosofo”, una figura relativamente isolata perché ciò che più di ogni altra cosa lo aveva interessato – la lotta in favore di un ideale cooperativo della scienza e il progetto di una serie di grandi istituti scientifici – si risolse, durante gli anni della sua vita, in un pieno insuccesso. Il successo venne più tardi, durante la seconda metà del secolo XVII.

Infatti, la consapevolezza dell’importanza sociale della ricerca scientifica, la coscienza che i fini della scienza sono il progresso e il rinnovamento delle condizioni di vita dell’umanità, la collaborazione organizzata e pianificata fra ricercatori sono fenomeni della vita culturale posteriori a Bacone e che si richiamano esplicitamente al suo nome e al suo insegnamento.

ITER BIOGRAFICO E INTELLETTUALE

+ 1561 Nasce a Londra da Sir Nichol Bacon, Lord Guardasigilli della regina Elisabetta.

+ 1575 Termina gli studi all’università di Cambridge. Compie un viaggio in Francia.

+ 1584 Viene eletto alla Camera dei Comuni, dove restò per circa vent’anni. Finché visse la regina Elisabetta, non potè ottenere nessuna carica importante.

+ 1597 Pubblica la sua prima opera: i Saggi, sottili ed erudite analisi di vita morale politica nelle quali la sapienza degli antichi è ampiamente utilizzata.

+ 1602 Scrive il Parto maschio del tempo: uno scritto molto polemico contro i filosofi sia antichi sia medievali sia rinascimentali. Tutti questi filosofi, ad avviso di Bacone, sono moralmente colpevoli di non aver avuto il debito ossequio per la natura e il necessario rispetto per quell’opera del Creatore che va ascoltata con umiltà ed interpretata con la necessaria cautela e pazienza. La filosofia del passato è sterile e verbosa. Una siffatta critica della cultura tradizionale tornerà a più riprese nelle successive opere di Bacone.

+ Nel 1603 salì al trono Giacomo I, uomo amante della cultura e protettore di intellettuali. E sotto Giacomo I la carriera di Bacone divenne rapida e brillante, fino ad essere nominato nel 1618 Lord Cancelliere.

+ 1605 Scrive Della dignità e il progresso del sapere umano e divino. Questo lavoro, che verrà ampliato nel 1623, è una specie di difesa e di elogio del sapere; si prospetta una enciclopedia del sapere distinto in storia (fondata sulla facoltà della memoria), poesia (basata sulla fantasia), e scienza (fondata sulla ragione).

+ 1608 Verosimilmente in quest’anno Bacone inizia il Novum Organum, in cui riprende anche i concetti elaborati nelle opere precedenti e non pubblicate e che è da lui inteso in contrapposizione al vecchio Organum aristotelico. A quest’opera, pubblicata nel 1620, Bacone lavorò per quasi dieci anni e la presentò come la seconda parte della Instauratio Magna (Grande rinnovazione), un progetto non realizzato il cui piano era il seguente:

1) partizione delle scienze: doveva dare la somma della scienza e del sapere dell’umanità;

2) Novum Organum, ossia Principi di interpretazione della Natura: era destinato alla elaborazione di un nuovo e migliore metodo per l’indagine della realtà, che Bacone definiva interpretazione della natura (in contrapposizione alle anticipazioni sulla natura, sommarie generalizzazioni tipiche delle filosofie dogmatiche). Tale metodo doveva concretarsi in una nuova logica;

3) Fenomeni dell’universo, ossia storia naturale e sperimentale per la fondazione della filosofia: doveva comprendere “la raccolta delle esperienze di tutti i generi, quella storia naturale che può servire a fondare la vera filosofia”;

4) Scala dell’intelletto: doveva predisporre i modelli della ricerca e della scoperta secondo il nuovo metodo, anticipandone esempi evidenti e vari;

5) Prodromi, o Anticipazioni della filosofia seconda: doveva contenere quanto noi abbiamo scoperto verificato o aggiunto;

6) Nuova filosofia o scienza attiva: si apriva il campo della filosofia preparata e diretta dal nuovo metodo.

Di questa opera Bacone considerò il Novum Organum come la seconda parte e il De dignitate et augmentis scientiarum (1623) come la prima parte. Quest’ultimo scritto è la traduzione e l’ampliamento di uno scritto del 1605. La terza parte dell’Instauratio è rappresentata Storia naturale e sperimentale per la fondazione della filosofia ovvero i fenomeni dell’universo (1622-3).

+ 1624 Rivede il testo della Nuova Atlantide (pubblicato postumo ne 1627), in cui vuole dare l’immagine di una città ideale, ricorrendo al pretesto, già adoperato da Tommaso Moro nell’Utopia, della descrizione di un’isola sconosciuta. Bacone la immagina come un paradiso della tecnica in cui siano portati a compimento le invenzioni e i ritrovati di tutto il mondo. L’isola della Nuova Atlantide è descritta come un enorme laboratorio sperimentale, nel quale gli abitanti cercano di conoscere tutte le forze nascoste della natura “per estendere i confini dell’impero umano ad ogni cosa possibile”. I numi tutelari dell’isola sono i grandi inventori di tutti i paesi; e le sacre reliquie sono gli esemplari di tutte le più rare e grandi invenzioni.

ASPETTO ANALITICO E SISTEMATICO

Il significato culturale delle arti meccaniche

L’attenzione per i procedimenti della tecnica e delle arti meccaniche, il riconoscimento della loro utilità per il progresso del sapere, l’insistenza sul loro valore “educativo” caratterizzano in larghissima parte la cultura dei secoli XVI e XVII. I procedimenti quotidiani degli artigiani, degli ingegneri, dei tecnici, dei navigatori, degli inventori vengono elevati a dignità di fatto culturale e uomini come Bacone, Harvey, Galileo riconoscono esplicitamente il loro “debito” verso gli artigiani.

Da questo nuovo contatto fra sapere scientifico e tecnico deriverà in primo luogo un notevolissimo arricchimento delle quantità di “verità empiriche” che fu decisivo per l’affermarsi di molte scienze.

In secondo luogo da questo riconoscimento della dignità del lavoro artigianale e tecnico e dalla presa di consapevolezza degli atteggiamenti e dei presupposti metodologici che ne erano alla base uscirà enormemente rafforzato il concetto che una teoria debba essere “applicata ai fatti” per poter essere qualificata giusta o verificata. Seguire più da vicino di quanto non si fosse mai fatto per il passato i procedimenti delle arti meccaniche volle dire per molti rendersi conto del distacco esistente, nella tradizione culturale, fra la struttura concettuale delle scienze e la loro capacità di servire concretamente ad usi umani, di render conto di “nuovi fatti”.

L’interesse di Bacone per le “arti meccaniche” nasce dal fatto che esse gli appaiono in grado di rivelare i processi effettivi della natura ed egli vede in esse quella capacità di produrre invenzioni ed opere di cui è privo il sapere tradizionale.

Infatti, la sua protesta contro la “sterilità” del spere tradizionale appare fondata, in Bacone, su un ripetuto appello al carattere di progressività delle arti meccaniche che, a differenza della filosofia e delle scienze intellettuali, non vengono adorate come perfettissime statue, ma appaiono continuamente vitali così da trasformarsi da informi in sempre più perfette in relazione ai mutati bisogni della specie umana.

Il fatto che gli ingegni di molti abbiano collaborato a un unico fine gli appare la causa principale di questi progressi. Nelle arti meccaniche non c’è posto per il potere “dittatoriale” del singolo, ma solo per un potere “senatoriale” che non esige affatto che i seguaci rinuncino alla loro piena libertà facendosi perpetuamente schiavi di una sola persona. Così il tempo lavora a favore delle arti e contribuisce invece alla distruzione degli edifici, inizialmente perfetti, costruiti dai filosofi.

Solo sull’analisi umile e accurata dei procedimenti delle varie tecniche può invece fondarsi per Bacone la nuova filosofia ed essa avrà il compito non solo di lavorare per il trasferimento del metodo di un’arte nel campo di altre arti e per far sì che il progredire delle tecniche non sia affidato al caso, ma anche per condurre al livello e al metodo della tecnica quelle “scienze liberali” che non hanno ancora raggiunto tale livello.

Il carattere di collaborazione e di progressività delle arti meccaniche fornisce dunque a Bacone un modello di cui egli si serve da un lato per intendere le caratteristiche della ricerca tecnico-scientifica e per differenziarla dalla magia e dall’altro lato per fornire una serie di valutazioni dell’intero campo del sapere umano in tutti i suoi settori.

La valutazione baconiana delle arti meccaniche e la concezione baconiana della scienza sono strettamente legate alla posizione assunta da Bacone nei confronti della tradizione magico-ermetica del pensiero rinascimentale, tenuto conto della continua mescolanza di tecnica e magia, di alchimia e filosofia naturale che è l’elemento tipico di molta filosofia inglese ed europea del Cinque e Seicento.

L’eredità della magia

In Bacone è rilevabile la presenza di una serie di temi e motivi che derivano dalla tradizione magico-alchimistica. A questa tradizione, così come essa venne configurandosi nell’età del Rinascimento, sono infatti legati due concetti centrali della filosofia di Bacone che stanno alla base della sua concezione della natura, dell’uomo e dei rapporti fra l’uomo e la natura. Questi concetti sono:

1) l’ideale della scienza come potenza e opera attiva volta a modificare la situazione naturale ed umana;

2) la definizione dell’uomo come “ministro e interprete della natura” che Bacone sostituiva alla veneranda definizione dell’uomo come “animale ragionevole”.

Ciò che accoglie quindi dalla tradizione magica è il concetto di un sapere come potenza e di una scienza che si fa ministra della natura per prolungarne l’opera e portarla a compimento, che giunge infine a farsi padrona della realtà e a piegarla, quasi per astuzia e attraverso una continua tortura, a servizio dell’uomo.

La condanna della magia e l’ideale della scienza

Un concetto centrale dell’opera baconiana di riforma del sapere è che nella scienza si possono raggiungere solidi ed effettivi risultai solo mediante una successione di ricercatori e un lavoro di collaborazione fra gli scienziati. I metodi e i procedimenti delle arti meccaniche, il loro carattere di intersoggettività forniscono il modello per la nuova cultura.

La scienza, così come Bacone la concepisce, deve abbandonare il terreno dell’incontrollata genialità individuale, del caso, dell’arbitrario, della sintesi affrettata e procedere sulla base di uno sperimentalismo fondato sulla consapevolezza della natura strumentale delle facoltà conoscitive.

In una cultura di questo tipo non c’è posto per una ragione capace di cogliere, in solitaria comunione, la verità razionale. La verità si configura come un ideale da raggiungere e la logica baconiana vuol essere appunto lo strumento di conquista di verità nuove invece che il mezzo di trasmissione di verità già acquisite.

Ma la conquista di verità nuove non può essere per Bacone opera del singolo, ma solo di una collettività di scienziati organizzata a questo scopo.

La lotta in favore di una collettività organizzata di scienziati finanziata dallo stato o da altri enti di pubblica utilità e il tentativo di creare una specie di internazionale della scienza furono perseguiti da Bacone, con estrema coerenza durante tutto il corso della sua vita. Egli, tuttavia, non riuscì a realizzare nessuno di questi suoi progetti, anche se nel 1603, alla salita al trono di Giacomo I, le sue speranze si erano riaccese. Nell’Advancement of Learning (1605) Bacone si volgeva nuovamente al potere sovrano. Egli tendeva non solo alla creazione di nuove istituzioni culturali, ma alla riforma delle principali organizzazioni di questo genere esistenti: le università. Anche se durante la sua vita questi progetti fallirono, questi restarono per i fondatori della Royal Society e poi per gli enciclopedisti l’atto di nascita di quell’umanesimo scientifico al quale si ispirerà la parte più progressiva del pensiero europeo.

Questa riforma del concetto, della pratica e degli ideali della scienza è senza dubbio il contributo più rilevante che il pensiero di Bacone abbia offerto alla cultura europea. Solo chi tenga presente il peso che ebbe ad esercitare l’atteggiamento assunto da Bacone potrà rendersi conto delle origini precise del “compito” e della “funzione” che gli enciclopedisti assegnarono all’uomo di cultura. Infatti, con la loro estrema considerazione delle arti e delle tecniche si ponevano, consapevolmente, come gli eredi e continuatori della riforma avviata da Bacone.

La valutazione baconiana delle arti meccaniche comportava, in ultima analisi, il rifiuto di quel concetto di scienza che, pur da mille parti incrinato, era rimasto operante per secoli: una scienza che nasce solo quando già sono state apprestate le cose necessarie alla vita umana e che si volge quindi a una disinteressata ricerca e contemplazione della verità. Questo concetto di scienza, che ha in Aristotele la sua espressione più coerente, appare fondato sulla struttura economica di una società schiavista dove l’abbondanza di “macchine viventi” rende inutile o superflua la costruzione e la utilizzazione di macchine tendenti a sostituire il lavoro umano e dove il disprezzo che si prova per chi esercita l’attività manuale si estende a quell’attività medesima che appare l’ultima nella gerarchia dei valori sociali ed esclusa dall’ambito di quelli culturali. Su queste basi gli artigiani non hanno diritto alla piena cittadinanza nelle Leggi di Platone mentre Aristotele nega che gli operai meccanici possano essere ammessi nel novero dei cittadini e li differenzia dagli schiavi solo in base al fatto che i primi attendono ai bisogni e alle necessità di più persone, mentre i secondi hanno cura di una sola persona. Gli ideali di vita dell’artigiano e del commerciante appaiono ad Aristotele “ignobili e contrari alla virtù” perché il loro genere di attività è privo di ogni nobiltà e nessuna delle loro occupazioni richiede una particolare eccellenza. L’opposizione tra schiavi e liberi tende così a identificarsi con l’opposizione tra tecnica e scienza e fra conoscenza “pratica” e conoscenza “razionale”. Questa identificazione, salvo brevi parentesi, è comune ad una larga parte del pensiero europeo durante l’età classica e il medioevo.

