Aki Kaurismäki : L’uomo senza passato ed altro di Kaurismäki

Il magico mondo di Kaurismäki

Il viaggio del regista finlandese tra sfortunati e perdenti, da Nuvole in viaggio a L’altro volto della speranza

di Giulio Nassi, 18 giugno 2017 13:34 | c 0

«Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire». Si esprimeva così il sociologo ebreo di origine polacche Zygmunt Bauman, scomparso nel gennaio 2017, nel suo libro La società sotto assedio. Le parole di Bauman riassumono perfettamente le problematiche europee e mondiali degli ultimi anni. Ogni mese sulle coste italiane sbarcano migliaia di migranti (si prevede che nel 2017 ne arriveranno 250mila), molti dei quali, soprattutto i richiedenti asilo politico, diretti verso la Scandinavia. Nel 2016 la Finlandia ha iniziato ad adottare misure restrittive nei confronti dei richiedenti asilo, arrivando a dichiarare che Afghanistan, Iraq e Somalia sono nazioni sicure. È in questa burrascosa atmosfera sociale e politica che nasce L’altro volto della speranza di Aki Kaurismäki. Il cinema del regista finlandese si è sempre occupato di tematiche sociali, raccontando storie di uomini e donne in difficoltà con uno stile personalissimo, fatto di dialoghi laconici e immagini pittoresche. Il suo esordio alla regia è datato 1983 con il film Delitto e castigo, adattamento contemporaneo del romanzo di Dostoevskij, dove si possono già individuare elementi stilistici che ritroveremo in tutti i suoi lavori successivi. È però con Calamari Union (1985) e Ariel (1988) che Kaurismäki inizia a farsi conoscere e acquistare consensi nei cineclub e cinema d’essai. In Ariel, tramite lo sguardo di Taisto (minatore in Lapponia licenziato per esubero del personale), mostra la crisi economica finlandese degli anni ottanta. Il film è il secondo tassello della cosiddetta “Trilogia dei perdenti”, iniziata con Ombre nel paradiso (1986) e conclusasi nel 1990 con il desolante La fiammiferaia. Nello stesso anno il regista girerà anche Ho affittato un killer, nel quale un immigrato francese che vive in Inghilterra (interpretato da Jean-Pierre Leaud) viene improvvisamente licenziato e abbandonato nella sua disperata solitudine, fino alla decisione di ingaggiare un killer per togliersi la vita. Kaurismäki ambienta la storia in squallidi locali di periferia, utilizzando la commedia per riflettere sugli effetti della politica liberista della Thatcher nella Londra degli anni ottanta.
In “Ho affittato un killer” Kaurismäki ambienta la storia in squallidi locali di periferia, utilizzando la commedia per riflettere sugli effetti della politica liberista della Thatcher nella Londra degli anni ottanta

