Silvano Arieti “IL PARNAS” by freniszero e ottima trasmissione di WIKIRADIO 3 pdcast

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l 15 luglio del 1938 fu pubblicato il Manifesto della Razza, <<una dichiarazione resa, sotto l’egida del governo, da scienziati ritenuti eminenti,

i quali affermavano che gli ebrei non appartenevano alla razza italica e dovevano essere discriminati>>. La citazione proviene da un libro autobiografico  scritto da uno dei tanti, troppi italiani che avrebbe subito quei provvedimenti razzisti che di lì a poco il governo fascista si approntava a varare. Si tratta di Silvano Arieti, eminente psichiatra e psicoanalista di origini ebraiche, nato a Pisa nel 1914, che a seguito di quei provvedimenti decise di emigrare negli Stati Uniti. Il libro di memorie si intitola “Il Parnas” e fu pubblicato nel 1980 da Arnoldo Mondadori Editore. Il parnas, parola sefardita che significa ‘capo’, è il protagonista del libro: Giuseppe Pardo Roques. Uomo di interessi culturali vasti e moderni (era stato lui stesso a far conoscere Freud ad Arieti), aveva una religiosità profonda che gli fu di conforto nella decisione di rimanere a Pisa e di non emigrare altrove. Il “Parnas” è una storia di un personaggio dominato da una paura  (Roques  aveva una grave sindrome fobica nei confronti di qualsiasi animale), ma che riesce a sconfiggere la paura per la propria sopravvivenza nel momento di più grave pericolo per la propria vita. E’ il 31 luglio 1944. La parte nord di Pisa, dov’è la casa di Roques, è ancora in mano ai tedeschi; di là dall’Arno la città è già stata liberata dagli Alleati. Il parnas sarà massacrato durante la mattina del 1° agosto insieme a sei ospiti ebrei, che avevano trovato rifugio nella sua casa , ed alle domestiche cristiane.

Riproponiamo su questa rivista il capitolo del libro in cui viene rievocato quell’infame 15 luglio 1938, di cui ricorrono i settanta anni. I protagonisti di questo capitolo sono gli ospiti di Roques che troveranno con lui la morte nel massacro del 1° agosto 1944.

Giuseppe Leo

Riproponiamo su questa rivista il capitolo del libro in cui viene rievocato quell’infame 15 luglio 1938, di cui ricorrono i settanta anni. I protagonisti di questo capitolo sono gli ospiti di Roques che troveranno con lui la morte nel massacro del 1° agosto 1944.

Giuseppe Leo

“IL PARNAS”

di Silvano Arieti
Ernesto fu l’ultimo degli ospiti a ritirarsi; i primi ad andarsene a letto furono Teofilo e Ida. Si sentivano esausti. Teofilo appariva cupo, brontolava. <<Stiamo invecchiando, Ida>>, disse alla moglie. <<Questi dovrebbero essere i nostri anni di riposo. Ho settantotto anni, io, e ho sempre aspettato il momento di celebrare il mio ottantesimo compleanno. Pensi che ce la farò?>>.

<<Ma certo>>, assicurò lei.

<<Anch’io l’ho sempre pensato. Ne ho viste tante in vita mia, proprio tante, ma mai come quelle cui stiamo assistendo in questi anni.

<<L’altra notte ho fatto un sogno. Me n’ero dimenticato, ma m’è tornato alla mente tutt’a un tratto, questa sera, mentre ascoltavo Angelo. Farò meglio a raccontartelo prima che ci mettiamo a dormire, perché ho come il timore che il sogno possa tornare se non ne parlo. E temo anche di scordarmene se non lo riferisco subito>>.