Le arti meccaniche appaiono invece a Bacone un nuovo, grande fatto culturale e, in base a questa valutazione del loro significato e della loro importanza per la vita associata e per la ricerca scientifica, egli può rivalutare gli ideali di vita che ad esse sono legati e rovesciare, radicalmente, alcune impostazioni che Aristotele aveva dato al problema dei rapporti fra la natura e l’arte.

Quando Bacone considera la historia artium come una sezione della storia naturale e polemizza nei confronti della contrapposizione arte-natura egli rompe, decisamente e consapevolmente, con una tradizione secolare. Per questa tradizione (che risale anch’essa ad Aristotele) l’arte è solo un tentativo di imitare la natura e di contraffarla nei suoi movimenti; quest’ultima ha al suo interno il principio di un movimento indefinito, mentre i prodotti dell’arte, mossi da un principio esteriore, sono soltanto dei tentativi, necessariamente destinati a fallire, di imitare la spontaneità del moto naturale.

Questa dottrina, chiarisce Bacone, è legata alla teoria aristotelica delle specie in base alla quale un prodotto della natura (albero) è qualificato come avente una forma primaria mentre a un prodotto artificiale (tavolo) compete solo una forma secondaria. Per Bacone la forma ed essenza, nelle cose naturali e in quelle artificiali, sono dello stesso identico tipo.

L’aver invece affermato l’eterogeneità fra natura ed arte ha condotto la filosofia a concepire l’arte come una mera aggiunta alla realtà naturale e ha rischiato di togliere agli uomini la speranza nella possibilità di una radicale trasformazione della natura e della vita umana.

La scienza ha dunque per Bacone carattere pubblico, democratico, collaborativo; è fatta di contributi individuali in vista di un successo generale che è patrimonio di tutti. L’affermazione di questo ideale di scienza e la realizzazione di questo tipo di cultura implicavano evidentemente, per Bacone, anche la rinuncia all’immagine dello scienziato come vivente incarnazione della infinita sapienza o come solitario custode di segreti successi dovuti alla genialità della sua mente individuale. Ciò che veniva a cadere era l’antica e veneranda immagine del sapiente come “illuminato” e il concetto, a questa immagine connesso, della collaborazione fra gli uomini di scienza come collaborazione fra “illuminati” che dà luogo a risultati che vanno mantenuti segreti.

Questo, della distinzione fra homo animalis e homo spiritualis, fra illuminato e comune mortale, è un concetto che attraversa tutta la cultura europea dai pitagorici agli gnostici, da Averroè a Marsilio Ficino. Questo motivo di un sapere segreto, di una sapienza di cui pochissimi son degni e che va quindi accuratamente occultata, è presente in tutta la sterminata letteratura magico-ermetica che, soprattutto dalla fine del secolo XII, invase il mondo occidentale e contro la quale Bacone polemizza aspramente.

Quando egli ripetutamente afferma che il metodo della scienza da lui progettato non lascia gran parte al genio singolo ed eguaglia in qualche modo le intelligenze, intende prendere posizione contro il carattere di eccezionalità dei metodi impiegati nelle ricerche magico-alchimistiche. Qui il risultato appare affidato, in ultima analisi, alla applicazione di un procedimento “segreto” dovuto alla capacità di un individuo.

In questi atteggiamenti di Bacone verso la magia e l’alchimia, appare evidente la sua distanza dai filosofi scienziati e maghi del Rinascimento, che rimanevano sostanzialmente legati ad una concezione esoterica del sapere che egli apertamente condannava.

La rottura con la tradizione e la confutazione delle filosofie

Un tema dominante nell’opera baconiana è il tentativo di sostituire a una cultura di tipo retorico-letterario una cultura di tipo tecnico-scientifico. Questa idea, di sostituire alla tradizionale “filosofia delle parole” una “filosofia delle opere”, accompagnò Bacone sin dalla giovinezza.

La consapevolezza che la mutata funzione attribuita al sapere comportava una decisa rottura con una millenaria tradizione appare infatti evidente fino dai primissimi scritti baconiani e il Temporis partus masculus (composto certamente prima del 1603) dà espressione precisa a questa volontà di rottura e di rifiuto.

Il presupposto fondamentale della critica baconiana alla filosofia tradizionale è che nella storia della razza umana si sia iniziata un’epoca nuova. Di fronte a questo nuovo destino che attende gli uomini e che gli uomini devono costruirsi è colpevole cercare di richiamare in vita la scienza dalle tenebre dell’antichità, invece che dalla luce della natura.

Ciò di cui Bacone accusa i filosofi dell’antichità e quelli del Medioevo e del Rinascimento non è una serie di errori di carattere teorico. Queste filosofie possono essere sullo stesso piano, sono degne delle stesse accuse e partecipi dello stesso destino perché sono espressione di un atteggiamento moralmente colpevole. Ciò che si tratta di sostituire a quelle filosofie non è dunque una nuova “filosofia” che pretenda di rimpiazzarle muovendosi sul loro stesso terreno, accettando i loro principi, le loro argomentazioni e le lor dimostrazioni, ma un atteggiamento nuovo dell’uomo di fronte alla natura che implica diversi principi, argomentazioni e dimostrazioni: richiede cioè un nuovo concetto di verità, una nuova moralità, una nuova logica.

La condanna morale di Bacone si appunta sul fatto che la tradizione filosofica ha sostituito al rispetto per l’opera del creatore che va umilmente ascoltata e interpretata, a)”le astuzie dell’ingegno e l’oscurità delle parole” o b)”una religione adulterata” o c)”le osservazioni popolari e le menzogne teoriche fondate su certi famigerati esperimenti”. Degenerazioni queste, che derivano tutte da quel peccato di superbia intellettuale che ha reso la filosofia sterile di opere trasformandola in uno strumento di prevalenza nelle dispute.

Bacone dirige la sua polemica contro tre obbiettivi precisi e le forme di filosofia di cui egli parla corrispondono storicamente:

a) alle esercitazioni logiche di tipo scolastico;

b) alle varie teologie razionali di ispirazione aristotelica e ai temi religiosi presenti nelle correnti platoniche o platonizzanti;

c) alle metafisiche della natura elaborate da alchimisti, maghi e filosofi del Rinascimento.

Riguardo a Platone, queste sono le critiche che Bacone muove alla sua filosofia:

1) Platone ha falsamente asserito che la verità abita naturalmente, fin dalla nascita nella mente dell’uomo e non proviene dall’esterno;

2) egli si è servito inoltre, per puntellare le sue spregevoli teorie, dell’appoggio della religione. In tal modo da un lato ha distolto gli uomini dalla realtà facendo volgere i loro occhi verso l’interno dell’anima e orientandoli verso la contemplazione, e dall’altro ha favorito quella mescolanza di scienza e teologia che si rivela esiziale sia al progresso della scienza sia alla vita religiosa.

Aristotele, dal canto suo,

1) ha cercato di rendere gli uomini “schiavi delle parole” entusiasmandoli per inutili sottigliezze e vani sofismi. La sua filosofia è da porre alla origine di quel verbalismo abbondantemente ripreso dalla scolastica.

2) Costruendo su pochi fatti affrettate teorie, Aristotele ha dato inizio a quel tipo di scienza che si illude di aver determinato le cause dei fenomeni quando in realtà ha costruito soltanto vane ragnatele teoriche.

Le ragioni per le quali Bacone ritiene che sia inevitabile una radicale rottura con tutta la tradizione filosofica sono riconducibli alle seguenti:

1) la filosofia ha distolto gli uomini dalle indagini sulla natura e si è trasformata da una riflessione sulle cose in una riflessione sulla interiorità; ha posto la contemplazione al posto delle opere, è diventata una scuola di rassegnazione invece che uno strumento di possibilità nuove per il genere umano;

2) questa incapacità di affrontare i problemi dell’esperienza e della realtà è legata a tre atteggiamenti che caratterizzano questa millenaria tradizione:

a) la sostituzione di soluzioni verbali a soluzioni reali,

b) la pretesa di costruire dottrine concepite come “sistemi” e quindi capaci di esaurire una volta per sempre nel loro ambito tutti i problemi e tutta la realtà,

c) la confusione continua fra cose divine e cose naturali, fra religione e scienza.

Negli anni fra il 1603 e il 1608, con gli scritti Cogitata et visa del 1607 e Redargutio philosophiarum del 1608, Bacone inizia una discussione di carattere storico critico che investe le premesse politico-sociali e i risultati delle filosofie tradizionali. Questo lavoro di approfondimento viene svolto in una duplice direzione: da un lato egli cerca, attraverso un’analisi di carattere storico, di determinare le “cause” del fallimento della filosofia tradizionale; dall’altro cerca di indicare e di elaborare dei criteri (i “segni”) che possano dare indicazioni sulla validità o non-validità delle varie posizioni filosofiche.

Critica della logica tradizionale e nuova logica

I progetti relativi ad una riforma della logica contraddistinguono tutto lo sviluppo del pensiero baconiano fino alla pubblicazione del Novum Organum (1620) e del De augmentis (1623). Tali progetti sono legati da un lato al ripudio della tradizione filosofica e dall’altro alla constatazione della necessità di una radicale riforma del sapere. In tutte le opere baconiane le formulazioni date al progetto di una riforma del metodo appaiono organicamente connesse ad una ricerca di carattere “storico” e ad una indagine tendente a diagnosticare i limiti e le insufficienze del presente status della cultura.

La riforma dell’induzione scientifica è solo un aspetto e una “sezione” della rifoma della logica e questa, a sua volta, è solo un aspetto e una “sezione” della restaurazione del sapere che Bacone ha in animo di realizzare.

La logica, secondo Bacone comprende quattro parti denominate arti intellettuali47. Queste si distinguono tra loro in base ai fini che la logica si propone di realizzare: l’uomo a) trova ciò che ha cercato; b) giudica ciò che ha trovato; c) ritiene ciò che ha giudicato; d) trasmette ciò che ha ritenuto. Siamo quindi in presenza di quattro arti: della ricerca o invenzione, dell’esame o giudizio, del ritenere o memoria, del parlare o della trasmissione.

Bacone riscontra le maggiori deficienze della logica tradizionale soprattutto nel primo settore, quello della ricerca o invenzione. La sua riforma del metodo induttivo vuol appunto ovviare a questa situazione fornendo ai procedimenti un nuovo organo o strumento capace di consentire all’uomo di impadronirsi della realtà e di piegarla ai suoi fini. Ma la stessa arte dell’invenzione che si riferisce all’invenzione delle scienze comprende due parti: la cosiddetta experientia literata e la interpretatio naturae.

Quest’ultima è la “logica nuova” che Bacone tratta nel secondo libro del Novum Organum. Qui la formulazione della dottrina dell’induzione scientifica si presenta come inseparabile da quella dottrina dell’emendazione dell’intelletto che ha il compito di liberare la mente umana dagli idola. Infatti, secondo Bacone, l’intelletto umano può giungere ad impadronirsi dello schema induttivo, di cui far uso nell’invenzione scientifica, solo liberandosi contemporaneamente dai limiti, storici e naturali, che lo caratterizzano e lo condizionano.

Il Temporis partus masculus, che comprende di fatto solo una critica delle filosofie tradizionali, è in realtà il frammento di un più vasto progetto concernente una riforma della “logica”. A tale scopo è necessario per Bacone non solo liberare le menti dai pregiudizi in esse scolpiti, ma trovare il mezzo di “persuaderle” e di penetrare in esse. Proprio a questo proposito egli introduceva la nozione di idola.

In Bacone due ordini di problemi si intrecciano:

1) quello di una logica capace di attingere la realtà delle cose e di condurre al contatto, al “connubio” con le cose;

2) quello di una logica capace di portare la luce nelle menti, di penetrare in esse e di liberarle dai pregiudizi che le assediano e le ostruiscono.

Il primo problema coincide con quello di un nuovo organo della scienza (interpretatio naturae) che porrà in grado di conoscere le forme e di effettuare una serie infinita di operazioni naturali, e che il secondo problema coincide con quello di un emendamento dell’intelletto umano (expurgatio intellectus) che richiede speciali tecniche di esposizione, di persuasione e di trasmissione.

Ma da dove deriva per Bacone l’insufficienza della logica tradizionale? Dipende dal fatto che essa ha rinunciato ad essere di giovamento alle arti meccaniche e liberali, alle scienze, alla scoperta degli assiomi. Invece la nuova logica, a differenza di quella tradizionale, ha per scopo l’invenzione delle arti invece dell’invenzione degli argomenti; non vuole insegnare agli uomini a riportare la vittoria nelle discussioni, ma vuole metterli in grado di dominare la realtà naturale.

