Franco Margola, fra (neo) classicismo e (neo) romanticismo by Renzo Cresti

Franco Margola

Musicista, compositore

Figlio secondogenito di un cancelliere di Tribunale, Franco Margola manifestò fin da piccolo una spiccata inclinazione per la musica. Alternò quindi gli studi classici e la frequenza dell’Istituto Musicale «Venturi» di Brescia dove studiò Violino con Romano Romanini (conseguendo nel 1926 il diploma di magistero) e Pianoforte complementare, armonia e contrappunto con Isidoro Capitanio. A partire dal 1927 studiò Composizione presso il Conservatorio Musicale di Parma ove si diplomò con Achille Longo (1933). Nel frattempo non smise gli studi classici, approfondendo anzi quelli di filosofia, storia delle religioni, storia dell’arte e letteratura classica.
Le sue prime composizioni ottennero immediato successo non solo nei saggi del Conservatorio, ma anche in concorsi (da Napoli a Verona, da Roma a San Remo). Decisivo l’incontro con Alfredo Casella che orientò lo stile compositivo di Margola (prima orientato verso lo stile di Pizzetti) e ne fece conoscere alcuni brani al vasto pubblico, anche attraverso la radio.
Margola fu docente di Storia della Musica nell’Istitituto «Venturi» dal 1936.
Contemporaneamente diede vita a un’orchestra d’archi – tutta composta da elementi locali – che debuttò nel 1938 al Teatro Grande con la collaborazione di un allora diciottenne Arturo Benedetti Michelangeli.
Nel 1939 Margola fu nominato direttore e insegnante di Armonia e Contrappunto nel Liceo Musicale di Messina (1940-41) dopo di che divenne per chiara fama docente di Composizione nel Conservatorio di Cagliari (1941-43). Durante questo periodo compose la sua prima opera, «Il mito di Caino», su versi di Edoardo Ziletti, che ebbe successo. La seconda, il «Titone», andò distrutta con il siluramento della nave che trasportava i suoi bagagli. Rastrellato dai tedeschi, fu deportato nel luglio del 1944 a Mühldorf in Germania, dove fu addetto a lavori pesanti. Rientrato in Italia, insegnò Armonia complementare a Parma e tornò a mietere successi con le sue composizioni.
Trasferitosi a Cagliari, insegnò Armonia e contrappunto a Bologna (1950-52), Armonia, Contrappunto, Fuga e Composizione a Milano (1952-57) e a Roma all’Accademia di S. Cecilia (1957-59). Nel 1960 vinse il concorso di Direttore del Conservatorio di Cagliari e dal 1963 al 1975 (anno del pensionamento) su sua richiesta fu insegnante di Alta composizione al Conservatorio di Parma.
Profuse grandi energie nell’insegnamento, in cui si distinse anche per la stesura di libri di testo adottati in moltissimi Conservatori. Fra i suoi alunni alcuni hanno raggiunto chiara fama come nel caso di Camillo Togni, Niccolò Castiglioni e Giancarlo Facchinetti.
Instancabile non solo come compositore ma anche come conferenziere e uomo di cultura, ha lasciato circa 800 opere, fra edite e inedite, per lo più strumentali, riguardanti i generi più diversi: musica sinfonica, concerti con strumento solista, musica da camera di ogni specie, musica per strumenti solisti.
È stato socio corrispondente dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Brescia dal 31 dicembre 1945, poi socio effettivo dall’1 luglio 1979.
Si è spento a Nave il 9 marzo 1992.

http://www.comune.brescia.it/servizi/cimiteri/famedio/personaggiillustri/19901999/Pagine/francomargola.aspx

Fra (neo) classicismo e (neo) romanticismo

Non ho avuto la fortuna di conoscere Franco Margola (Brescia 1908 – 1992), ma ho potuto studiare attentamente la sua personalità e la sua musica, grazie a due libri che ho scritto su di lui, per la Collana “Il Cammeo Blu” di Guido Miano editore in Milano. Sono venuto in contatto col fratello e mi sono appassionato a questa figura di uomo che affidava alla musica il paziente lavoro quotidiano e la sua voglia di dire.

Con tristezza ho dovuto constatare come il Maestro (ma è anche il caso di altri compositori quali Togni, Prosperi, Zangelmi etc.) sia quasi un misconosciuto e come il presente sia (sempre stato) in mano a coloro che si sono affidati ai poteri forti (partiti, Case editrici e discografiche, direttori e sovrintendenti etc.) e all’ideologia dominante (neo-sperimentale o neo-romantica o neo-qualunquista non importa), ma c’è un tempo che sorpassa il contingente e questo è proprio il tempo della vera arte che, prima o poi, mette a posto le cose, privilegiando i due soli elementi che contano: la capacità tecnico-formale e la necessità interiore, doti che Margola aveva senz’altro (ricordo una cartolina di Castiglioni, il quale aveva ricevuto il mio libro sul Maestro, che si diceva molto contento perché avevo scritto su un musicista vero).
Un soliloquio profondo con la musica.