<<Che hai sognato?>>

<<Ero di nuovo un giovane contabile. Non so in quale ditta lavorassi, comunque stavo preparando il bilancio. Questo era complicatissimo, avevo l’impressione di non riuscire a venirne a capo. Addizionavo e addizionavo, sottraevo, dividevo, moltiplicavo, e il risultato era sempre zero. Sono andato dal principale e gli ho detto: “come è possibile? Ho addizionato e sottratto, moltiplicato e diviso queste cifre, e il risultato è sempre zero”. “Non conosci l’algebra!” ha preso a gridare il principale furibondo. “Addizioni e sottrai ciò che hai fatto,  e il risultato non può che essere zero, zero, sempre zero, un enorme zero!” Vedevo zeri tutt’attorno  a me, e mi sono svegliato in preda al panico. Ti ho guardato. Sono stato lì lì per svegliarti, ma poi mi sono riaddormentato. Oggi avevo dimenticato completamente il sogno, finché non è comparso Angelo Luzzatto.  Doveva proprio venire a gettare lo scompiglio in persone più vecchie e più giudiziose di lui? Se Angelo ha ragione, corriamo un pericolo mortale. E abbiamo un bell’addizionare e sottrarre nelle nostre vite: la conclusione sarà ben presto uno zero>>.

<<Non essere sciocco, Teofilo>>, lo rimbrottò la moglie.

<<Gli zeri che vedevi in sogno sono i meravigliosi zeri di Leonardo Fibonacci, quelli che fanno le migliaia, i milioni, i miliardi, i trilioni. Non è possibile che quel giovane impulsivo sconvolga gente come noi, che ne ha viste di cotte e di crude. Te l’ho detto, non ci accadrà nulla, e la prova è che niente finora è accaduto. Non lo sai chi è qui, vicino a noi, in un’altra stanza? Il parnas, e dove si trova lui nulla può accadere che si concluda in uno zero. Qualunque cosa accada, sarà importante. Da’ retta a me, caro Teofilo: Pardo non è come noialtri. Lui prega per noi, lui ci protegge. Ancora due anni, Teofilo, e la tua età sarà premiata con un otto che avrà accanto un magnifico zero.>>

Teofilo indirizzò alla moglie un sorriso di gratitudine. Poi la baciò, con la certezza che di lì a poco ambedue si sarebbero addormentati in santa pace.

Accanto alla loro c’era la stanza di Cesare, il figlio, che aveva voluto restare vicino ai genitori pur avendo quarantanove anni. Anche Cesare stava cercando di decifrare gli eventi della giornata. Era immerso in riflessioni, benché si sapesse incapace di ragionamenti profondi. Si era sentito dire di continuo che da bambino aveva avuto la meningite e che il suo cervello ne era rimasto leso, cosa del resto vera; ricordava infatti che da piccolo era stato come gli altri ma che, dopo la malattia, le cose erano cambiate: i compagni di scuola lo lasciavano in disparte, come se lui non contasse più niente, e tutti parevano non voler avere a che fare con lui, eccetto quelli di casa Pardo.

Cesare non riusciva a capire che cosa stesse accadendo. Che fosse a causa della sua malattia?  Ma neppure gli altri sembravano capirci qualcosa.  Tutto era così confuso, tutto così sottosopra! Che cos’era quella guerra di cui la gente non faceva che parlare? Perché tante case venivano distrutte, tanta gente ferita, deportata, uccisa? Che significava essere ebrei, essere ariani, essere fascisti, nazisti, inglesi, americani? Che cos’era in ballo? Forse, se non fosse stato malato, sarebbe riuscito a capire. Eppure, sembrava così logico, a una persona come lui, che quelle cose non dovessero accadere. Desiderava stare accanto ai genitori, ma molte volte non capiva neppure loro. Oh, quanto sarebbe stato meglio se fosse stata lì sua sorella Lucia! Di tanto in tanto sentiva quel che diceva lo zio Dario: perché non lo lasciavano più lavorare come medico? Che cosa aveva a che fare l’essere ebreo con l’esercizio della medicina? Perché adesso Pisa era tagliata in due? Su una riva dell’Arno gli americani, sull’altra i tedeschi. I bei ponti, tutti saltati; nessuno poteva più attraversare il fiume. Chissà se dopo la guerra ne avrebbero costruiti altri? Cesare sperava proprio di sì. Casa sua era dall’altra parte dell’Arno. Oh, se desiderava che ricostruissero i ponti! Voleva tornare a casa. I ponti, i ponti! Meno male che su questa riva del fiume c’era il signor Pardo.