Seguiranno Vita da bohéme, che in un bianco e nero ad alto contrasto mette in scena le vite di Marcel (scrittore parigino), Rodolfo (pittore albanese) e Schaunard (musicista irlandese) nella capitale francese, e nel 1994 Tatjana e Leningrad Cowboys Meet Moses (sequel di Leningrad Cowboys Go America del 1989), che racconta il ritorno in Russia di uno stravagante gruppo musicale dopo il crollo del Muro. Del 1996 è invece Nuvole in viaggio, primo capitolo della trilogia dedicata alla Finlandia, seguito nel 2002 da L’uomo senza passato (che lo consacrerà a livello internazionale) e Le luci della sera (2006). L’uomo senza passato, dopo aver vinto il Grand Prix della Giuria e la Palma alla migliore attrice per Kati Outinen a Cannes, ricevette la nomination all’Oscar per miglior film straniero. Kaurismäki tuttavia non si presenta alla cerimonia affermando (poche ore dopo l’attacco delle forze Usa su Bagdad) che non avrebbe potuto festeggiare mentre il governo statunitense stava «preparando un crimine contro l’umanità per puri interessi economici». Nel 2006, invece, fu lo stesso Kaurismäki a ritirare Le luci della sera da candidato finlandese per gli Oscar, in corsa per la nomination a Miglior film straniero. Il 2011 è l’anno di Miracolo a Le Havre, film poetico sull’immigrazione che fece applaudire e commuovere il pubblico di Cannes. Il tema dell’immigrazione è onnipresente nella filmografia di Kaurismäki, ma è con i suoi ultimi film che acquisisce il ruolo di assoluto protagonista. In un’intervista rilasciata pochi giorni prima dell’uscita del film, il regista asserì che Miracolo a Le Havre sarebbe stato il primo capitolo di una trilogia ambientata in città portuali e che per girare il secondo avrebbe aspettato almeno cinque anni. Kaurismäki è stato di parola e nel 2017, il secondo film, L’altro volto della speranza, è stato presentato al festival di Berlino e ha vinto l’Orso d’argento per la miglior regia in una premiazione in cui il regista, in evidente stato di ebrezza, ha costretto il direttore della Berlinale a scendere in platea per consegnargli il premio, disertando successivamente la conferenza dei premiati. Miracolo a Le Havre e L’altro volto della speranza rappresentano i primi due capitoli della “Trilogia delle città di mare” e presentano caratteristiche speculari, sia nella trama che nello stile di Kaurismäki, che non si limita solo a filmare la società in cui viviamo, ma inserisce sempre quel tocco in più, autobiografico, soggettivo e appassionato, come la continua presenza di gruppi che suonano, jukebox e alcol, tanto alcol (pub e bar, presenti in almeno una sequenza di ogni suo film, sono i luoghi prediletti dal regista anche nella vita quotidiana). Questi elementi sono tutti riscontrabili nel L’altro volto della speranza, che riflette sulla delicata situazione politica europea e sulle difficoltà dei rifugiati. In un’intervista al Festival di Berlino ha dichiarato: «Io considero il maltrattamento dei migranti e dei rifugiati un crimine contro l’umanità. Nei secoli passati l’Europa era il cuore della cultura dell’accoglienza, oggi è un covo di criminali che stanno distruggendo le democrazie».
«Io considero il maltrattamento dei migranti e dei rifugiati un crimine contro l’umanità. Nei secoli passati l’Europa era il cuore della cultura dell’accoglienza, oggi è un covo di criminali che stanno distruggendo le democrazie»

L’altro volto della speranza ha inizio nel porto di Helsinki dove Khaled, giovane rifugiato siriano, è riuscito ad arrivare clandestinamente a bordo di una nave carica di carbone. Dopo essersi visto negato il diritto di asilo dallo stato finlandese, il ragazzo è in attesa di essere rimpatriato ad Aleppo. Wilkstrom è un commerciante di camicie in crisi di mezza età che, dopo aver lasciato la moglie, decide di abbandonare la sua attività e di rilevare un ristorante di periferia con dei soldi vinti al poker. Khaled, dopo essere fuggito per evitare l’espulsione, incontra Wilkstrom che lo assumerà nel suo ristorante e lo aiuterà a ritrovare sua sorella. La storia del film ha un tono favolistico, il modo in cui Wilkstrom vince la partita a poker e come Khaled riesce ad evitare l’espulsione sono filmate in maniera volutamente irreale. La novella di Kaurismäki però, come le più classiche favole, non è composta solo da buoni disposti a soccorrere e aiutare i più deboli, e quindi non mancano personaggi malvagi come il gruppo di skinhead che intimidiscono, picchiano e accoltellano Khaled. Il regista, grazie soprattutto all’uso di luci e colori sospesi, racchiude la storia in uno spazio senza tempo, riuscendo a raccontare la contemporaneità servendosi di elementi del passato. Nel film vi sono continui elementi anacronistici: l’abbigliamento dei personaggi, le ambientazioni e soprattutto la strumentazione tecnologica. Il mondo mostrato da Kaurismäki è straniante per lo spettatore, lontano dalla nostra quotidianità. Ma è proprio in questo mondo favolistico e irreale che il maestro finlandese riesce a raccontare la contemporaneità, mostrando drammi, difficoltà e sofferenze. Nei suoi film la parola molto spesso risulta superflua, la forza espressiva delle immagini e la bellezza delle inquadrature trasmettono quel senso di solitudine e disagio senza bisogno di alcun elemento aggiuntivo.
Ogni sequenza dei film di Kaurismäki, che puntualmente si chiude con una dissolvenza in nero, potrebbe essere un paragrafo di un capitolo e ciascun film potrebbe essere il capitolo di un’unica storia