Margola è persona schiva, che non vuole intrigarsi, vendere musica, fare compromessi, preferisce l’indipendenza, anche a costo dell’isolamento, da un mondo utilitaristico, politicizzato, brutale nella sua stupidità massificata, più attento ai soldi e alle mode che alla sostanza culturale. Margola si volge, in modo del tutto naturale, a un soliloquio vero e profondo, il quale gli garantisce un’invidiabile libertà di pensiero e di prassi, ch’è anche un atto di responsabilità. L’atteggiamento di Margola è un elogio del pudore, una sorta di candore espresso nei riguardi del pensiero forte, teoretico o ideologico, atteggiamento che non significa segregazione (l’impegno didattico e le varie cariche che Margola ha ricoperto sono lì a dimostrarlo), non inficia il rapporto con gli altri, anzi proprio il bisogno della comunicazione costituisce una qualità sostanziale dell’attività di Margola, per il quale il lavorìo dell’artigiano è affetto dalla vita. Vita che entra nella musica senza proclami, con naturalezza, serenamente.

L’egida del classicismo.

L’egida del classicismo si apre al pathos, anche caricaturale, come nel caso del Valzer per pianoforte, che riprende il nitore delle linee di Tarantella-Rondò. “In estetica, la poesia classica su tutto; in pratica la schiettezza”, scriveva Carducci nel 1881, e sembra un’affermazione alla quale Margola vorrà rimanere fedele per tutta la vita. La cantabilità, l’aura dolce, l’emotività vibrante, che pressoché‚ in ogni pezzo si ascoltano, vengono sempre decantate in forme nette e precise, cementate in una concezione formale stringente, omogenea e unitaria, in una purezza di immagini e di scrittura che sa, con garbo, recuperare stilemi del passato per collegarli agli aspetti del presente.

Come Carducci, il quale, contro le pose di certi poeti (come il Prati) che si vantavano di scrivere presi dal furore della creazione, affermava il proprio rispetto per la disciplina artistica, così la musica di Margola afferma ch’è proprio il rispetto per la forma e per il costrutto che rende (più) vibranti le notazioni evocative. La forma è l’unico viatico certo dell’espressione che, senza gli argini formali, si disperderebbe in un disarticolato e (quindi) astruso blaterare. Seguendo ciò che il filosofo ebraico Rosenzweig chiama il “sano senso comune”, Margola si lascia trasportare sì dalla vocazione, ma crede soprattutto allo studio, al lavoro, al paziente forgiare, giorno dopo giorno, la materia sonora, al faticoso e poco eclatante atto quotidiano dello scrivere.

Dopo la Babele linguistica degli anni dello sperimentalismo, oggi, in questo scorcio del secondo millennio, si torna a un recupero del senso dell’opera d’arte, fattivamente intesa, senza cerebralismi e radicalismi, un oggetto musicale che getti ponti verso il pubblico, ovvero un oggetto rigorosamente costruito in sé, senza facili concessioni ai gusti o alle mode, ma che sappia e voglia instaurare un rapporto con l’ascoltatore. I ponti a cui Margola affida il suo viaggio verso il pubblico, sono ponti solidi, ponti costruiti con abilità: è la forma il ponte che permette a Margola di arrivare, senza cedimenti o fraintendimenti, alla gente.

Il sano senso comune, così bistrattato nei decenni passati, garantisce le modalità di comprensione, permette all’opera di raccontarsi, di non essere un mero dirsi, un dire dicente, ma di parlare oltreché del suo come è fatta anche del perché, dei motivi e degli scopi che l’Autore s’è prefisso, instaurando un contatto reale con le esperienze del pubblico.

A differenza di quello che si legge nell’Aesthetica di Croce, l’arte non ha nell’esprit de geometrie il suo nemico più acerrimo, anzi l’arte è (per lo meno nella tradizione occidentale) sostanzialmente geometrizzante, un’arte delle proporzioni, degli equilibri temporali e spaziali. Tutta la produzione margoliana, dai pezzi più lunghi e complessi ai brani solistici e da camera di pochi minuti, rimane fedele a una sorta di Formaesthetik, non rinunciando però ai suoi “contenuti” emotivi e ai significati espressivi. Non volendo affrontare la musica di Margola dal punto di vista della forma, potremmo anche dire, col Croce, che la sua opera è “immagine lirica”, intendendo non un canto in sé‚ concluso, fine a se stesso, ma un canto ch’è inserito in un contesto architettonico, anzi ch’è proprio tale contesto a far scaturire l’effusione lirica (per cui si ritorna ancora una volta alla forma). La cantabilità viene disciplinata dal rigore della scrittura, il contrappunto in particolare diviene quasi una medicina mentis per i fermenti lirici, in un’adaequatio reciproca fra disposizione raziocinante ed emotiva.