La dottrina degli “idola”

Nel Novum Organum e nel De augmentis gli idola sono ripartiti in quattro gruppi:

1) gli idola tribus nascenti dalla natura generale della mente umana;

2) gli idola specus caratteristici dell’individuo singolo;

3) gli idola fori derivanti dai rapporti sociali e dal linguaggio;

4) gli idola theatri che van fatti risalire all’influsso delle opinioni filosofiche e agli errati procedimenti dimostrativi.

Bacone traccia una chiara distinzione tra idoli acquisiti e idoli innati: i primi penetrano nella mente “dalle sètte dei filosofi o dalle cattive forme delle dimostrazioni”. Questo tipo di idoli è eliminabile con difficoltà; gli altri non sono in alcun modo eliminabili: resta soltanto la possibilità di indicarli, di descriverli, di prendere consapevolezza di queste forze insidiatrici della mente umana.

Alla radice della teoria baconiana degli idola sta la convinzione che la situazione della mente umana di fronte alle cose non sia di fatto quella che dovrebbe essere. Questa convinzione è strettamente legata agli atteggiamenti assunti da Bacone in sede religiosa e allo stretto legame sussistente fra la sua concezione del cristianesimo e la sua riforma del sapere.

L’opera di liberazione delle menti coincide in tal modo, per Bacone con una riforma dell’atteggiamento dell’uomo di fronte al mondo e si inserisce non soltanto in un tentativo di riforma della conoscenza, ma in quello, assai più vasto, di una radicale modificazione della moralità e dello spirito religioso. La lotta contro le false immagini presenti nella natura umana appare un mezzo per realizzare la divina promessa e per condurre a compimento l’opera della redenzione. Bisogna che l’uomo sia nuovamente in grado di “ricevere le immagini delle cose”.

Da questo punto di vista, è allora possibile comprendere come le più importanti tematiche dell’opera baconiana, come il fine di utilità pratica attribuito alla scienza, la valutazione delle opere e delle arti sia strettamente connessa ad una ispirazione religiosa e nasca sul terreno di un anglicanesimo imbevuto di spirito calvinistico.

Il primo tipo di idola, quelli della tribù, è fondato sulla costituzione stessa della natura umana. Questi errori derivano dalla debolezza dei sensi, dalla limitatezza dell’intelletto, dall’influsso degli affetti, dal modo di ricevere le impressioni dagli oggetti, dall’atteggiamento di fronte alle concezioni già accettate.

Gli idoli della spelonca hanno origine dalla natura particolare del singolo individuo, dalla sua costituzione, dall’educazione, dall’abitudine e da circostanze accidentali. Qui Bacone si rifà esplicitamente al mito della caverna, considerando il nostro corpo come un involucro attraverso cui viene rifratta la luce naturale delle cose. Le quattro fonti di questi idola sono per Bacone: l’attaccamento ad un particolare tipo di ricerca; la tendenza eccessiva all’analisi o alla sintesi; la predilezione per un particolare periodo della storia umana; la considerazione esclusiva degli elementi semplici o dell’insieme della realtà naturale.

La descrizione degli idola fori è strettamente connessa in Bacone sulla convinzione che il linguaggio, come del resto gli altri prodotti dello spirito umano, costituisca o possa costituire un ostacolo, del quale tuttavia in quanto creature umane non si può fare a meno, alla autentica comprensione della realtà, sia, in altri termini, qualcosa che si frappone fra l’uomo e i fatti reali o le forze della natura. Per “avvicinarsi alle cose” è necessario rifiutare i nomi che non corrispondono a cose reali e imparare a costruire parole che rispondono alla realtà effettiva delle cose. Gli idoli che si impongono all’intelletto sono di due generi: o sono nomi di cose che non esistono, o sono nomi di cose che esistono, ma confusi, mal definiti e astratti dalle cose in modo affrettato e parziale.

L’interpretazione della natura

Nella determinazione di che cosa sia verità della conoscenza gli uomini si sono finora fondati su prove insoddisfacenti. La scoperta di nuove opere e di attive direzioni prima non conosciute è l’unica prova che può essere accettata. Non si tratta di andar cercando la produzione di cose concrete che sono infinite di numero e transitorie, ma di muovere alla ricerca di nature astratte che sono poche e permanenti, simili alle lettere dell’alfabeto o ai colori della tavolozza del pittore dalla cui mescolanza si fa derivare l’infinita varietà dei volti e delle figure. Il fine operativo al quale deve tendere il sapere scientifico non dev’essere però confuso con quel tipo di operatività che è “legato alle congetture dell’arte e alla lunghezza dell’esperienza”. L’arte e l’esperienza immediata conducono soltanto alla conoscenza delle cause delle cose particolari; compito del metodo scientifico è invece quello di condurre a contatto con le nature astratte dalla cui combinazione risulta la realtà naturale.

Contrapponendo il concetto di natura astratta a quello di cosa concreta, ed escludendo che la ricerca scientifica debba occuparsi di quest’ultima, Bacone mette in rilievo da un lato la riducibilità dei fenomeni naturali alla combinazione di un numero finito di elementi semplici e dall’altro la radicale diversità fra l’esperienza comune e quella scientifica. Le nature astratte (o nature semplici) sono le qualità semplici e irriducibili che possono essere riscontrate presenti in un qualsiasi contesto sensibile e dalla cui mescolanza e composizione tale contesto è costituito. Il problema che si tratta di risolvere è che “ogni particolare che produce un qualsiasi effetto è una cosa composta… di diverse singole nature… e non appare a quale di queste singole nature l’effetto debba essere riferito”. Il metodo richiede quindi un’analisi e un’opera di sezionamento dei particolari, in modo da mettere in luce il rapporto di corrispondenza esistente fra una determinata natura e l’effetto che si intende ottenere: alla presenza o all’assenza di una determinata natura corrisponderà necessariamente la presenza o l’assenza dell’effetto che si vuole realizzare.

Per dare luogo ad effetti reali bisognerà seguire una direzione. Quest’ultima dovrà, secondo Bacone obbedire a due criteri fondamentali: quello della certezza e della libertà.

La direzione per essere certa deve essere infallibile, cioè una direzione certa dovrà indirizzare a “qualcosa” che, se presente, l’effetto cercato debba necessariamente seguirne. Il “qualcosa” di cui parla Bacone è la natura astratta alla cui scoperta e determinazione deve tendere la conoscenza.

Si ha invece libertà quando la direzione non è limitata ad alcuni mezzi già definiti, ma comprende tutti i possibili mezzi e le possibili vie. La direzione, per essere libera deve essere fondata sulla reciproca implicanza e convertibilità dell’effetto e della direzione. Ogni volta che l’effetto è presente la direzione deve essere stata soddisfatta; ogni volta che è presente un certo tipo di direzione, seguirà da essa un determinato effetto. In altri termini: ogni caso nel quale una determinata natura è prodotta può essere considerato come una direzione in vista della sua riproduzione artificiale.

Attraverso la nozione di direzione libera Bacone giunge a gettare le basi di un procedimento di esclusione che ha per fine la scoperta della forma.

Giova chiarire i termini di questa scoperta con un esempio:

Fra “la bianchezza quale appare ai sensi” e la “bianchezza inerente alle cose” è presente una netta distinzione. La prima può essere determinata da un esame di tipo “fisico” tendente ad accertare la presenza di certe condizioni di fatto e la loro traducibilità in operazioni che le riproducano. La seconda richiede un tipo di esame diverso (“metafisico”) che tenda, mediante una serie di esclusioni e “liberazioni” successive a stabilire che cosa sia sempre presente ogni volta che è presente il bianco, indipendentemente dalla materia, dal mezzo nel quale appare il bianco o dalla particolare azione o causa che lo fa apparire. Il primo è per Bacone uno studio “fisico” delle cause efficienti delle cose concrete, mente il secondo è un esame “metafisico” inteso come conoscenza delle forme delle nature semplici.

Si può così facilmente osservare come in Bacone convergano ricerca della direzione libera e ricerca della forma o causa formale.

Risulta evidente inoltre che “la bianchezza inerente alle cose” dipende da una certa struttura delle parti dei corpi e da loro determinate condizioni di tipo geometrico-meccanico.

Le proprietà dei corpi, così come appaiono ai sensi, non hanno carattere oggettivo; superando il piano della sensibilità e facendo uso di opportuni strumenti e tecniche logiche è possibile individuare quei processi meccanici di elementi forniti di proprietà geometriche che costituiscono la struttura della realtà oggettiva e materiale. Queste due tesi costituiscono il “presupposto” o l'”ipotesi di tipo meccanicistico” destinata a sorreggere l’intera struttura della nuova induzione baconiana.

Il fine che si propone il nuovo metodo della scienza teorizzato da Bacone è la scoperta delle forme o, con più precisione, la determinazione delle forme delle nature semplici. Queste ultime sono qualità irriducibili presenti in differenti contesti sensibili.

Causa materiale e causa efficiente di una determinata natura simplex sono: l’orientamento delle particelle materiali (schematismus latens) e la serie di movimenti infinitesimali che costituiscono i movimenti sensibili (processus latens). Il compito di determinare queste cause in relazione ad una data materia (nella quale si può osservare quella determinata natura) spetta alla fisica. Ma chi conosce le cause materiali ed efficiente può giungere ad effettuare nuove invenzioni solo in una materia particolare, mentre chi conosce le forme può giungere ad abbracciare l’unità della natura in ogni materia. Alla metafisica, che per Bacone è una scienza naturale generalizzata fondata sulla storia naturale, interessa invece scoprire le forme: cioè determinare, prescindendo dalle materie particolari, i rapporti fra gli schematismi latentes e i processus latentes che costituiscono una certa natura.

La forma si presenta come una relazione di naturae simplices; essa è dal punto di vista dell’uomo una definizione che consente di scoprire tutti gli schematismi e i processi che portano alla realizzazione della natura semplice in questione, dal punto di vista della natura è la relazione che lega quei processi e quegli schematismi. La forma è causa come essenza; e questa non è trascendente alle cose, ma immanente come l’aristotelica; ma a differenza di essa è pensata in senso non logico-concettuale, bensì geometrico-meccanico, e così mostra la sua derivazione dal pensiero democriteo.

Senza dubbio la ricerca sulla natura si presenta a Bacone come una ricerca di essenze e di qualità assolute e non come un’indagine tendente a determinare rapporti quantitativi in vista della risoluzione del “fenomeno” in un sistema di relazioni.

Le “tavole” baconiane

A queste tavole spetta, secondo Bacone, un compito preciso: di fronte alla infinita varietà dei contenuti della storia naturale l’intelletto umano si trova come smarrito: le tabulae devono organizzare e ordinare tali contenuti in modo da consentire all’intelletto di agire su di essi. Bacone parla, usando un termine giuridico, di “citazione” di fronte all’intelletto, che viene effettuata mediante le tavole.

Nella ricerca della forma del calore, esposta da Bacone nel secondo libro del Novum Organum, la tabula pesentiae raccoglie tutti i fatti conosciuti nei quali si trova presente quella natura di cui si cerca la forma. La forma, per Bacone, è infallibilmente presente o assente, quando la natura è presente o assente.

La seconda tavola, la tabula absentiae, deve riunire i casi nei quali la natura data è assente. Tali casi sarebbero evidentemente infiniti; la tavola ha il compito, limitato e quindi possibile, di considerare le “assenze della natura” solo nelle sostanze che hanno maggiore somiglianza con quelle nelle quali la natura è presente. Poiché la forma è la cosa nella sua essenza, vera forma di una natura può essere considerata solo quella che aumenta o diminuisce in correlazione con questa. La terza tavola, la tabula graduum raccoglie i fatti in cui la natura studiata è più o meno presente.

L’intelletto si trova ora di fronte ad una collezione ordinata di fatti e su questo fondamento ha inizio quel procedimento che Bacone chiama nuova induzione. L’induzione vera, a differenza di quella tradizionale, per enumerazione, fa uso di un procedimento di esclusione e solo dopo aver completato il processo di esclusioni si potrà giungere ad una affermazione.

Il vero e perfetto principio operativo nella scoperta delle forme, è per Bacone il seguente: che la direzione sia certa, libera e diretta all’azione. Il fatto che la presenza della forma determini necessariamente quella della natura è la garanzia della certezza della direzione, la libertà di quest’ultima consiste in quella liberazione dall’inessenziale che si raggiunge attraverso successive esclusioni.

Il metodo per Bacone è un mezzo di ordinamento e di classificazione della realtà naturale. Non per caso esso si presenta come un filo capace di guidare l’uomo entro quella caotica selva e quel complicato labirinto che è la natura. zi limiti maggior del metodo baconiano derivano senza dubbio dal fatto che Bacone ebbe scarsa o nessuna consapevolezza della funzione esercitata dalla matematica nell’ambito del pensiero scientifico. Ma questa incomprensione era profondamente connessa a quella sua immagine di logica come mezzo per ordinare la selva naturale, immagine che Galileo non aveva certo condiviso, con la sua idea di un universo “scritto in lingua matematica”.

Le immagini galileiane tipicamente platoniche di un mondo a strutture matematiche e razionali, di un Dio geometra che compone il mondo secondo numero, peso e misura, saranno senza dubbio più feconde, negli sviluppi della scienza moderna, dell’immagine baconiana della natura come selva e labirinto. In Galileo e nello stesso Newton, pur così profondamente legato a certe posizioni baconiane, si troverà energicamente riaffermato quel principio che Bacone relegò ai margini della sua teoria della realtà: quello della semplicità della economia e della inesorabilità della natura.