La stanza accanto a quella di Cesare era occupata dallo zio Dario, e anche questi non faceva che rimuginare. Il passato sembrava così lontano e tranquillo, così privo di fratture a paragone del presente, compresa la minacciosa calma di quella notte. E dalla bellezza del passato, una bellezza quasi amorfa, riemergevano episodi, ed erano come paurose forme diaboliche. Uno era quello del giorno in cui aveva lasciato l’ospedale. L’avevano convocato in municipio, e senza peli sulla lingua gli avevano imposto la scelta: iscriversi al partito fascista o dare le dimissioni.

<<Ma che cosa ha a che fare con la medicina l’appartenenza a un partito?>>  aveva chiesto Dario. Sia il podestà che il prefetto e l’assessore alla sanità avevano fatto orecchie da mercante quand’era andato a parlarne con loro, limitandosi a ripetere la stessa formula: <<Tocca a voi scegliere>>. Allora Mussolini voleva che tutte le persone di una certa importanza prendessero la tessera del fascio; gli intellettuali venivano esortati a iscriversi, e ancora non aveva importanza se si era cristiano o ebrei. Non era mancato, neppure tra gli stessi ebrei, chi aveva detto a Dario in confidenza: <<Siamo in una posizione delicata. Costituiamo una minoranza così esigua, qui in Italia, che non possiamo non mostrarci solidali col governo, sia pure fascista>>. Ma Dario non ne era convinto, riteneva suo dovere mantenersi fedele ai propri principi. Altrimenti, che cosa rimaneva? E così era stato cacciato dall’ospedale, senza dover aspettare che gli toccasse la sorte degli altri ebrei iscrittisi al fascio e che erano stati epurati quando il governo aveva optato per l’aperto antisemitismo. Sapeva di aver preso la giusta decisione, ma a che prezzo! Era affezionato all’ospedale: amava l’edificio, gli arredi, i letti, le monache addette alle corsie, l’odore dei medicinali, gli uffici. Tutto, là dentro, era stato oculatamente progettato e organizzato da lui, ed eccolo ora costretto ad andarsene.

Dario continuava a macinare pensieri, ed ecco tra gli altri, molti ricordi emergere, atroce quello di una data abbastanza recente: l’infame 15 luglio 1938, quando aveva comprato un giornale e lì, stampato a caratteri cubitali, stava il Manifesto della Razza, una dichiarazione resa, sotto l’egida del governo, da scienziati ritenuti eminenti, i quali affermavano che gli ebrei non appartenevano alla razza italica e dovevano essere discriminati. Ricordava perfettamente la vuota retorica del Manifesto, soprattutto il paragrafo 9, il peggiore: <<Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria, nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato al di fuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agi Italiani>>.

Aveva subito mangiato la foglia: quello era il principio della fine per gli ebrei d’Italia! Il cosiddetto Manifesto era una presa di posizione pseudoscientifica destinata a giustificare il governo fascista per aver adottato, sull’esempio dei nazisti, le <<Leggi di Norimberga>>. E Dario non era rimasto sorpreso: non si era mai fatto illusioni sui fascisti. Ma chi erano quegli storti pagliacci camuffati da scienziati capaci di firmare un documento così risibile? Chi, in nome della scienza, si apprestava a patrocinare una vasta ondata di persecuzioni? Dario aveva dato una scorsa ai nomi dei firmatari: Lino Businco, Lidio Cipriani, Leone Franzi, Guido Landra. Nomi di illustri sconosciuti, che non dicevano niente.