Ogni suo lungometraggio indaga una sfaccettatura diversa della società, la stessa problematica da un punto di vista differente ma anche un problema diverso dallo stesso punto di vista. Ogni sequenza dei suoi film, che puntualmente si chiude con una dissolvenza in nero, potrebbe essere un paragrafo di un capitolo e ciascun film potrebbe essere il capitolo di un’unica storia. Con L’altro volto della speranza Kaurismäki scrive un altro pezzo di storia, uno dei capitoli più belli della sua filmografia. Un regista capace di interrogarsi e di proiettare sullo schermo la realtà quotidiana in maniera originale e soggettiva. Come diceva Alexandre Astruc (nell’articolo “Naissance d’une nouvelle avant-garde: la camérastylo” del 1948), il regista deve rappresentare (scrivere sulla pellicola) il suo mondo mentale tramite la cinepresa, così come scrittori e poeti raccontano tramite la penna e il mondo di Kaurismäki è così personale che lo spettatore spesso non riesce a capire se sia più giusto indignarsi o essere felici (nel film in uno scambio di battute tra Khaled e Mozdak il primo esclama: «Non ho ancora capito se devo ridere o piangere»). Questa inadeguatezza è causata da quello che potremmo definire “Effetto Kaurismäki”, una situazione sospesa tra mestizia e allegria dove risulta sfuggevole ed evanescente una distinzione. Con L’altro volto della speranza Kaurismäki ha fuso tante tematiche care al suo cinema, il dramma dell’immigrazione, la solitudine, il razzismo, il lavoro e la tolleranza delle persone. Nella pellicola Khaled non viene mai percepito come una minaccia, non si parla mai né di Isis né di terrorismo, il giovane ragazzo siriano viene raccontato come un profugo a cui è stato negato il diritto d’asilo alla ricerca di quello che resta della sua famiglia. Il cineasta finlandese affronta la contemporaneità in modo inconsueto, riponendo fiducia nella magnanimità dei cittadini sempre più convinto, come ha affermato al Festival di Berlino, che lo scopo del cinema sia quello di cambiare il mondo. Peter von Bagh, critico cinematografico e amico (nonché connazionale) del regista scomparso nel 2014, al quale è dedicato il film, scriveva: «Kaurismäki ha descritto una Finlandia marginale, un mondo di sfortunati e di perdenti, di cui coglie la luce magica, la sofferenza autentica, la compassione profonda, e l’umorismo, con un fantastico senso dello stile».

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L’uomo senza passato

di Aki Kaurismäki

drammatico, Finlandia (2002)

È notte. Su un treno, un uomo prepara una sigaretta per poi accenderla, guardandosi intorno, mentre il vagone continua a sferragliare chissà dove, su un fondale nero pece. Terminato il viaggio, con la valigia in mano, si appoggia stanco su una panchina e si assopisce, mentre le luci di Helsinki baluginano in lontananza. Nel sonno, la sventura: una banda di giovani delinquenti lo atterra a bastonate per sottrargli pochi quattrini dal portafoglio e qualche cianfrusaglia dalla borsa. Il giorno dopo, all’ospedale, lo straniero è dato per morto. Il tempo di uno stacco e si rialza dal lettino, si allontana; la testa è un gomitolo di bende. Altro stacco, e giace sulla riva di un fiume. Un vagabondo del posto lo osserva respirare, per poi aiutarlo a rialzarsi e ospitarlo nel suo tugurio, regno di una moglie premurosa e autoritaria. Nel giro di qualche giorno il disgraziato si rimette in forze, ma senza più memoria del suo passato. Sconosciuto a se stesso (e agli spettatori che del lui-che-fu ricordano solo quella tabaccata e quello sguardo fugace), senza disperarsi, sceglie saggiamente di restare tra gli ultimi, e tra gli ultimi di rifarsi una vita.