Proprio nell’ambito di quella impostazione platonica e di quell’affermazione della “semplicità” della natura (che ritonerà anche nella prima delle quattro regole newtoniane) si giunse ad un tipo di interrogazione della realtà naturale assai diverso e più fecondo di quello baconiano che funzionava sulla base di modelli retorici. L’interrogazione di Galileo tende non alla determinazione delle forme essenziali o delle proprietà comuni a più fenomeni, ma alla individuazione degli “elementi della struttura di un fenomeno che possano concepirsi come assolutamente validi e tali da costituire la legge di tutti i fenomeni analoghi”. La funzione delle ipotesi o dei modelli teorici veniva qui esplicitamente teorizzata e riconosciuta: “fatto” non è per la scienza che ciò che viene raggiunto in base a precisi criteri di carattere teorico. Si apriva in tal modo una possibilità che veniva radicalmente disconosciuta all’interno del metodo baconiano: quella di una interpretazione dei dati sulla base di tesi prestabilite, che pone cioè quelle tesi anche alla base di quei risultati dell’esperienza che si “discostano” da esse e interpreta quei risultati come “circostanze disturbanti”.

Nell’ambito del sapere scientifico, secondo Bacone, si tratta solo e sempre di giustificare e garantire la validità dei principi e il lavoro scientifico, dal suo punto di vista, sembra esaurirsi nella formulazione di una serie di procedimenti atti a indirizzare alla scoperta di tali principi. Quando egli rifiuta il metodo deduttivo affermando che le nozioni (di cui constano le proposizioni) sono solo “etichette delle cose” e dichiara che si tratta di ricavare in modo non grossolano tali nozioni dalle cose particolari, si lascia sfuggire la funzione dell’ipotesi nell’ambito del sapere scientifico e non a caso, nell’ipotesi, vede solo una illegittima e arbitraria anticipazione della natura. In questa opposizione ad ogni procedimento di tipo deduttivo (e così pure nel rifiuto dell’ipotesi) si è visto giustamente uno dei limiti maggiori del metodo baconiano della scienza.

E’da tener presente tuttavia, il significato storicamente determinato della protesta baconiana contro la deduzione e il sillogismo e il valore che tale protesta venne ad assumere nell’orizzonte della cultura moderna. Le affermazioni di Bacone in tal senso mostrano appunto come egli mirasse a colpire, in nome di una discussione capace di investire l’intero ambito della conoscenza umana, proprio la connessione che si era di fatto andata istituendo fra metodo deduttivo e tendenza ad accettare senza discussione principi o dottrine fornite dalla tradizione o dalla autorità.

Newton, in opposizione a Galileo e Cartesio, vedrà nella matematica non la “regina delle scienze”, ma un metodo e uno strumento di chiarificazione dell’esperienza, rifiuterà la visione platonica di una natura in sé matematica e parlerà di uno sconosciuto e infinito oceano che è compito della scienza esplorare: egli farà rivivere, anche su un diverso piano, alcune tipiche esigenze “baconiane”.

In conclusione si può dire evidente che Bacone non può essere considerato in alcun modo, a causa della cosiddetta scoperta del metodo induttivo, come il fondatore della scienza moderna. Infatti, la fecondità della scienza moderna è stata assicurata non da uno sperimentalismo empirico di tipo baconiano, ma dal metodo galileiano fondato su un’analisi quantitativa e meccanica che non mira a ordinare e purificare il mondo dei dati in vista di una scoperta delle forme, ma tende alla scoperta della legge mediante la sola considerazione dell’ordine misurabile delle cose naturali. Inoltre, le definizioni e gli assiomi, di cui farà uso la ricerca scientifica, non nasceranno, come voleva Bacone, da una induzione che “ascenda gradatamente verso sempre più estese generalizzazioni”, ma si presenteranno come modelli necessari alla stessa determinazione del campo di ricerca.

http://www.nilalienum.com/Gramsci/BaconeF.html

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Chronique des années de braise Mohamed Lakhdar 1975, film

Chronique des années de braise

Thèmes : Guerre d’indépendance algérienne , Société coloniale

Réalisateur(s) : Mohamed Lakhdar 

Pays de production : Algérie

Type : Long métrage

Genre : Fiction historique

Réalisation Mohamed Lakhdar Hamina
Algérie/1975/Couleur/175’
Fiction

Scénario Mohammed Lakhdar-Hamina

Image Marcello Gatti, Andreas Winding

Musique Philippe Arthuys

Production Screen Production

Avec Jorgo Voyagis, Mohammed Lakhdar-Hamina, Sid Ali Kouiret, Larbi Zekkal, Nadia Talbi, Leila Shenne, Hassan El Hassani

Synopsis Ahmed, paysan pauvre, quitte son village pour la ville à la recherche d’une vie plus facile. Il rencontre Milhoud, un fou visionnaire, et surtout la misère et l’injustice.
Chronique événementielle de l’histoire algérienne, de la conquête française à 1954, date du déclenchement de la guerre de Libération nationale. A travers la vie d’une famille et de quelques individus “typés” et symboliques, le peuple algérien tout entier résiste à l’expropriation de ses terres et à la déculturation.
Chronique des Années de Braise est composé de 6 volets : les Années de Cendre, les Années de Braise, les Années de Feu, l’Année de la Charrette, l’Année de la Charge, le 11 Novembre 1954.
Le Phœnix des peuples est plus long à renaître de ses cendres qu’à périr. Cette chronique est d’une certaine manière, celle de cette renaissance.
Ce film dont l’histoire en commence 1939 et se termine le 11 novembre 1954, n’a pas la prétention de raconter toute l’histoire de l’Algérie, mais à travers des repères historiques, il essaye d’expliquer que le 1er novembre 1954 (date de déclenchement de la Révolution Algérienne) n’est pas un accident de l’histoire, mais l’aboutissement d’un long trajet qu’entreprit le peuple algérien contre le fait accompli au lendemain du 5 juillet 1830. _ Palme d’or au Festival de Cannes 1975

Bien avant l’ouverture du festival de Cannes (1975), les polémiques s’engagent déjà autour de ce film algérien « Chronique des années de braise » du réalisateur Mohamed Lakhdar Hamina.
En effet, au sein du comité, les débats se multiplient quant à la participation de ce film dans la sélection officielle. Certains membres voient dans cette œuvre un esprit de provocation trop prononcé. C’est le cas du maire de Cannes, Bernard Cornut-Gentille, qui craint des troubles perpétrés par la population rapatriée d’Algérie. En effet, selon lui, cette communauté encore traumatisée et irritée de sa spoliation, est de nature à créer des incidents.
Malgré tout, il est décidé d’incorporer le film à la sélection officielle. Comme prévu, dès l’ouverture du festival, celui-ci est marqué par des menaces d’attentats. Toutes les projections de films en compétition officielle sont retardées à la suite des alertes à la bombe. D’ailleurs, en vue d’intimider le jury, deux attentats ont lieu aux abords du palais.
En fait, l’intérêt principal de la polémique faite autour de ce film est de montrer, à l’échelle de Cannes, à quel point la blessure algérienne est encore sensible. Cependant, malgré les menaces, le film obtient la Palme d’or du festival 1975. Suite à l’annonce du palmarès, sont diffusés des tracts et des messages racistes écrits sur la murs du palais. Parmi ceux-ci, on note le détournement du titre du film qui, de « Chroniques des années de braise », devient « Chronique des années de mise en valeur d’une terre qui était pourrie ». De même, les membres de la délégation algérienne subissent des menaces de mort. Les mécontentements fusent de tous les côtés, même du gouvernement algérien déçu, qui juge que le peuple d’Algérie n’a pas été assez mis en avant.

Biographie

Mohammed Lakhdar-Hamina fait ses études en France, puis gagne Tunis lors de la guerre d’Algérie, où il travaille pour le gouvernement provisoire algérien (GPRA). Il fait un stage aux actualités tunisiennes avant de partir étudier à l’école de cinéma de Prague (FAMU), mais abandonne ses études pour travailler aux studios Barrandov où il se spécialise dans la prise de vue.
De retour en Algérie en 1962, il crée l’OAA, qu’il dirige dès 1963 jusqu’à sa dissolution en 1974. Plus tard il rentre à l’ONCIC, qu’il dirige de 1981 à 1984. Personnalité dominante, il remporte la Palme d’or à Cannes pour son œuvre la plus célèbre : Chronique des années de braise.
Il réalise aussi Le Vent des Aurès, primé à Cannes en 1967.

Filmographie

1966 : Le Vent des Aurès (Rih al awras)
1968 : Hassan Terro (Hasan Tiru)
1973 : Décembre(Dicember)
1975 : Chronique des années de braise (Waqai sanawat al-djamr)
1982 : Vent de sables
1986 : La Dernière image (Al-sûr al-akhira)

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Sessant’anni fa nasceva il Fronte di liberazione dell’Algeria – Boumedienne, Ben Bella , crisi suez, Fanon, Aussaresses ecc…

Scritto da Francesco Giliani

Agosto 2003: il Pentagono Usa ha proiettato ai suoi ufficiali “La Battaglia di Algeri” di Pontecorvo. Il film mostra un episodio della guerra di liberazione nazionale algerina. In Algeria una guerriglia prevalentemente contadina sconfisse l’imperialismo francese. Il fattore puramente militare non fu decisivo nel determinare l’esito della guerra. I vertici politico-militari nordamericani sembrano preoccupati che l’attuale impantanamento in Iraq si trasformi in una sconfitta cocente come quella subita dalla Francia in Algeria. I loro timori sono senz’altro fondati.

Le lotte di liberazione nazionale in Africa, Asia e Medio Oriente sono state un passo in avanti per l’umanità. Ogni colpo inferto all’imperialismo ed alle catene dell’oppressione nazionale deve essere visto con favore da ogni militante comunista. Infatti, anche quando non arriva all’abbattimento del capitalismo, rappresenta un passo in avanti nella lotta per il socialismo indebolendo l’imperialismo. Quali forze sociali e politiche guidarono la lotta del popolo algerino contro l’oppressione imperialista? Come fu possibile sconfiggere uno degli eserciti più moderni del mondo? Quali programmi e quali metodi di lotta vennero impiegati? Quali effetti ebbe in Francia la lotta di liberazione nazionale del popolo algerino? Quale tipo di regime si instaurò in Algeria con l’indipendenza ottenuta nel 1962? Era un regime socialista oppure no?

Questi sono alcuni dei temi che tenteremo di approfondire in questo articolo.

Il colonialismo francese

Dal XVI secolo al 1830 i turchi governarono il territorio corrispondente all’attuale Algeria attraverso una rete di sultani e caid scelti tra l’aristocrazia guerriera e rimpiazzati ogni tre anni. La Cabilia era governata dai marabù, capi religiosi alleati della casta militare turca. Nessun processo di centralizzazione statale si sviluppò. Le principali attività economiche di Algeri erano la pirateria ed il commercio di schiavi. Si dovette attendere l’inizio del XIX secolo per assistere alla nascita di una borghesia commerciale ed artigiana. All’infuori di alcune città costiere (Algeri, Annaba), fino all’occupazione francese dominava la proprietà comunitaria e tribale della terra, forma di possesso collettiva che costituiva una vestigia di comunismo primitivo. I pascoli erano possesso indiviso delle tribù, nomadi o sedentarie. Il diritto borghese moderno non esisteva: tutto si regolava in base a pratiche consuetudinarie. La differenziazione di classe era embrionale. Le aristocrazie guerriere e religiose derivavano i loro privilegi soprattutto dalle funzioni politiche svolte e la loro preminenza sul terreno dei rapporti di proprietà era sottoposta a numerosi vincoli.

La colonizzazione francese, iniziata nel 1830, catapultò l’Algeria dallo stadio superiore della barbarie direttamente al capitalismo, saltando quasi a piè pari il feudalesimo. La formazione di uno Stato centralizzato moderno fu imposta dall’esterno per opera dei colonizzatori. Marx osservò che paesi come l’Algeria sarebbero potuti passare direttamente dal comunismo primitivo a quello moderno qualora il proletariato dei paesi capitalisti avanzati avesse preso il potere nel corso del XIX secolo. Con buona pace di chi distorce il marxismo presentandolo come una filosofia della storia gradualista!

La distruzione della proprietà comunitaria della terra e la formazione di una proprietà fondiaria individuale fu realizzata brutalmente. Le colonie militari confiscarono le terre arbitrariamente, specialmente quelle delle tribù ribelli; lo Stato francese assunse la gestione di terre che il Demanio turco non aveva toccato. Nel 1871 in Cabilia esplose l’ultima grande rivolta tribale: il suo soffocamento fornì il pretesto per una confisca di 500mila ettari di terra. A partire dal 1863 il governo francese aveva promulgato una serie di leggi per la confisca delle terre e la definizione formale di confini tra le proprietà. Tra il 1871 ed il 1898 più di un milione di ettari furono messi a coltura dai coloni francesi. Nel 1880 Marx rilevò che, malgrado i passi compiuti sulla via del capitalismo, soprattutto con la legge sulla parcellizzazione del 1873, la proprietà tribale basata sulla consanguineità persisteva in numerose zone del paese.

