Friedrich Dürrenmatt : “La guerra invernale nel Tibet” ed altro di Dürrenmatt

“La guerra invernale nel Tibet”, di Friedrich Dürrenmatt (trad. di Donata Berra)

30 giugno 2017 / appuntidicarta

Intro. Va detto, occorre chiudere subito il cerchio e ringraziare gli amici della Libreria Minimum Fax, che qualche settimana fa tra un twitt e l’altro hanno avuto l’idea di consigliare “La guerra invernale nel Tibet” dello scrittore svizzero-tedesco Friedrich Dürrenmatt (Berna 1921 – Neuchatel 1990). Il racconto, uscito poche settimane fa per Adelphi, in realtà è datato 1981 ed è uno degli ultimi scritti di questo poliedrico artista elvetico, di cui nel 2015(*) sono stati ricordati i 25 anni dalla morte.

Recuperare l’opera omnia di questo filosofo, sceneggiatore, pittore, autore di radiodrammi scomodo e turbolento – i problemi di alcool cominciarono già dall’infanzia, per dire – in traduzione italiana è un po’ complicato: si va infatti dagli Einaudi di “La valle del caos” (2009) e “La visita della vecchia signora” (2007) agli Adelphi di “Giustizia” (2014) e “L’ultimo boia” (2015) passando per parecchi MarcosYMarcos (“Il Minotauro”, 1997 con testo tedesco a fronte, “Un angelo a Babilonia”, 2014), diversi Feltrinelli (“La promessa”, 2009) e altre curatele (es. Casagrande Edizioni). A parte la difficoltà nel recupero e nella scelta del materiale, è innegabile che questa dispersione non aiuti il neofita nell’identificare il punto da cui partire. E capite come questa non sia questione di poco conto, trattandosi di uno scrittore di racconti brevi, testi teatrali, romanzi a trame investigative estremamente prolifico. Questo per dirvi che io ho iniziato da qui, da “La guerra invernale nel Tibet”, solo ed esclusivamente per ragioni intuitive e personali, che poi vi spiegherò e che hanno ben poco a che fare con un ipotetico intento di avvicinamento e comprensione – metodologicamente strutturata – della vita e dell’opera di Friedrich Dürrenmatt.

“Vista sul lago di Neuchatel” – Guache su cartone 1966

“La guerra invernale nel Tibet”. Sottotitolo: il mito della caverna, Platone e le distopie apocalittiche.

“La produzione letteraria di Dürrenmatt ha come sfondo un mondo dominato da misteriose entità che si divertono a trasformare la storia in caos, la città in labirinto, la vita in avventura insensata e grottesca”

“La visione sconsolata dello Scrittore raggiunge il maximum in “La guerra invernale nel Tibet”. In questo macabro racconto egli descrive un mondo totalmente corrotto, anzi imbestiato, da una terza guerra mondiale di dimensioni apocalittiche. Si combatte in campi sotterranei e labirintici, senza sapere perché né contro chi.  

– I mercenari non sanno perché combattono, perché muoiono, amputati in primitivi lazzaretti da campo, rispediti al fronte invernale con rozze protesi, taluni con ganci e viti al posto delle mani, alcuni ciechi, la faccia ridotta a una massa di carne cruda: a un fronte che è ovunque. Sanno solo che combattono contro il nemico. (p.1091).

Così ridotto – a strumento di morte, a robot micidiale, senz’anima  – l’uomo non ha più nulla da perdere.

– Questa è la mia forza. Sono diventato invincibile. Ho risolto l’enigma della guerra invernale. (p1139) Il requiem all’uomo del ventesimo secondo non poteva avere note più acute”

Uno dei testi che mi hanno aiutato nell’approccio ai temi durenmattiani è forse un po’ agée ma è tra quelli che ho considerato più immediati, forse perché parte da un presupposto – quello dell’analisi sul divino – che permea tutta l’opera di Dürrenmatt, laico convinto. Si tratta del saggio di F. Castelli “La mia vita è una discesa nel nulla: Friedrich Dürrenmatt” apparso sul quindicinale “La Civiltà Cattolica” del 19 ottobre 1996 e che potete trovare su Google Books (menzione a parte merita lo sforzo sovrumano della digitalizzazione degli archivi della Civiltà Cattolica, questione di cui se volete potete leggere qui). Seguendo questo testo, che attraverso l’analisi cronologica delle opere Durenmattiane esplora i vari soggetti affrontati dall’autore nel corso della sua lunga vita artistica, spiccano le caratteristiche fondanti del racconto breve “La guerra invernale nel Tibet” che racchiude in sé quasi tutti i riferimenti stilistici e tematici cari all’autore. In primis, il gusto per la rappresentazione drammatica, macabra e perfino grottesca che permea quasi tutte le opere dell’autore, attraverso la quale Dürrenmatt tende a smascherare i difetti della società contemporanea e i perbenismi tipici del proprio contesto mitteleuropeo. In secondo luogo, l’utilizzo sapiente della più classica distopia post-apocalittica (la catastrofe atomica a seguito di un non ben definito conflitto mondiale), che lungi dall’indugiare in uno sterile esercizio di stile diviene il cuore pulsante di una narrazione che porta in primo piano – rispettando i dettami precisi di questo sottogenere letterario – la critica feroce nei confronti della società contemporanea.

“Ascensione nera” – Gouache su cartone 1983 (*) Il 2015 – l’”Anno di Dürrenmatt – ha visto il lancio di numerose manifestazioni volte alla commemorazione del 25esimo anniversario della morte dello scrittore. I suoi manoscritti sono conservati presso l’Archivio Svizzero di Letteratura di Berna mentre i suoi lavori artistici (circa mille tra dipinti, incisioni e disegni) dal 2000 sono depositati presso il Centro Dürrenmatt di Neuchâtel (CDN), creato appositamente dalla vedova dello scrittore ed edificato dall’architetto Mario Botta accanto alla casa dell’artista.