Tracciato con la solita, concisa raffinatezza, l’incipit del capodopera di Aki Kaurismäki introduce, in compendio, tutte le qualità espressive dell’autore che, in ogni caso, è sempre rimasto fedele alle proprie personalissime forme d’interpretazione della realtà. E non importa se impegnato in atipiche trasposizioni di capolavori letterari (“Delitto e castigo”, “Amleto si mette in affari”, “Vita da bohème”), ritratti più lividi e sfiduciati (“La fiammiferaia”), spassosi road movie musicali (i due “Leningrad Cowboys”, ma anche “Calamari Union”), libere reinterpretazioni del cinema muto o del noir (“Juha”, “Ho affittato un killer”) o ritratti sociali pronti a trasfigurarsi in resoconti esistenziali di irripetibile potenza intimistica (“Nuvole in viaggio”, “Le luci della sera”, “Miracolo a Le Havre“): lo sguardo del Nostro resta sempre lo stesso, coerente e inossidabile.
Se però esiste un’opera-manifesto del Kaurismäki touch, questa è proprio “L’uomo senza passato”. È in essa che, calibrate, convergono tutte le anime del Finlandese.

Il silenzio, la solitudine, la morte. Com’è evidente, i risvolti delle storie di Kaurismaki hanno uno stampo tipicamente nordico. Eppure i ruoli che i temi costeggiati rivestono nel funzionamento narrativo dei lavori del regista e in particolare del film in analisi, sono tutt’altro che abituali.
Definitivo congedo dall’esistenza e immutabile punto d’arrivo, la “morte” del protagonista, dichiarata dai medici, diventa qui motore del racconto e, coincidendo con la rottura di ogni vincolo (geografico, affettivo, psicologico) col passato, libera il personaggio da un vivere inautentico e dalle briglie di una (sapremo in seguito) triste condizione familiare, per gettarlo in una mite e solitaria indigenza. In questo limbo senza memoria, la povertà e la solitudine, anziché produrre depressione e isolamento, paradossalmente legano i personaggi, e da emergenze si trasformano in sentimenti “comunitari”. Alla mensa dell’Esercito della salvezza, tra le lamiere dei container fatiscenti, o durante i torpidi movimenti dei tanghi finlandesi, si è soli insieme. E per il pianto o l’autocommiserazione non c’è spazio, né motivo.

Allora è con massima cautela che bisognerebbe avvicinarsi a “L’uomo senza passato” pensando a un Kaurismaki “proletario” o “realista”. Il regista, certamente vicino al socialismo ed estimatore del neorealismo italiano, si mantiene lontano da entrambe queste fonti, sia in teoria (non c’è l’ombra di fini politici e tantomeno rivoluzionari) che in pratica (al bando qualsiasi drammatizzazione della sofferenza sociale). Al contrario, utilizza questi spunti come bagaglio di suggestioni, per raccontare e identificarsi in vissuti ancorati a realtà socialmente marginali e per questo vicini alla sua poetica.
La marginalità, nell’economia kaurismäkiana, diventa infatti una condizione morale quasi benigna, il retroterra privilegiato non solo di relazioni autentiche e rapporti schiettamente solidali, ma anche di un’indole più pura e profondamente contemplativa. In quest’ottica andrebbe riletto lo spoglio “minimalismo” che permea la pellicola, perfetta adesione estetica a una radicata convinzione etica. Ed è sempre in quest’ottica che la storia d’amore tra M e Irma, principale punto di svolta narrativo, acquisisce un’importanza quasi “epica”. Essa, fondata su una continua laconicità e una reciproca contemplazione, privata di quei gesti e di quelle parole che solitamente rientrano nelle grammatiche amorose, da semplice infatuazione diventa una salvifica “affinità elettiva”, in cui ogni gesto, per quanto impacciato, dichiara affetto e nobiltà d’animo. Quindi – sembrerà ossimorico – ma è proprio la surreale e ghiacciata fissità della messinscena la via maestra verso il cuore “caldo” e chapliniano de “L’uomo senza passato” e di tutto il cinema di Kaurismaki.