La borghesia francese ha sempre considerato l’Algeria come una riserva di prodotti agricoli e minerari da esportare allo stato grezzo. L’industria pesante e dei beni di produzione restò debole: gli investimenti erano resi insicuri da una infrastruttura economica embrionale, dall’assenza di energia a basso costo e da un sistema di trasporti arcaico (esisteva, ad esempio, una sola linea ferroviaria). La manodopera a basso costo non ovviava, da sola, a questi svantaggi. Ciononostante, l’industria e l’urbanizzazione conobbero un notevole incremento. La percentuale di Pil (prodotto interno lordo) concentrata nell’industria passò dal 10% del 1880 al 26% del 1955. Nella prima metà del XX secolo Algeri moltiplicò per sette volte la sua popolazione ed Orano per sei.

La nascita del movimento nazionalista (1926-1953)

Il movimento nazionalista algerino nacque a Parigi. La necessità di una lotta contro l’oppressione nazionale venne compresa innanzi tutto dalla classe operaia algerina immigrata in Francia. Nel 1926 venne così fondata, sotto l’egida del Pcf (Partito comunista francese), la Stella Nord-Africana (Ena, Etoile Nord-Africaine). Il primo segretario fu Hadj Abd-el-Kader, membro del Comitato Direttivo del Pcf, mentre il presidente era Messali Hadj, membro anch’egli del Pcf. Nel programma dell’Ena l’indipendenza nazionale era collegata alla liberazione sociale e si rivendicava la nazionalizzazione di banche, miniere, porti, ferrovie e servizi pubblici. L’Ena passò da 3mila iscritti nel 1927 a 40mila nel 1931.

Nel contempo, anche la debole borghesia algerina si dotò di uno strumento politico, fondando nel 1927 la Federazione dei Deputati. Era un raggruppamento di notabili eletti negli organismi locali coloniali, dove agli europei era riservata automaticamente la maggioranza. Sostennero questa formazione politica padroni dell’industria leggera, proprietari terrieri, ricchi commercianti e professionisti che offrirono i propri servigi all’imperialismo francese sperando di essere ricambiati col consolidamento dei propri privilegi. I diversi settori della classe dominante, lungi dal voler guidare una lotta antimperialista, si adattavano al sistema coloniale e, consci della loro debolezza, contavano sulle baionette francesi per mantenere asservita la nascente classe operaia e le masse diseredate delle campagne. La coscienza di classe aveva la precedenza sulla coscienza nazionale. La borghesia compradora algerina aveva infatti più paura delle masse che dei francesi. Gli intellettuali volevano l’accesso ai posti dell’amministrazione coloniale ed alle libere professioni. Erano rappresentati da un dirigente della Federazione dei Deputati come Ferhat Abbas, farmacista.

Nel 1936 l’ondata di scioperi ed occupazioni che scosse la Francia ebbe un suo prolungamento anche in Algeria e Marocco. I minatori ed i proletari agricoli arabi scioperarono scontrandosi con la polizia ad Algeri, Orano, nelle miniere di Ouenza e nella regione di Costantina. La vittoria elettorale del Fronte Popolare (Pcf-Sfio-radicali) creò enormi speranze. Il Pcf aumentò di sette volte i suoi voti in Algeria. Tuttavia il Fronte popolare deluse ben presto le speranze con la sua politica reazionaria sia in Francia, sia sul piano internazionale. L’indipendenza non venne concessa. L’unica proposta fu il progetto di legge Blum-Violette, che concedeva la nazionalità francese a 21mila algerini in possesso di laurea. Era una politica di assimilazione della borghesia algerina. Tuttavia, la pressione dei coloni, che consideravano come tradimento qualsiasi concessione alla borghesia araba, fece desistere il governo Blum.

Le forze del nazionalismo algerino si erano federate durante il I° congresso musulmano del giugno ’36. Quest’alleanza comprendeva l’Ena, la Federazione dei Delegati e la borghese Associazione degli Ulema  (dottori in religione). L’alleanza si frantumò perché Messali Hadj, segretario dell’Ena, intercettò la radicalizzazione tra le masse arabe difendendo la parola d’ordine dell’indipendenza. La popolarità dell’Ena crebbe enormemente. Il Fronte Popolare, tenace difensore del capitalismo francese, passò alla repressione aperta. Il 27 gennaio 1937 l’Ena fu messo fuorilegge, Messali ed altri militanti nazionalisti incarcerati. Il Pca (Partito comunista algerino), solidale con le scelte del Pcf, si svuotò. Nel marzo 1937 l’Ena era rinato cambiando il suo nome in partito del popolo algerino (Ppa) e ad ogni elezione amministrativa recuperava voti dal Pca.

La fine della seconda guerra mondiale scatenò un’ondata di lotte di massa in Algeria, dove i giovani erano stati utilizzati da De Gaulle come carne da cannone sui campi di battaglia europei. L’8 maggio 1945 manifestazioni tumultuose si trasformarono in movimenti insurrezionali a Sétif e Guelma. La repressione del governo Pcf-Sfio-Mrp (Movimento Repubblicano Popolare, democristiano) fu feroce. Nella provincia di Sétif il Mtld (Movimento per il Trionfo delle Libertà Democratiche), nuovo nome del Ppa, denunciò 40mila morti. Nonostante ciò, i vertici del movimento nazionalista condannarono l’insurrezione di Sétif. Il movimento nazionalista era diviso in due formazioni: l’Udma, che rifletteva gli interessi della debole borghesia algerina desiderosa di raccogliere le briciole che gli avrebbe lasciato il suo padrone francese, ed il Mtld, a direzione piccoloborghese, che agitava la parola d’ordine dell’indipendenza, della guerra al colonialismo ed ai suoi lacchè, colorando tutto con una demagogia socialisteggiante per trainare dietro di sé le masse lavoratrici e plebee che identificavano liberazione nazionale e sociale.

Il Partito comunista francese, l’Internazionale comunista e la questione coloniale

I primi quattro congressi dell’Internazionale comunista (Ic), fondata nel 1919, riservarono particolare attenzione alla questione coloniale. Si considerava infatti che “senza il possesso dei grandi mercati e di territori da sfruttare nelle colonie, le potenze capitaliste d’Europa non potrebbero mantenersi in piedi a lungo”. La condotta dei partiti comunisti doveva essere nitida: secondo l’ottava condizione per l’adesione all’Ic “ogni partito appartenente alla III Internazionale ha il dovere di smascherare senza pietà i misfatti dei “suoi” imperialisti nelle colonie, di sostenere non solo a parole ma nei fatti ogni movimento d’emancipazione nelle colonie, di alimentare tra i lavoratori del proprio paese sentimenti di fratellanza nei confronti della popolazione lavoratrice delle colonie e delle nazionalità oppresse e di sviluppare tra i soldati dell’esercito imperialista un’agitazione permanente contro l’oppressione dei popoli coloniali”.

Il Pcf era nato nel dicembre 1920 per volontà dei delegati presenti al congresso nazionale della Sfio (sezione francese dell’internazionale operaia, cioè il vecchio partito socialista). Tuttavia, ai vertici del nuovo partito si manifestò una certa resistenza a mettere in pratica le tesi dell’Ic. Il IV congresso dell’Ic criticò la lentezza con cui il partito francese evolveva “dal socialismo parlamentare al comunismo rivoluzionario” soprattutto per la resistenza “spesso eccezionalmente tenace degli elementi che sono ancora piuttosto forti alla direzione del partito, specialmente nella frazione di centro che, dopo Tours, ha avuto la sostanziale direzione del partito”. In quel congresso Trotskij attaccò violentemente lo spirito colonialista ancora diffuso nel Pcf, prendendo come esempio una risoluzione della sezione Pcf di Sidi-bel-Abbès secondo cui “un sollevamento vittorioso delle masse musulmane d’Algeria non seguito da un sollevamento simile delle masse proletarie di Francia porterebbe fatalmente l’Algeria ad un ritorno verso un regime quasi feudale, cosa che non può essere l’obiettivo di un’azione comunista”1. Secondo Trotskij “questo argomento è preso dai socialdemocratici di destra di prima della guerra. […] Ora che il capitalismo è in piena decomposizione, è una sfida alle verità basilari della scienza storica identificare in esso un fattore progressivo per le colonie. Solo il socialismo può fare uscire le colonie dalla “barbarie”, cioè dalla situazione di ritardo in cui esse si trovano. Ogni movimento coloniale che indebolisce il dominio capitalista nella metropoli imperialista è progressista perché facilita il compito rivoluzionario del proletariato”; sarcasticamente, Trotskij così riassunse la formula della sezione di Sidi-bel-Abbès: “schiavi delle colonie, restate schiavi finché noi, esseri supremi della metropoli, avremo cambiato tutto, perché se voi vi private troppo presto della tutela della nostra borghesia civilizzatrice, voi ricadrete nella vostra barbarie”2. Il Pcf teorizzava l’inutilità di sviluppare un lavoro politico tra gli algerini perché troppo arretrati, scelta fustigata dal IV congresso dell’Ic: “La creazione nelle colonie (Egitto e Algeria) di organizzazioni comuniste europee isolate è una forma mascherata della tendenza colonizzatrice e un appoggio agli interessi imperialisti. Costruire organizzazioni comuniste secondo il principio della nazionalità equivale a contrastare i principi dell’internazionalismo proletario”. Anche sulla natura della borghesia coloniale regnava confusione. Il congresso di Algeri votò un programma in cui i commercianti capitalisti delle città che volevano diventare dei borghesi francesi naturalizzandosi erano giudicati un settore progressista: il Pcf si impegnò a “democratizzare al massimo” le istituzioni coloniali.

Nel 1924-25, l’evoluzione del Pcf verso il comunismo fu bloccata dall’eliminazione burocratica del gruppo dirigente Rosmer-Souvarine-Monatte, in sella dal 1923, causata dal suo appoggio all’opposizione di sinistra diretta da Trotskij. In quel periodo il governo di destra di Poincaré aiutò la Spagna nella sua guerra contro i cabili del Rif (Marocco). Nell’aprile del 1925, il governo del “cartello delle Sinistre” (Sfio, radicali, repubblicani socialisti) rafforzò le operazioni militari contro le armate di Abd-el-Krim. Il Pcf pubblicò sin dall’inizio dichiarazioni contro la guerra nel Rif e per “l’evacuazione completa della Francia dal Marocco”. La gioventù comunista fu particolarmente attiva nella distribuzione di volantini e giornali in arabo ed in francese, invitando i soldati alla fraternizzazione con gli insorti. Si ebbero, in effetti, alcuni casi di fraternizzazione. 200 marinai portati davanti al consiglio di guerra e 1.500 in attesa già all’inizio del 1925 non sono una cifra trascurabile. La fraternizzazione non era un appello a rifiuti isolati di prestare obbedienza agli ufficiali ma aveva l’obiettivo di organizzare in maniera cosciente tra i soldati una lotta di massa che avrebbe dovuto, per vincere, cercare un legame coi lavoratori. Apice della campagna contro la guerra fu lo sciopero generale di 24 ore dell’ottobre 1925, seguito da più di un milione di operai. Era il primo sciopero politico in Francia contro una guerra coloniale. A livello internazionale, la direzione dell’Ic di Zinoviev spingeva verso una politica di adattamento alle formazioni nazionaliste borghesi o contadine piccolo-borghesi che nascevano nei paesi coloniali ed arretrati. Così, ad esempio, il giusto appoggio dato all’insurrezione siriana del 1925, repressa dall’esercito francese, non fu accompagnato da un lavoro indipendente di costruzione del partito comunista. Dal Comitato Esecutivo allargato dell’Ic del febbraio 1926 si delineò una politica mondiale di costruzione, nei paesi coloniali, di partiti nazionalisti sul modello del Kuomintang cinese.

Durante la rivoluzione cinese del 1925-27, l’Ic con Stalin e Bukharin ricercò sistematicamente un’alleanza con una fantomatica borghesia antimperialista presente nel Kuomintang, dove il Pc cinese fu costretto a sciogliersi. Furono così mandati al massacro centinaia di migliaia di lavoratori e di comunisti quando anche gli elementi più di sinistra del Kuomintang, insieme ai signori della guerra, repressero nel sangue l’insurrezione operaia di Shangai. Erano gli effetti della politica di alleanza delle “quattro classi” (operai, contadini, intellettuali e borghesia nazionale). Nonostante questa terribile disfatta, l’Ic continuò a trasporre meccanicamente questa linea nei paesi coloniali costruendo essa stessa partiti cosiddetti “operai e contadini” simili al Kuomintang (che però era a direzione borghese).

Nel mondo arabo questo condusse alla liquidazione del Pc tunisino nel Neo-Destur nazionalista borghese ed in Egitto al codismo nei confronti del nazionalista-liberale Wafd. Il rappresentante dell’Ic, Gero, aveva spiegato ai comunisti francesi che dovevano creare in Africa del Nord “un partito nazionalista facendovi entrare elementi indigeni come noi l’abbiamo fatto con successo in Cina”3. In Algeria il Pcf creò l’Ena dopo aver cercato, invano, di coinvolgere elementi della classe dominante locale – compresi elementi feudali, precisò Gero – per costituire un “Kuomintang algerino”. Nella stampa di partito si sosteneva che “la parte militante della borghesia è rivoluzionaria”4. Si finì per costituire un partito basato essenzialmente sulla classe operaia emigrata in Francia e diretto da militanti comunisti. Febbraio 1927, si tenne a Bruxelles il congresso costitutivo della Lega contro l’imperialismo. Il Comitato contro le atrocità in Siria si trasformò in Lega contro l’imperialismo, divenendo strumento dell’alleanza dell’Ic con la borghesia dei paesi coloniali.