Aveva continuato a leggere, e gli era toccato uno dei più grossi traumi della sua vita: tra le altre firme, era quella di Nicola Pende, il notissimo medico, il celebre endocrinologo tanto ammirato da Dario che si era recato a Genova per ascoltarne le lezioni, di cui con tanta avidità aveva letto e studiato gli scritti. Come poteva Pende firmare quella vergognosa dichiarazione? Forse Mussolini aveva aggiunto il suo nome all’elenco senza prima interpellarlo? Improbabile. Pende doveva aver acconsentito, sia pure con riluttanza. Forse l’aveva fatto per paura, forse perché aveva ceduto al diabolico fascino del potere. Ma non si era piegato Dario Gallichi.

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Ripensava a quanto aveva detto agli ospiti quella sera a cena, che l’ospedale era il posto dove più gli sarebbe piaciuto ritornare alla fine della guerra; e aveva soggiunto che tutto sarebbe tornato come prima, come se niente fosse accaduto. Si abbandonò a quella fantasia: gente che in quel bellissimo giorno gli sorrideva senza dir nulla, e si comportava come se nulla fosse accaduto, e l’infermiera che sempre aveva lavorato con lui sarebbe andata a prendergli il camice con il suo nome ricamato, e gliel’avrebbe porto… Proprio come se niente fosse accaduto.

Ma non era neppure escluso che i medici, le infermiere, i portantini e i pazienti gli corressero incontro, applaudendolo freneticamente. Il gelido silenzio di tanti anni sarebbe stato finalmente infranto, e quel giorno le suore avrebbero persino permesso che si facesse un po’ di musica. La madre superiora avrebbe fatto uno strappo alle regole, avrebbe persino ballato con lui. Sarebbe stato davvero possibile?

Quale delle due soluzioni era la più allettante? Forse la prima era la più eloquente, con tutti quei gesti compiuti in silenzio, ma la seconda … E a questo punto, come se si scuotesse da un sogno, Dario si rese conto che nessuna delle due si sarebbe avverata. Com’era spaventosa la realtà senza il soccorso della fantasia! Sarebbe mai tornato all’ospedale? Era quello il luogo dove voleva vivere, e quando la morte sarebbe sopraggiunta, lì intendeva spirare. Rivolse a Dio una preghiera: <<Fammi tornare all’ospedale, fammi essere all’ospedale il giorno della mia morte>>.

Accanto a quella di Dario, si trovava la camera da letto dei Levi. Quando Ernesto vi entrò, trovò Cesira addormentata, ed evitò di far rumore per non svegliarla. Com’era bella nel sonno, più bella adesso di quand’era giovane. E quanto tranquillamente riusciva a dormire! Una donna davvero meravigliosa. Certo, aveva avuto un momento di debolezza a Genova, il giorno in cui era stata lì lì per consegnarsi ai tedeschi, ma dacché era a Pisa era stata una continua fonte di energie. Più degli altri ospiti del parnas aveva capito che cosa significasse essere sotto il tetto di questi, e ogni giorno la sua comprensione si era affinata. Lui, Ernesto, era stato più lento di Cesira nell’afferrarne il significato. La conversazione che aveva avuto dianzi con Pardo era stata un’illuminazione. sarebbe riuscito a dirlo a Cesira? Probabilmente no, ma del resto sua moglie non aveva bisogno che le cose le venissero spiattellate, lei che era capace di assorbirle come per osmosi. Ovviamente, se Cesira aveva capito, era stato in forza di ciò che da Pardo stesso irradiava. Ah, quanto aveva imparato lui dal parnas, in particolare quella sera! Sì, le due tragedie di Pardo erano entrambe <<non tragiche>>. E a questo punto, il pensiero di Ernesto corse ad Angelo Luzzatto; perché, se anche la vita di Angelo fosse finita in tragedia, sarebbe stata, pure quella, una tragedia <<non tragica>>. E allora, perché gli altri se l’erano presa con Angelo, che in fin dei conti si era mostrato pronto a combattere il male con dedizione? Angelo per lo meno tentava di mettersi in salvo. Però non era toccato dalla Shekhinà. Pardo, invece, sì.