Il celebre Trio n. 2 in LA conferma quanto esposto, ovvero il perfetto equilibrio fra le singole parti, bilanciate nel loro articolarsi, il discorso serrato, la concisione formale, il solido senso del costrutto, l’energico tematismo a cui viene affidata l’esplicita funzione di guida nel percorso sonoro, l’immediata, ma controllata e signorile comunicativa. Il Trio ha un incipit energico e coinvolgente, esposto dai tre strumenti all’unisono, procedimento questo utilizzato, come fa notare Ottavio De Carli, (1) anche in altre composizioni dello stesso periodo (come nella Sonata per violino e pianoforte e nel Quintetto) e che si riscontrerà anche in seguito. Un inizio di questo tipo è di straordinario impatto, scandisce bene nell’ascoltatore i caratteri del tema, in modo che da esso possa partire, senza indugio, lo sviluppo, con impeto dinamico. Interessanti sono le oscillazioni ritmiche, a volte in evidenza. Gli strumenti, in ogni movimento del Trio, instaurano un dialogo polifonico, per Margola la musica è sempre discorso, un raccontare, un raccontarsi a un altro che sai ti sta ad ascoltare.

Forse questa esigenza del racconto porta Margola ad adottare, in alcuni parti del Trio, un andamento da melopea gregoriana che ricorda un certo Pizzetti. Altri procedimenti arcaizzanti (tipici dell’epoca) si fondano con lo stilema delle quinte vuote (già utilizzate da Casella, per esempio nella “per violoncello e pianoforte). Il calore delle idee e l’abbondanza degli elementi utilizzati, confluiscono in un’unità di stile che lega i tre tempi del Trio, stile reso omogeneo non solo dalla solidità della costruzione, ma anche dal fatto che le idee musicali si svolgono con quell’indispensabile senso di necessità che vale a dare loro un sensibile rilievo di ineluttabilità, che l’ascoltatore percepisce come condizione vera dell’esprimersi.

Margola riprende alcuni capi d’imputazione che erano già stati espressi da Pizzetti, sulle pagine de “La voce”, contro la tradizione tardo-romantica italiana ovvero la scarsa forza nell’elaborazione tematica, la povertà dell’articolazione formale, l’uso irrisorio della polifonia. Queste problematiche erano state denunciate già dalla nascente musicologia italiana, la quale tentava di recuperare le “solide basi” della musica strumentale, come diceva il Torchi: “la musica classica italiana rappresenta la più grande conoscenza, ma essa è stata fino a oggi ignorata, nello stesso paese in cui ebbe la culla”. Già fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il problema della forma viene messo in primo piano, ma negli anni fra le due guerre, questo diventa il tema centrale.

Il rigore delle forme strumentali è anche una risposta all’irrazionalismo vitalistico dei futuristi e alle propaggini decadenti del melodramma, ma è soprattutto il modo per rimettere in gioco i concetti di simmetria, proporzione, equilibrio, sobrietà e di gusto raffinato, concetti che legano l’estetica classica del mondo antico, a quello rinascimentale e a quello settecentesco, concetti che, musicalmente, rimandano alle forme di un Vivaldi, di un Domenico Scarlatti, a compositori italiani, prendendo così le distanze dalla tradizione tedesca, più astratta nella maniera di concepire la struttura musicale (la grande scoperta di Vivaldi avviene negli anni Trenta, specialmente nel 1938, quando viene fondata la “Società Vivaldi” a Venezia e, nel 1939, quando l’Accademia Chigiana di Siena dedica un’importante manifestazione al grande musicista).

Valori plastici e cantabilità delicata.

Attraverso il recupero dei nostri compositori, si tenta di ricostruire una continuità, interrotta durante il Romanticismo, che era stato il regno del melodramma, continuità naturale di prassi compositiva strumentale e di sensibilità latina, continuità storica che, del resto, viene ricercata pure nelle arti figurative, fin dai tempi delle Riviste “Valori plastici” e “La Ronda”. Anche il cosiddetto “impressionismo” di Margola si rifà a un tipo di cultura italiana, più o meno come lo espresse Previati, un impressionismo che usa il colore per raccontare e non perde mai di vista la linea e il senso plastico, rispettando lo spazio prospettico, la dimensione naturalistica, l’integrità della figura, il senso della narrazione.