Fu il più grande congresso politico anticolonialista tra le due guerre. Parteciparono il partito del Congresso indiano, l’Apra peruviano, l’Anc sudafricano, l’Ena ecc. Fu il coronamento della politica “Kuomintang” ma anche la sua ultima tappa. Le illusioni nazionaliste alimentate dall’Ic si ritorsero contro di essa ed entro il 1930 tutte le principali organizzazioni della Lega ruppero con l’Ic. La politica del “Terzo Periodo” allontanò definitivamente l’Ena. Messali Hadj era uscito dal Pcf nel 1928 e portò avanti senza l’Ic la costruzione in Francia di un partito nazionalista con una base popolare ed una fraseologia impregnata di lessico comunista. L’Ena, però, rifiutò ai comunisti la doppia tessera.

La svolta del VII congresso dell’Ic (1935) verso la politica dei fronti popolari ebbe ripercussioni immediate sulla politica coloniale. L’Ic, sotto il dominio stalinista, formulò organicamente una “nuova teoria” sostenendo l’impossibilità di unire la lotta per la liberazione nazionale a quella per il potere proletario ed il comunismo, allontanata in un futuro indefinito (teoria delle due fasi). Era una ripresa mascherata delle teorie mensceviche. Nei paesi coloniali, i Pc dovevano sottomettersi al programma, ai metodi di lotta ed al personale politico della borghesia nazionale. In Francia, nel programma di governo del Fronte Popolare il Pcf introdusse solamente la creazione di una commissione d’inchiesta sulle colonie e appoggiò la repressione dei movimenti di liberazione nazionale. Argomentando che le colonie francesi sarebbero potute cadere sotto il dominio di Hitler e Mussolini, il Pcf si oppose all’indipendenza e mostrò la sua subordinazione alla “sua” borghesia sostenendo che “la Francia democratica deve guidare le colonie sulla via del progresso sociale e della libertà”. Quando l’Ena chiese l’indipendenza dell’Algeria, il Pcf l’etichettò come fascista ed invocò la sua messa al bando. Anche il Comitato d’azione marocchina fu bandito dal Fronte Popolare.

Alla fine della Seconda Guerra mondiale la linea dei fronti popolari ebbe una nuova applicazione coi governi di unità nazionale tra Pcf, Sfio e Mrp. Il segretario del Pca, Caballero nel giugno 1945 spiegò che chi domandava l’indipendenza dalla Francia era ìagente cosciente o incosciente di un altro imperialismo”. Dopo l’insurrezione ed il massacro di Sétif il Cc del Pcf chiedeva di “punire senza pietà e rapidamente gli organizzatori della rivolta.” Sconfitti Germania, Italia e Giappone, Caballero non poteva fare riferimento che agli Usa o alla Gran Bretagna. Ma i comunisti devono dare la priorità al “proprio” imperialismo contro quello di un altro paese? Questa politica filoimperialista portò il Pcf a votare i crediti di guerra per sostenere la guerra coloniale in Indocina ed i bombardamenti in Madagascar5. Le stesse prese di posizione “pacifiste” erano concepite dalla burocrazia del Pcf come consigli alla borghesia francese su come meglio conservare le colonie. Thorez affermò che “L’interesse nazionale esige il mantenimento dell’influenza francese in Estremo Oriente. La continuazione delle ostilità contro il popolo vietnamita in violazione ai principi fissati dalla Costituzione porterebbe fatalmente a perdere queste posizioni e questa influenza, come si è già verificato in Siria ed in Libano”6, dove l’intervento brutale della Francia (bombardamento di Damasco ed arresti per l’intero governo libanese) ebbe come conseguenza la radicalizzazione della lotta per l’indipendenza fino alla vittoria.

La crisi del 1953-54 e l’inizio della lotta armata

La repressione sanguinosa del maggio 1945 fu all’origine di anni di riflusso. Questa situazione spinse la borghesia, ma anche settori di piccola borghesia, a ricercare accordi con l’imperialismo. L’Udma di Ferhat Abbas, gli Ulema ed il gruppo dirigente del Mtld si battevano per “l’applicazione piena” dello Statuto concesso nel 1947 dalla Francia. I loro deputati al Parlamento di Parigi conducevano un’attività politica discreta. Nessuno parlava di indipendenza. La situazione portò all’esasperazione la base lavoratrice del Mtld. Centinaia di militanti scrissero lettere infuocate o visitarono Messali Hadj, agli arresti domiciliari in Francia. Le proteste vertevano anche sul silenzio del Mtld a proposito delle lotte in Marocco e Tunisia. Questa rivolta della base fu incanalata da Messali che nel dicembre 1953 accusò di “riformismo” la direzione del Mtld e organizzò nel marzo ’54 “Comitati di Salvezza Pubblici” per lanciare una lotta di frazione. Le denunce di moderatismo indirizzate alla maggioranza del Mtld suscitarono l’entusiasmo dei militanti, a stragrande maggioranza con Messali. L’Os (operazioni speciali), braccio militare e polizia politica del partito, si bilanciò tra le due frazioni. Boudiaf, dirigente dell’Os, fondò nel marzo ’54 il Crua (Comitato rivoluzionario per l’unità e l’azione) per tentare di riunificare il partito. L’Os, benché sentisse le pressioni della base, non poteva scontrarsi frontalmente con l’apparato del partito da cui dipendeva materialmente.

Sfruttando la frustrazione e la volontà d’azione della base, il Crua preparò un’insurrezione a freddo. Così, il 1° novembre 1954, il Crua, divenuto Fronte di Liberazione Nazionale (Fln), si lanciò contro l’esercito francese. Vennero realizzati 30 attacchi, di cui solo uno ad Algeri. Un migliaio e mal equipaggiati erano gli effettivi del Fln, di cui 400 erano concentrati nella regione dell’Aurès. L’avventurismo con cui fu preparata quest’insurrezione ebbe conseguenze catastrofiche: cellule smantellate, militanti arrestati perfino grazie alle indicazioni dei contadini. Nell’Aurès ebbero luogo i primi bombardamenti col napalm da parte della Francia. In Francia la repressione si abbatté sul Mtld. I suoi locali furono chiusi, gli archivi sequestrati, le pubblicazioni vietate e Messali fu nuovamente incarcerato. Il Mtld si riformò col nome di Movimento Nazionale Algerino (Mna). Anche il movimento operaio, però, cominciò a prendere la parola: i delegati al congresso nazionale del sindacato dell’educazione (Fen) votarono una risoluzione per la fine della repressione contro il Mtld e per la liberazione immediata di Messali.

La guerra di liberazione nazionale

Quando scoppiò l’insurrezione del 1° novembre 1954 il modo di produzione prevalente in Algeria era da tempo quello capitalista. L’Algeria era un caso di sviluppo diseguale e combinato: istituzioni (come gli aarch in Cabilia) e rapporti precapitalistici coesistevano con le fabbriche capitaliste più moderne. La divisione in classi sociali era peculiare. Le due classi fondamentali prodotte dal capitalismo erano piuttosto deboli. Per la borghesia si censivano nel 1954 un totale di 120mila “imprenditori, commercianti, artigiani, liberi professionisti”. Nelle città il proletariato, invece, aveva raggiunto le 330mila unità, soprattutto portuali, impiegati e operai dell’industria leggera (lana, cotone, alimentari, settore vinicolo). Circa 90mila proletari erano francesi. Il capitalismo si era sviluppato nelle campagne accaparrandosi le terre migliori (Mitidja, altopiano di Orano). 22mila coloni possedevano 2,7 milioni di ettari di terra, equivalenti al 40% delle terre coltivate, concentrando però il 65% della produzione agricola. Tra questi, circa 6mila coloni avevano possedimenti superiori ai 150 ettari e controllavano le produzioni pregiate da esportazione, come la vite. Tra la popolazione araba si era sviluppata una borghesia terriera con 25mila proprietari di appezzamenti superiori ai 50 ettari. Questi sviluppi avevano causato la formazione di un proletariato agricolo di circa 1,5 milioni di contadini spossessati, mentre mezzo milione di contadini poveri vivevano in un’economia di sussistenza dotati di mezzi di produzione primitivi. I disoccupati agricoli toccavano il milione. Inoltre, l’esodo dalle campagne verso le città aveva formato spaventose bidonville nelle periferie e 200mila algerini erano diventati operai in Francia.

Il peso della lotta di liberazione nazionale cadde sulle spalle di operai e contadini. Dalla primavera del 1955 la guerriglia contadina si espanse a macchia d’olio. In Francia i lavoratori algerini cercavano spontaneamente un alleato nel movimento operaio francese. Il 1° maggio 1955 migliaia di algerini sfilarono a Parigi nel corteo organizzato dalla Cgt (Confederazione Generale del Lavoro, legata al Pcf). Al comizio finale, però, i dirigenti della Cgt impedirono di parlare ad un rappresentante del Mna favorevole all’indipendenza, preferendogli un algerino del Pcf, “addomesticato” all’idea dell’Algeria autonoma legata all’Unione Francese. Scoppiarono scontri tra il servizio d’ordine della Cgt ed i messalisti: intervenne la polizia compiendo 200 arresti tra gli operai algerini. Questo episodio riassume l’atteggiamento opportunista delle burocrazie sindacali che, difendendo le posizioni dell’imperialismo francese, misero sistematicamente un cuneo tra lavoratori francesi e algerini. Malgrado ciò, l’atteggiamento dei lavoratori e dei giovani francesi era differente. Nell’estate ‘56, migliaia di coscritti si rifiutarono di partire verso l’Algeria, ingaggiando scontri violenti con la polizia nelle stazioni ferroviarie.

La situazione militare dell’imperialismo francese in Algeria non era promettente. Alla fine del 1954, 55mila soldati furono affiancati da 40mila unità provenienti dall’Indocina, reduci dall’umiliante sconfitta di Dien-Bien-Phu. Nella primavera-estate del 1955 tutto il Maghreb andò a fuoco. Guerriglia e lotte sociali si generalizzavano in Marocco e Tunisia. La paura montò alle stelle quando pareva profilarsi una possibile unione tra i combattenti marocchini dell’Alm (Armata di Liberazione del Marocco) e l’insurrezione contadina della regione algerina di Costantina. La Francia fu costretta a negoziare l’indipendenza dei suoi due protettorati. Il re del Marocco Mohammed V prese la responsabilità di reprimere quei contadini marocchini che volevano continuare la guerriglia fino alla liberazione ed all’unità di tutto il Maghreb.

La spinta a sinistra della società francese ebbe un riflesso nelle elezioni legislative del gennaio 1956. Il Pcf si confermò primo partito col 26% dei voti, alla Sfio andò il 16%. Venne formato un governo di centro-sinistra che escludeva il Pcf, con Guy Mollet, segretario Sfio, primo ministro. Replicando a chi accusava il governo di avere due politiche: “una politica energica per l’Algeria ed una politica di concessioni per la Tunisia ed il Marocco” Pineau, ministro degli esteri, sostenne che era vano credere di poter resistere ad una guerra generalizzata all’Africa del Nord: “I partigiani di una politica dura in Marocco e Tunisia devono capire che ciò richiederebbe altri 500mila uomini. Dove pensano di prenderli i nostri colleghi? Non ho sentito nessuna proposta in questo senso”7.

Già il 2 febbraio Mollet fu sonoramente contestato dai coloni ad Algeri. Cedette a queste pressioni nominando governatore generale di Algeri Lacoste, Sfio, gradito a ricchi coloni e militari. Il governo Mollet, strumento diretto della borghesia francese, chiese i pieni poteri in Algeria per condurre con la massima ferocia la repressione. Il 9 marzo l’Usta (unione sindacale dei lavoratori algerini, legata al Mna) convocò uno sciopero generale contro i poteri speciali. I lavoratori algerini manifestarono a migliaia ma la lotta rimase isolata. Il 12 marzo Mollet ottenne dal Parlamento i pieni poteri anche coi voti dei parlamentari del Pcf. Da allora il gruppo dirigente del Pcf mantiene un rigoroso silenzio su questa sua “prodezza”. Nel 1956 affluirono in Algeria decine di migliaia di soldati dei corpi speciali (paracadutisti, Legione Straniera) e gli effettivi presenti schizzarono a 396mila. Dicembre 1956: il governatore Lacoste incaricò il generale Massu, capo dei parà, di riportare l’ordine ad Algeri. Il Fln lanciò uno sciopero generale di 8 giorni il 5 gennaio 1957. L’intera città, ma soprattutto la casbah, venne rastrellata dalla forze speciali. Migliaia gli arresti e le esecuzioni sommarie. Il comitato esecutivo del Fln ordinò un’intensificazione degli attentati ma poi scappò a fine febbraio 1957. La base del Fln, spontaneamente, continuò la politica di terrorismo individuale. Il bilancio della “Battaglia d’Algeri” fu pesante. Intere cellule del Fln e del Mna furono smantellate. Il movimento operaio crollò e la ricostruzione di strutture sindacali fu proibita. Iniziò un periodo di riflusso per le masse urbane. Sotto la pressione dei coloni era stata lanciata  contro il popolo algerino una guerra coloniale classica fatta di violenze, torture e stupri. La guerra in Algeria avrebbe potuto rilanciare la lotta politica in Francia, in alleanza col popolo algerino. Secondo il marxista britannico Ted Grant, se questa lotta si fosse prodotta “avrebbe potuto dividere i coloni, conquistando gli strati inferiori della piccola borghesia ed i piccoli proprietari alla rivendicazione di un’Algeria socialista, unita fraternamente e con pieni diritti (incluso quello alla separazione) con una Francia socialista. Ma la passività del Pcf ed il tradimento socialista, quando Mollet sostenne la guerra e perfino l’intensificò dopo aver vinto le elezioni con un programma di pace in Algeria, significarono che la guerra diventò un orrendo conflitto per lo sterminio dell’avversario da entrambe le parti. I coloni furono saldati in un’unica massa reazionaria ed i combattenti per la libertà algerini spinti su un programma puramente nazionalista”8.