Centoeotto pagine da leggere e di necessità da rileggere per essere in grado di cogliere appieno tutti i diversi livelli di lettura di cui l’opera è composta e che assalgono il lettori tutti insieme, destabilizzanti. Si  va dalla sospensione del giudizio nell’accettazione del visionario distopico:

“Si spostò barcollando verso il centro della caverna e schiacciò sul ventre del mercenario appeso la punta rovente del sigaro. (…) Qui sotto soffoco. Devo tornare al fronte. Cambiammo parecchi ascensori. Il primo era sontuoso. Ci stravaccammo su un divano, alla parete di fronte era appeso un quadro: una giovane ragazza nuda a pancia in giù su un divano” (p19)

“L’annuncio secondo cui gli alleati e le armate nemiche avevano capitolato raggiunse il comandante all’Hotel delle Terme nella Bassa Engadina. Ci trovavamo nel grande salone dell’albergo, seduti in comode poltrone, attorno a noi lo stato maggiore al completo. L’alcool scorreva a fiumi. Un’atmosfera scoppiettante. Il comandante si abbandonò alla sua passione per la musica. Un quartetto suonava La morte e la fanciulla di Schubert. (…) Avevano messo a sacco St. Moritz, gli hotel di lusso bruciavano avvolti in grandi lingue di fuoco” (p53-54)

“Mentre costeggiavo la navata una gargolla si schiantò dietro di me sul lastricato (…). Intorno al fonte battesimale c’erano tre sedie, e nella vasca un piatto con una fetta di torta2 (p64-65)

all’attenzione che occorre porre come nei riguardi di un trattato filosofico, un manuale di fisica, un eserciziario di chimica:

“Le leggi a cui è sottoposta la società umana arrivo a intenderle soltanto come leggi di natura. Le leggi che il materialismo dialettico pretende di aver scoperto sono, a mio avviso, un’idiozia: come se fosse possibile descrivere una qualunque legge di natura con la logica hegeliana” (p28).

“Il moto di un singolo atomo è imprevedibile, prevedibili sono invece le stelle, in quanto istituzioni di atomi. Tali istituzioni sono sottoposte a leggi che di necessità deformano gli atomi. Allo stesso modo le istituzioni degli uomini deformano gli uomini, Lo Stato è un’istituzione degli uomini. Di conseguenza, quando rifletto sulle stelle, sprofondato nelle viscere dell’Himalaya, rifletto sugli Stati. Soltanto così, vista la mia situazione, mi è ancora possibile ragionare sugli uomini” (p30).

“Ma intendo confutare l’assunto secondo cui la terza guerra mondiale sarebbe dovuta alla mancanza di un’amministrazione in grado di impedirla. In realtà la guerra è scoppiata perché un’amministrazione non poteva ancora esistere” (p31)

“Non esiste un imperativo della coscienza, bensì un imperativo del pensiero. Coscienza e pensiero. Coscienza e pensiero sono una cosa sola” (89)

Gli echi letterari riguardo la condizione del soldato nascosto nelle profondità della montagna, in attesa dell’arrivo del nemico, sono naturalmente parecchi. Primo fra tutti il mito platonico della caverna, a cui Dürrenmatt si riferisce direttamente:

“La via che porta alla conoscenza è difficile da seguire, più difficile ancora del cammino che ho percorso da quando, in una piccola città nepalese, nudo, sono precipitato giù da una scala sdrucciolevole. Se non ci si assume il rischio dell’immaginazione, la strada verso la conoscenza è impraticabile. Così io, immerso in un buio totale, mi figuro una luce; non la luce assoluta, ma una luce che corrisponda alla mia situazione: mi rappresento dunque degli esseri umani in una caverna, fin da giovani stretti in catene per le gambe e per il collo, così che siedano immobili e possano soltanto guardare la parete che hanno di fronte. Imbracciano un mitra. Sopra di loro brilla un fuoco” (p100)

E poi cosa dire. A parte l’inequivocabile corrispondenza con il sottotenente Giovanni Drogo e la sindrome della Fortezza Bastiani – rivisitata alla luce della violenza e della modernità della guerra atomica:

“All’improvviso compresi che cosa mi mancava, da quando avevo ucciso Edinger. Il nemico – dissi lentamente. Non ho più un nemico” (p92)

a me ha colpito in particolare la questione delle scritte nella caverna. Il soldato durenmattiano, mutilato, senza gambe – uncini e armi al posto delle mani – incide e graffia la roccia nel buio del sottosuolo raccontando il lucido delirio in cui è precipitata la società post-bellica. Parole scritte l’una sull’altra che non possono non ricordare, chissà quanto coincidenza, chissà quanto convergenza evolutiva, le frasi incise all’interno della torre (e/o faro  e/o cunicolo sotterraneo) da parte del guardiano Saul Evans ormai interamente posseduto dall’entità aliena, uno dei protagonisti della trilogia dell’Area X di Jeff Vandermeer.

Nonostante la mole non indifferente dei temi trattati e il linguaggio metodologicamente affine alla discettazione filosofica, la lettura di “La guerra invernale nel Tibet” scorre veloce, grazie all’impianto distopico e all’inserimento di un punto di vista esterno e onnisciente – di cui qui non si può fare anticipazione – che mantiene alta la tensione narrativa bilanciando in maniera suggestiva e sorprendente fiction e scritto programmatico.

https://appuntidicarta.it/2017/06/30/la-guerra-invernale-nel-tibet-di-friedrich-durrenmatt/

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