Poi il pensiero di Ernesto corse a Silvia: le sue mille attenzioni, la fedeltà sua e quella di Giovanna e Alice. Le tre donne evidentemente si erano rese conto di quanta fosse la bontà di Pardo, ma che era altrettanto grande la sua fragilità. E a quella fragilità cercavano di rimediare con la loro propria bontà.

Anche Silvia, Giovanna e Alice si apprestavano a coricarsi. Le loro stanza si trovavano su un altro piano, ma da quando i sei ospiti si erano trasferiti in casa Pardo dormivano nella stessa camera. Giovanna, che durante la giornata si era mostrata assai poco loquace, disse rivolta a Silvia: <<Siamo tutt’e tre stanche morte. E’ stata una dura giornata. Comunque, da stamane, quand’è venuta Gilda a portarti il messaggio di sua madre, non sei più la stessa>>.

<<Sì, invece,>> ribatté Silvia <<sono solo un po’ nervosa, vorrei che i nostri vicini ci lasciassero in pace. Loro non capiscono. Io il signor Pardo non lo lascerei mai. Gliel’ho detto, a Gilda. Domani saremo liberi, e io non mi preoccuperei di certo se quella gente non continuasse a ricordarci tutti questi guai>>.

<<Neppure io lascerei mai il signor Pardo>>, assicurò Giovanna. <<Sai quanti anni io e mio marito abbiamo lavorato in questa casa? Ho perso persino il conto. Pasquino, pace all’anima sua, è diventato l’autista di casa quando cavallo e carrozza sono stati sostituiti dall’automobile, e portava il signor Pardo di qua e di là, e il signor Pardo si fidava ciecamente di Pasquino. Quando Pasquino è morto, pace all’anima sua, il signor Pardo è venuto a dirmi: “Giovanna, hai vissuto qui per tanti anni quando tuo marito c’era ancora. Se vuoi, puoi rimanere”. Non mi ha certo buttata sul lastrico, e adesso dovrei piantarlo in asso solo perché le cose vanno male?>>.

<<Dio ne guardi>>, esclamò Silvia.

<<Quando m’ha dett che potevo restare, io gli ho fatto: “Signor Pardo, sono proprio felice di quest’offerta. Però io non ce la faccio più ad aiutare Silvia da sola, e poi mi sentirei sperduta in questa casa così grande. Ho una sorella che si chiama Alice ed è sola anche lei”. E lui subito: “Dille di venire. C’è posto anche per lei, in questa casa. Magari potrà dare una mano a Silvia”.>>

Fu la volta di Alice: <<Sono stata così felice di poter vivere qui, accanto a mia sorella! Il signor Pardo è stato l’unico che mi abbia teso una mano. E potrei piantarlo in asso?>>.

<<Certo,>> disse Giovanna a Silvia <<so che sei in questa casa da molti anni, mai però tanti come Pasquino e me, eppure anche tu vuoi rimanere.>>

<<Altro che. E sai chi c’era qui prima di me? Camilla. Bene, Camilla è rimasta con questa famiglia per oltre quarant’anni, finché è morta di vecchiaia. Tutto questo pasticcio di politica mica può cambiare quello che uno prova dentro.>>

<<Il signor Pardo ha bisogno di te, lo si vede, a volte sembra un bambino che si aspetta soccorso dalla mamma>>.

<<Sì, a volte mi sembra che non sappia a che santo votarsi, e dentro di me sento che devo aiutarlo. E continuerò a farlo finché avrà vita e finché ne avrò io. E non chiedermi perché. So solo che è così, e basta. Ma certi nostri vicini, questo non riescono a capirlo.>>

<<Eh, no>>, fece eco Giovanna.

<<No, non capiscono proprio>>, ripeté Alice.

Giovanna spense la candela e aprì le finestre. Le tre donne guardarono il cielo stupendamente stellato, e la notte parve capire.

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