Mna e Fln “alla guerra”

Il Mna partì nel 1954 da posizioni più di sinistra del Fln. Aveva militanti con anni o decenni di esperienza nel movimento operaio francese. La base del Mna si trovava principalmente tra i lavoratori immigrati in Francia mentre il Fln guadagnò terreno nelle zone rurali dell’Algeria. I militanti del Mna stabilirono relazioni coi sindacati della scuola (Fen, Snes, Sni) ed ebbero un certo peso alla Renault, dove militavano a migliaia nell’Ugsa, federata alla Cgt. Politicamente, ebbero legami con la sinistra della Sfio, con gruppi espulsi dal Pcf, col gruppo pseudo-trotskista del Pci (Partito Comunista Internazionalista) e con gli anarcosindacalisti della rivista Vie Proletarienne di Monatte, storico attivista del movimento operaio. Malgrado la leadership riformista di Messali Hadj, la base operaia del Mna era un pericolo per la borghesia francese. Fu così che la Cisl (Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi), su pressione di Force Ouvrière (Fo), elargì importanti somme per controllare i dirigenti sindacali del Mna e spingerli ad uscire dalla Cgt per fondare un sindacato puramente algerino. Nacque così nel febbraio ’56 l’Usta. Questa manovra reazionaria che introduceva una scissione tra lavoratori su base nazionale fu ulteriormente favorita dall’atteggiamento nazionalista dei dirigenti della Cgt.
Un mese dopo nacque l’Ugta (Unione Generale dei Lavoratori Algerini) per iniziativa dei dirigenti del Fln, anch’essa lautamente finanziata dalla Cisl.

Inizialmente, la borghesia francese utilizzò come interlocutore “ragionevole” il Fln, in cui la componente borghese si era notevolmente rafforzata dopo l’ingresso, tra il 1955 ed il 1956, di alcune grandi famiglie borghesi di Algeri, dell’Udma e dell’Associazione degli Ulema, privi ormai di qualsiasi sostegno popolare a causa della loro tattica attendista. Vasti settori del Fln attesero vanamente la fine del conflitto dai governi Mendès-France e Mollet. Anche il moderatissimo Pca si sciolse nel Fln, liquidando nell’Aln le sue formazioni militari. A partire dal 1956, però, il Mna abbandonò progressivamente la parola d’ordine dell’indipendenza a favore di una “Tavola Rotonda” (leggi negoziato) con la Francia,  incaricata di convocare una fumosa Assemblea Costituente per decidere il futuro dell’Algeria: era la decolonizzazione per gradi. Messali difese l’idea di un “Commonwealth Francia-Maghreb e franco-africano”, prendendo contatti col ministro di De Gaulle Houphouet-Boigny. La radicalità passò dalla parte del Fln che divenne egemone. Nella seconda metà degli anni ’50 il Mna diventò un’agenzia dell’imperialismo francese. Addirittura, nel 1961 la maggioranza del suo Comitato centrale tramò col governo gollista Debré fino a formare un nuovo partito, il Fronte algerino d’azione democratica, utilizzato come strumento di pressione contro il Fln.

La cosiddetta guerra civile tra Fln e Mna si concluse nel 1962 con circa 12mila aggressioni, 9mila feriti e 4mila morti. Un episodio merita un’attenzione particolare. Tra il settembre e l’ottobre del 1957 numerosi quadri operai dell’Usta, soprattutto della Renault, vennero assassinati per mano di squadracce organizzate dal Fln. Questa mattanza decapitò quel settore operaio del Mna che, svincolandosi dal riformismo paternalista e corrotto di Messali, si stava avvicinando alle idee del marxismo.

L’ascesa di De Gaulle

Esasperata dall’intensificarsi della lotta di liberazione e stufa delle mezze misure dei “politici”, la casta degli ufficiali sfogò apertamente la sua rabbia. Massu, gollista di ferro, dichiarò all’Evening Standard: “L’esercito ha subito una sconfitta dopo l’altra negli ultimi venti anni. È colpa dei politici che non danno mano libera ai generali”. L’esercito francese, particolarmente il corpo d’élite dei paracadutisti, aveva scatenato il terrore. I paracadutisti diventarono un gruppo di torturatori ed assassini pronti a tutto. Sfruttando il timore dei coloni di un accordo tra la classe dominante francese ed il movimento nazionalista algerino, i generali prepararono la loro rivolta. Senza opposizione da parte della polizia, il 13 maggio 1958 coloni e parà assaltarono il palazzo del Governatore di Algeri. Massu annunciò la formazione di un “Comitato di salvezza pubblica” e richiese immediatamente che il Presidente della Repubblica desse il potere a De Gaulle come capo di questo comitato. Il movimento doveva svilupparsi anche a Parigi dove però solo 6mila scesero in piazza per Massu. Non esistevano in Francia basi di massa per un movimento fascista. I generali rimasero isolati. Il Pcf e la Cgt parlarono di minaccia fascista ed i tre sindacati minacciarono uno sciopero generale se il governo costituzionale fosse stato attaccato. La risposta del governo Pfimflin (Mrp) fu quella di adottare il programma degli insorti: guerra fino alla fine in Algeria e rafforzamento dell’esecutivo. Sostenendo che così sbarravano la strada ai generali fascisti, i dirigenti della Sfio e del Pcf votarono a favore dello stato d’emergenza con cui il governo proibiva assemblee e cortei. Il 24 maggio i generali in rivolta occuparono la Corsica senza trovare resistenza. Nessuna mobilitazione fu organizzata dal Pcf. L’unica “azione” fu un ordine del giorno del consiglio comunale di Bastia dove si affermava “la fedeltà alla Repubblica e l’appoggio al governo. Facciamo appello alla popolazione di rimanere calma e di non manifestare”.

I dirigenti del Pcf alimentarono l’illusione che il governo Pflimflin avrebbe potuto disarmare gli ammutinati. Ciò rivelava un’incomprensione della natura di classe dello Stato borghese. Engels disse che lo Stato, in ultima analisi, sono corpi di uomini armati in difesa di certi rapporti di proprietà. Per il governo, così, disarmare i generali ribelli avrebbe significato distruggere uno dei propri pilastri. I dirigenti del Pcf avrebbero dovuto invece fare appello ai lavoratori ed ai sindacati per organizzare milizie operaie in grado di schiacciare la reazione. Una volta Lenin osservò che anche una lotta per la difesa di diritti democratici poteva trasformarsi in un movimento rivoluzionario. Inoltre, il Pcf avrebbe dovuto organizzare la propaganda tra i marinai perché rifiutassero di consegnare armi e approvvigionamenti in Algeria e fare appello ai coscritti perché formassero comitati d’azione in unione coi portuali e rifiutassero di partire.

Tradendo i generali di cui si era servito, De Gaulle si presentò alla borghesia francese come il “Salvatore della Patria”, l’uomo in grado di porre termine all’avventura di Massu e di fare da argine al movimento operaio. Il 1° giugno fu nominato primo ministro, anche coi voti della Sfio. L’appoggio a De Gaulle catalizzò la differenziazione interna alla Sfio. La sinistra interna uscì fondando il Psa10 nel settembre ’58 un plebiscito sancì la nascita della Quinta Repubblica, il cui sistema istituzionale concentrava enormi poteri nelle mani del Presidente della Repubblica. Il rifiuto del Pcf di contrastare il bonapartismo sul suo terreno con metodi di lotta extraparlamentari (scioperi, assemblee, manifestazioni) spianò la strada a De Gaulle. Nessun appello alla Costituzione valse a fermarlo.

Il declino dell’imperialismo francese

La guerra d’Algeria segnò il definitivo declino dell’imperialismo francese. Indebolita dalla Seconda Guerra mondiale, la Francia perse la Siria ed il Libano. In Indocina, nonostante notevoli aiuti da parte degli Usa, la Francia fu cacciata da una guerriglia contadina che continuò la lotta contro l’imperialismo nordamericano. La rotta francese a Dien-Bien-Phu nel maggio ‘54 stimolò la radicalizzazione delle lotte nelle colonie nordafricane. Tutte le forze furono concentrate in Algeria. L’Algeria era un dipartimento francese fin dal 1881 ed aveva un’importanza strategica: la sua economia era integrata a quella francese e vi abitavano nel 1954 quasi un milione di francesi, dominati politicamente ed economicamente da alcune migliaia di grandi proprietari terrieri.

La borghesia francese non tardò a cogliere il possibile legame tra la lotta di liberazione nazionale in Algeria e l’apertura di un processo rivoluzionario in Francia. Nel 1958, se il Pcf fosse stato un partito rivoluzionario, i lavoratori avrebbero potuto conquistare il potere. Al contrario, l’opportunismo e la codardia dei dirigenti del movimento operaio aprirono la strada al regime bonapartista di De Gaulle. Questi volle uscire dall’Algeria per paura di una rivoluzione in casa propria. De Gaulle interpretò le esigenze complessive della borghesia che, con l’eccezione dei gruppi direttamente minacciati dall’insurrezione anticoloniale, cercava di salvare il salvabile in termini di influenza economica e, soprattutto, di evitare un acutizzarsi della lotta di classe in Francia.

Già dal 1958 l’imperialismo francese avrebbe probabilmente preferito raggiungere un compromesso coi nazionalisti algerini. Tuttavia, gli interessi dei grandi proprietari terrieri e dei capitalisti in Algeria si opponevano implacabilmente all’ascesa del movimento di liberazione nazionale rendendo difficile un compromesso. Sin dal giugno ‘58 De Gaulle ingiunse ai suoi uomini di prendere le distanze dagli ultras dell’“Algérie Française” e costrinse Massu a sciogliere il Comitato di Salvezza Pubblica. Nel settembre ’58 De Gaulle lanciò il Piano di Costantina: la Francia prometteva investimenti nell’industria e nell’agricoltura ed in un futuro non precisato gli algerini avrebbero potuto scegliere tra la naturalizzazione, il protettorato e l’indipendenza. Questo piano, rimasto lettera morta, traduceva i piani della borghesia francese, pronta a scendere a patti col Fln in cambio di garanzie per gli interessi francesi.

La formazione del Gpra (governo provvisorio della repubblica algerina), ala diplomatica del Fln creata nel 1958 con Abbas alla presidenza, fu un segno di disponibilità alle trattative. Tale esito fu però bloccato dai capi militari del Fln, l’Armata di Liberazione Nazionale (Aln), decisi ormai a combattere fino alla fine per l’indipendenza. L’Usta, invece, apprezzò il Piano di Costantina, abbandonando le sue parole d’ordine in favore di una riforma agraria radicale e dell’abbattimento del regime coloniale. Nel 1959 De Gaulle moltiplicò le dichiarazioni in favore dell’“autodeterminazione dell’Algeria” e di una “pace dei valorosi”.

Le lotte del 1960-62

Altri tentativi di golpe militari al grido di “Algérie Française” furono spazzati via da De Gaulle nel 1960 e nel 1961. Nel contempo, l’Oas (organizzazione dell’esercito segreto), formata da coloni di estrema destra, iniziò una politica di terrorismo individuale in Francia. Anche a sinistra avveniva una radicalizzazione. L’ammutinamento dei generali del gennaio 1960 provocò uno sciopero generale in Francia. Inoltre, molti soldati ed anche qualche ufficiale parteciparono spontaneamente alla repressione di Massu e compagnia. Il 21 giugno 1961 l’Unef, principale sindacato studentesco, convocò manifestazioni in tutto il paese. Nei cortei studenteschi al posto di astratti slogan per la “pace in Algeria” vennero scandite parole d’ordine antimperialiste e di sostegno alla guerriglia come “Fln vincerà”. Nel maggio 1961 il governo francese strinse una prima volta i negoziati. Le trattative ruotarono attorno alle garanzie da fornire all’imperialismo francese dopo l’indipendenza. Lo statuto del Sahara ed una tregua immediata fecero fallire le trattative. Dopo la conferenza l’Oas, ragionando come un uomo sull’orlo di un precipizio, moltiplicò gli attentati sperando che bloccassero i negoziati. Al contrario, questa politica ne affrettò la ripresa e la conclusione. Anche il Fln rilanciò la sua guerra, con atti di terrorismo individuale in Francia, per imporre a Parigi la propria soluzione.