La sospensione grottesca (se non proprio “alcolica”) di ogni sequenza, le improvvise dilatazioni del ritmo narrativo, i serafici e assurdamente letterari scambi di battute, lo straniamento bressoniano delle interpretazioni (perché “tutti i sentimenti possono essere espressi solamente con il sopracciglio destro” [1]), il nitido e cartoonesco tono pastello della fotografia del fido Timo Salminen, il montaggio frastagliato e parlante creano un inconfondibile impasto atmosferico che svela l’anomalo umanesimo del suo autore.
Per non parlare, poi, della banda sonora che, montata – come il regista suole fare [2] – quasi estemporaneamente, a postproduzione terminata, commenta “in diretta” la colonna visiva, senza preoccuparsi di un’omogenea sincronia, ma traducendo piuttosto il senso autentico delle immagini. Così le musiche non servono d’ausilio al racconto ma zampillano fuori e dentro i confini diegetici per scandire e glossare, spesso ironicamente, le sventure del protagonista.

Dopo un flusso ininterrotto di panorami vagamente hopperiani (alcuni dei quali non troppo distanti neppure dalle composizioni raggelate di Roy Andersson), abitati da corpi flemmatici e sproporzionati, e di spigolosi primi piani da cui si affacciano figure asimmetriche, il punto d’arrivo torna paradossalmente a coincidere con quello di partenza. Questa volta, però, l’amnesia non è più un drammatico capriccio del caso, ma una scelta serena e consapevole: accantonare un passato dimenticato, anche dopo la sua riscoperta, per progettare, finalmente, un futuro.
Un lieto fine, dunque? Forse, ma non inequivocabile. [3] L’immagine di M e Irma che si allontanano, fianco a fianco, mano nella mano, è un sigillo di palese romanticismo, non necessariamente roseo: più che aver fiducia in un avvenire che resta ignoto, si può gioire per uno spirito rigenerato e uno sguardo riaperto al presente. E così rinascere una volta per tutte.

[1] Dall’intervista contenuta in “Aki Kaurismaki”, Bergamo Film Meeting, 1990 (ripresa nell’antologia “Miracolo Kaurismäki”, Feltrinelli, 2012)
[2] È Kaurismäki stesso a spiegare che l’assemblaggio dei brani avviene “all’ultimo, quando il film è stato montato e il tecnico ha preparato la colonna sonora. […] Di solito durante questa fase lavoro in Svezia e allora un giorno prima mi fermo davanti a un negozio di dischi, compro questo e quello; poi durante il missaggio il tecnico lascia aperto un canale per me e io ascolto la musica mentre scorrono le immagini e i dialoghi e mi faccio un’idea di dove potrebbero andare bene i pezzi.” (tratto da “Aki Kaurismäki”, op. cit.)
[3] “Un happy end che non consoli la “malora” a cui si oppone è già inusuale, ma un happy end che non consoli, consolando è Kaurismäki” (C. Fausti, da “Close Up”, anno 1997, vol. I,2)

di Vincenzo Lacolla

http://www.ondacinema.it/film/recensione/uomo_senza_passato.html

 

Ariel di Aki Kaurismäki

http://www.controappuntoblog.org/2017/02/19/ariel-di-aki-kaurismaki/

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