La musica del passato, proprio perché‚ ha scansato le morbosità romantiche, viene considerata “virginea” (Bastianelli), quindi modellabile con più libertà, al di qua della retorica ottocentesca, e perfino più pronta a recepire tutte quelle sollecitazioni che col Romanticismo avevano poco a che fare, come quelle impressionistiche o post-impressionistiche. Questo retroterra culturale rappresenta l’humus della produzione compositiva di Margola, che fa sue prontamente, in età giovanile, le esigenze di rigore formale e di pulizia di linguaggio, collegandosi alla tradizione soprattutto attraverso Casella e insieme a lui riallacciandosi alle problematiche del neo-classicismo europeo.

Il concetto di “forma pura”, non è un pedissequo adattamento del tempo musicale in contenitori formali pre-stampati, tutt’altro, è proprio lo scarto fra il modello ideale, codificato, e la concreta realizzazione a costituire uno dei motivi di interesse, come dimostra la Seconda Sonata per violino e pianoforte, in cui la forma convenzionale lascia il posto a una più libera successione di movimenti, concatenati secondo un principio di progressiva intensificazione dinamica. La tonalità viene rispettata, ma anche in questo caso, si producono dei momenti di distanza fra la tonalità intesa come sistema classico e stilemi che non le sono propri, come la sovrapposizione di quinte vuote o la costruzione di accordi per quarte, evidenti soprattutto nella Sonata breve n. 3 che propone anche la particolare combinazione di quarte e quinte insieme.

Nella musica di Margola l’andamento strofico costituisce una costante, una dimensione in cui tout se tien, uno schema dialogico in cui addensamenti o sospensioni, rispondenze foniche o dissonanze, simmetrie di accenti e battute, vanno a costituire un discorso mai asettico o astratto, ma realmente presente all’ascolto, fluidamente cantabile. Come dimostrano anche pezzi come il Trio per pianoforte o il Trittico per archi, non si tratta di sfoggio di abilità tecnica o di erudizione, ma sempre di un dire in musica. Per il Trittico s’è parlato di “neo-barocchismo” e, in realtà, c’è un evidente gusto per la manipolazione di masse sonore e per i chiaroscuri che lo avvicinano a un modus operandi tipico del periodo Barocco, ma questo modo nasce da una necessità interiore, come scrive Casella ne I segreti della giara: “per noi italiani, il cosiddetto “ritorno” al periodo aureo della nostra musica strumentale, altro non era che la rinuncia alla rigida forma beethoveniana, alle facili seduzioni del poema sinfonico, alla inconsistenza dell’impressionismo, ripristinando in luogo di queste dottrine antiche discipline strumentali polifoniche nostre, discipline che tuttavia non erano un fine, ma un mezzo per ritrovare con risorse attuali l’antica e mirabile e così sciolta e libera discorsività della musica”.

Classicismo e pre-classicismo vengono uniti in nome della cultura musicale italica, dove gli oggetti sonori vengono scanditi con rilievo nello spazio musicale, come corpi scolpiti a tutto tondo, eppure ricchi di colori e fantasie, di espressività calda e nitida, mediterranea, ben diversa da ciò che Casella chiama la “rigida forma” di provenienza tedesca. Storicamente, in Italia, anche le tecniche più meccaniche e intellettualistiche sono state ammorbidite a fini discorsivi, fantasiosi e lirici, è ciò che Donata Bertoldi (2) chiama “sonatismo latino” e che, negli anni Quaranta del Novecento, lo si riscontra nella morbida adozione della dodecafonia da parte di Dallapiccola.

NOTE
1) Cfr. Ottavio DE Carli, Franco Margola, catalogo delle opere, Fondazione Civiltà Bresciana, Brescia 1993.
2) Cfr. Donata Bertoldi, Boccherini, Edizioni dell’Erba, Fucecchio (Fi) 1994.

Da Renzo Cresti, Franco Margola, Miano, Milano 1994. Nella stessa Collana Linguaggi della musica contemporanea, diretta da Renzo Cresti, anche Franco Margola nella critica italiana, 1996. Cfr. anche, Franco Margola: la musica come disciplina interiore, Rivista “Angeli e poeti” n. 1, Miano, Milano 1999.

Indice del libro Franco Margola

Al di là delle metodologie antiche
La Generazione dell’Ottanta e oltre
Opere giovanili e stilemi caratteristici
La forma come viatico dell’espressione
Cauto avvicinamento alla dodecafonia
La scelta di rimanere se stesso
L’attività didattica
Notizie biografiche
Catalogo delle composizioni

Indice de libro Franco Margola nella critica italiana

Le prime recensioni
Considerazioni stilistiche
Le fortune critiche
Il periodo di silenzio della critica
Scritti di Margola
Bibliografia

Alla cara memoria di Niccolò Castiglioni

http://www.associazionefrancomargola.it/franco%20margola.htm

http://www.renzocresti.com/dettagli.php?quale=3&quale_dettaglio=91

Niccolò Castiglioni post 2 | controappuntoblog.org

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