All’epoca Ted Grant scriveva: “Se i dirigenti del proletariato francese si fossero comportati come rivoluzionari, avrebbero potuto incidere sulla lotta algerina, ma il tradimento da parte della Sfio e del Pcf ha dato impulso alla lotta attraverso il Fln su basi puramente nazionalistiche. Questo a sua volta ha creato la condizione in cui i lavoratori e i tecnici, i piccoli coloni e i commercianti, sono stati spinti fra le braccia dei fascisti dell’Oas; infatti anche quegli elementi che avevano appoggiato la Sfio ed il Pcf sono finiti in quell’organizzazione, il che ha aggravato il conflitto”11. In Algeria, nel 1960-61, la lotta di liberazione nazionale tornò ad acquistare un carattere preinsurrezionale. Quando De Gaulle si recò in Algeria imponenti manifestazioni gli riservarono un’accoglienza ostile: la polizia sparò facendo 81 morti. Le masse scesero di nuovo in piazza al grido di “Viva l’Algeria algerina” e le bandiere nazionali vennero issate ovunque. Anche in Francia gli immigrati algerini lottarono coraggiosamente. Sfidando il coprifuoco ed il divieto di manifestare, il 17 ottobre 1961 il Fln organizzò a Parigi un corteo con decine di migliaia di persone che finì in un bagno di sangue. Da 200 a 300 persone furono uccise dalla polizia comandata dal prefetto di Parigi Papon, boia di Vichy. I cadaveri furono buttati nella Senna. L’8 febbraio 1962 una manifestazione della sinistra francese fu attaccata all’altezza della stazione Charonne della metropolitana: 8 morti. La reazione nel paese fu immediata: scioperi, manifestazioni studentesche fino all’impressionante corteo di centinaia di migliaia di persone che accompagnò le bare dei morti di Metro Charonne. Un mese dopo ad Evian De Gaulle ed il Gpra firmavano un accordo che concedeva l’indipendenza all’Algeria. La svolta si era prodotta in un periodo di ascesa delle lotte di massa, in Francia come in Algeria.

Gli Accordi di Evian parlavano chiaro: il Fln si era fatto garante degli interessi dell’imperialismo francese. La Francia avrebbe disposto della base di Mers-el-Kebir per 15 anni, delle sue installazioni nucleari e delle basi aeree. In cambio di crediti, il nuovo governo algerino si sarebbe impegnato a “garantire gli interessi della Francia e i diritti acquisiti da parte di persone fisiche e morali”. Concretamente, le compagnie petrolifere francesi mantenevano le concessioni già operanti e si assicuravano un trattamento di favore sulle nuove esportazioni per un periodo di sei anni. La Francia prometteva di concedere il suo “aiuto” solo nella misura in cui l’Algeria restava una zona franca ed un’economia dipendente da quella francese.

L’indipendenza fu proclamata il 3 luglio 1962. Il Gpra attaccò l’Aln tagliandogli i fondi ed affidando la formazione del nuovo esercito nazionale ad ufficiali rimasti coi francesi. Il 17 giugno il Fln aveva firmato un accordo con l’Oas che prevedeva l’amnistia per i militanti dell’organizzazione di estrema destra. Lo scontro interno al Fln portò all’ascesa di Ben Bella, settembre 1962, sulle baionette dell’esercito di liberazione nazionale (Aln) guidato da Boumedienne. L’Aln, accampato alle frontiere con Marocco e Tunisia, impose la sua supremazia sulle formazioni guerrigliere dell’interno, conquistando il monopolio della forza. Il Gpra fu esautorato con l’accusa di essere stato arrendevole nelle trattative con la Francia. Il Pca fu sciolto nell’ottobre 1962, temendo potesse diventare focolaio di un’opposizione classista.

Economicamente la situazione era difficile. La vittoria della rivoluzione spinse alla fuga artigiani, tecnici e lavoratori specializzati francesi, 800 mila in 90 giorni, creando grosse difficoltà per il nuovo Stato algerino. Le masse restavano in fermento per dare un contenuto sociale alla cacciata dell’imperialismo. Le proprietà abbandonate dai coloni vennero espropriate da operai e contadini. Comitati di gestione spontanei svolsero i compiti impellenti. Per un breve periodo esistette un certo controllo operaio nelle aziende e, soprattutto, nei latifondi. Il regime si basò sulla spontaneità delle masse, poi incanalata attraverso l’intervento dall’alto dell’apparato statale e dei vertici sindacali ad esso organicamente legati. Tra l’ottobre 1962 ed il marzo 1963 una artificiosa legislazione governativa soffocò i poteri dei comitati di gestione, ulteriormente penalizzati dal sabotaggio degli istituti di credito. Ogni nomina importante spettava al governo che la sottraeva alle assemblee di gestione. Si doveva così parlare di cooperative più che di gestione operaia. Inoltre, è utile ricordare che le aziende espropriate totalizzavano meno del 10% dell’industria (circa 500 industrie per 15mila operai) ed il 40% della produzione agricola. Ben Bella fece un compromesso con la borghesia araba, che non fu toccata, e con l’imperialismo francese. Né le banche, né il commercio estero vennero colpiti dalle nazionalizzazioni. Vennero nazionalizzate le miniere a reddito debole o improduttive mentre quelle di ferro, estremamente redditizie, furono statalizzate solo nel 1966 da Boumedienne. Nel 1964 fu creata la Sonatrach (società nazionale per la ricerca, produzione, trasporto, trasformazione, commercializzazione degli idrocarburi), gioiello del capitalismo di Stato algerino recentemente al centro delle mire degli imperialismi rivali francese e Usa. La riforma agraria, annunciata ai quattro venti dalla propaganda di regime, fu rimandata. Ciò che restava del capitale privato poteva prosperare all’ombra del settore statale, nell’industria leggera, nell’agricoltura e nel commercio.

In politica estera, Ben Bella difese la politca del non-allineamento, stringendo un asse con la Jugoslavia. Tentò così di bilanciarsi tra l’imperialismo e lo stalinismo. A causa del ritardo della rivoluzione socialista nei paesi avanzati, dell’assenza di un forte proletariato industriale e di un partito rivoluzionario cosciente, il regime assunse un carattere bonapartista. La formazione di un bonapartismo borghese, simile a quello di Cardenas in Messico negli anni ’30 o a quello di Nasser in Egitto, suscitò l’opposizione di una parte del Fln, che contestava il ruolo di arbitro della situazione conquistato dai vertici militari. Nel 1963 Hocine Ait Ahmed fondò il Fronte delle Forze Socialiste (Ffs) e lanciò un’opposizione armata in Cabilia.

Il golpe di Boumedienne e le nazionalizzazioni del 1966-71

Il golpe militare guidato da Boumedienne che nel giugno 1965 disarcionò Ben Bella accentuò il carattere bonapartista del regime. Temporaneamente vennero moderate le tendenze al non-allineamento. Con un gesto eclatante Boumedienne annullò la conferenza dei paesi non-allineati che doveva tenersi in luglio ad Algeri. Il movimento studentesco fu decapitato ed il sindacato ulteriormente epurato per paura che le masse potessero trasformarlo in strumento per una mobilitazione indipendente. Le epurazioni di elementi plebei nell’esercito proseguirono fino al 1971. L’ordine regnava ad Algeri.

Tra il 1966 ed il 1971 il regime avviò la riforma agraria, nazionalizzò banche, assicurazioni, acciaio, gas e petrolio, colpendo anche interessi francesi. Tuttavia, proprio il petrolio, maggiore ricchezza del paese, fu gestito attraverso una società a compartecipazione francese dove lo Stato algerino deteneva il 51%. Il significato di tali ondate di nazionalizzazioni fu borghese. Erano misure funzionali allo sviluppo di un capitalismo ‘nazionale’ algerino con l’obiettivo di competere sul mercato mondiale. Lo Stato assumeva pienamente il ruolo di capitalista collettivo. Oltre all’industria pesante, anche il commercio estero passava sotto il monopolio statale. Infatti, erano le compagnie statali, in collaborazione col governo, a valutare le proposte di compartecipazione provenienti da multinazionali straniere (Fiat e Pirelli parteciparono alla costruzione di gasdotti). Negli anni ’70 Boumedienne diventò un leader dei paesi non-allineati. La demagogia antimperialista del regime visse una nuova giovinezza. Trotskij, analizzando fenomeni di bonapartismo nei paesi coloniali, aveva scritto: “Nei paesi industrialmente arretrati il capitale straniero ha una funzione decisiva. Di qui la relativa debolezza della borghesia nazionale rispetto al proletariato nazionale. Ciò determina un potere statale di tipo particolare. Il governo si barcamena tra il capitale straniero e il capitale indigeno, fra la debole borghesia nazionale ed il proletariato relativamente forte. Ciò conferisce al governo un carattere bonapartista sui generis, di tipo particolare. Si colloca per così dire al di sopra delle classi. In realtà può governare o divenendo strumento del capitale straniero e tenendo incatenato il proletariato con una dittatura poliziesca o manovrando il proletariato e giungendo persino a fargli delle concessioni, assicurandosi in tal modo la possibilità di una certa libertà nei confronti dei capitalisti stranieri”12.

Anche negli anni di ascesa del capitalismo di stato algerino, il paese restò sempre legato in maniera decisiva all’imperialismo attraverso crediti, compartecipazioni e dipendenza tecnologica. Il ‘sogno’ dei dirigenti del Fln si scontrò duramente con la realtà. Rimasta legata all’imperialismo, l’Algeria risentì violentemente della recessione internazionale del 1973-74. Come in Egitto, la crisi esplose a causa dell’aumento esponenziale del debito estero (da 6 miliardi di dollari nel 1974 a 26 nel 1979) e dell’impossibilità di trovare sbocchi consistenti al di là del ristretto mercato interno. I colossali investimenti del regime di Boumedienne provocarono una elevata sovracapacità dell’industria, con conseguente aumento della disoccupazione. Il ritardatario capitalismo algerino era bloccato nei suoi sogni di grandezza e di indipendenza dallo strapotere delle multinazionali e delle potenze imperialiste. La morte di Boumedienne nel 1978 simboleggiò la crisi ed il cambiamento di rotta del capitalismo di stato algerino. Benjedid, successore di Boumedienne, iniziò infatti un processo, tuttora in corso, di ricorso sistematico ai prestiti del Fmi e di privatizzazione dell’economia, sempre più penetrata dall’imperialismo.

http://www.marxismo.net/idm-7/la-guerra-di-liberazione-algerina-1954-1962

MENTRE LA GUERRA DI ALGERIA ERA IN  ATTO  LA CRISI DI SUEZ SCONVOLGEVA IL MEDITERRANEO.

Nel luglio del 1956 Abdel Nasser, salito alla guida dell’Egitto con un colpo di stato, decretò la nazionalizzazione del canale di Suez, vietandone il passaggio alle navi israeliane.

La nazionalizzazione del canale, però, ebbe ripercussioni a livello internazionale ben più gravi: Gran Bretagna e Francia, che dalla fine del diciannovesimo secolo (cioè dalla caduta dell’Impero Ottomano), nonostante l’indipendenza dell’Egitto, avevano un forte controllo sugli scambi commerciali nello stretto, furono costrette a lasciare la regione.

Israele, quindi si rivelò essere un ottimo alleato: tre mesi dopo, infatti, lo stato ebraico invase la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai avanzando verso il canale, mentre le nazioni europee iniziarono a bombardare l’Egitto, costringendolo a riaprire lo stretto.

La crisi nel canale di Suez ebbe ripercussioni internazionali ancora più grandi, nel momento in cui si inserì nelle tensioni tra il blocco comunista, che si schierò a favore dell’Egitto, e gli Stati Uniti in un primo momento schierati accanto alle nazioni europee.

Per l’inizio del 1957 tutte le truppe israeliane si erano ritirate dal Sinai. Il timore di un’improvvisa escalation delle operazioni militari, infatti, spinse gli USA a frenare l’avanzata bellica di Regno Unito e Francia.

Intanto, il ministro degli esteri canadese, Lester Pearson (vincitore per il Nobel per la pace, grazie alla sua mediazione nella crisi), ottenne l’invio di una forza militare di interposizione sotto l’egida dell’ONU (la prima dalla sua nascita), con lo scopo di “mantenere i confini in pace mentre si cercava un accordo politico”.

Da un punto di vista politico, la crisi di Suez rappresentò punto nodale nella costruzione di un’asse USA-Israele, facendo degli Stati Uniti il più stretto alleato dello stato ebraico, riducendo in maniera drastica il ruolo delle nazioni europee, che all’epoca del colonialismo avevano esercitato un’enorme influenza nell’area.

http://geo.tesionline.it/geo/article.jsp?id=23533

Moi, Paul Aussaresses: “J’ai pendu Larbi Ben M … 

La battaglia di Algeri – Battle of Algiers, English subtitles …

La Battaglia di Algeri – Pontecorvo | controappuntoblog.org

L’étranger (The Stranger) : Luchino Visconti …

UMANO E POLITICO tra Camus e Sartre – L’État de siège (1948)

http://www.controappuntoblog.org/2012/12/29/umano-e-politico-tra-camus-e-sartre-l%E2%80%99etat-de-siege-1948/

L’extase des damnés, Frantz Fanon et la violence …

DECES DE AHMED BEN BELLA | controappuntoblog.org

Guerre d’Algérie : il y a 50 ans, la France et le FLN signaient …

Algérie – Accords d’Évian : entre le paradis perdu et l’enfer

http://www.jeuneafrique.com/Articles/Dossier/ARTJAWEB20120318211627/algerie-france-fln-decolonisationalgerie-accords-d-vian-entre-le-paradis-perdu-et-l-enfer.html

Algeria hostage crisis: UK government are either fools or liars

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William Walton – Façade: Tango-Pasodoblé. Lyrics: Edith Sitwell


Sir William Walton : Façade – Henry V, a Shakespeare Scenario

Domenico Scarlatti – Fandango – Lo’jo Tangito

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