Attualità! by francosenia.blog

lunedì 28 maggio 2018

Attualità!

«Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te»: è la parola d’ordine del Maggio ’68. Uno slogan che traduce perfettamente l’essenza stessa della sinistra progressista: l’idea che la lotta consista nel lasciarsi sempre alle spalle il vecchio mondo in quanto tale e correre incontro al nuovo. È tuttavia questa la prospettiva propria del socialismo? Abbracciare il mondo nuovo in quanto tale? Il mondo, ad esempio, che la sinistra liberale odierna ha già palesemente fatto suo, quello del riscaldamento globale, di Goldman Sachs e della Silicon Valley? Jean-Claude Michea prova a rispondere a questi interrogativi nelle pagine che seguono composte da scritti e interviste risalenti a periodi differenti. Il primo nume tutelare che alimenta il pensiero di Michea è, naturalmente, Karl Marx, precisamente il Marx del Capitale che svela i meccanismi della società moderna per attrezzare la lotta dei lavoratori non per abbracciare il mondo nuovo, ma esattamente per combatterlo, in quanto mondo che annuncia un’alienazione e una schiavitù senza pari. Tra i numi tutelari di Michea figurano, tra gli altri, anche l’Orwell della common decency, Marcel Mauss con la sua teoria del dono e Guy Debord con la sua critica della società dello spettacolo e della «dissoluzione di tutti i legami sociali». Numi chiamati tutti a sostenere «l’urgenza di tornare al tesoro perduto della critica socialista originaria, perché […] oggi, al tempo della globalizzazione e del liberismo trionfante, ciò che minaccia di distruggere la natura e l’umanità stessa […] è innanzitutto il continuo e dissennato perseguimento del tornaconto capitalistico». Il nostro comune nemico, da questo punto di vista, non è affatto, per Michea, il mondo vecchio che, per dirla con l’ironia propria di Orwell, non era fatto soltanto di guerra, nazionalismo e religione, ma anche di professori di greco, poeti e cavalli, ma il nuovo ordine della libertà del profitto, quella libertà che si impone quotidianamente attraverso il discorso retorico dei media e che, come scriveva Debord, si è ormai «costretti ad amare».

(dal risvolto di copertina di: Jean-Claude Michéa: Il nostro comune nemico, Neri Pozza, pagg. 256, euro 18)

Storia delle avanguardie e dell’idea di rivoluzione, e dell’alleanza che le lega fin  dall’origine, queste pagine mostrano come, prima che «artistiche», le «avanguardie» siano state esistenziali e politiche, nel senso di Rimbaud, che aveva della poesia un’idea eminentemente pratica: «cambiare il mondo e cambiare la vita». Di questo vasto programma, che ha caricato di compiti spropositati la bohème artistica e politica dalla Comune di Parigi al Maggio 68, si faranno infatti carico tutte le avanguardie del XX secolo, cultrici dello scandalo e dell’iperbole, fino all’autoscioglimento  dell’Internazionale situazionista nel 1972.
Da Blanqui al socialismo fiabesco di Fourier, da Breton a Isidore Isou, scrittore e cineasta, fondatore dell’Internazionale lettrista, da Aragon a Guy Debord, scrittore e cineasta anche lui, fondatore dell’Internazionale situazionista, fino alla gioventù metropolitana ribelle della fine degli anni Sessanta, Gabutti narra di cospirazioni reali e illusioni rivoluzionarie, di storie personali e ardite teorie dell’arte e della società, e della loro tendenza a confondersi fino all’indistinguibilità dell’una e dell’altra. Un racconto avvincente che illumina il conflitto tra arte e potere che da più di tre secoli caratterizza le società occidentali.

(dal risvolto di copertina di: Diego Gabutti, Cospiratori e poeti. Dalla Comune di Parigi al Maggio 68. Neri Pozza)

Dalla Comune al maggio ’68 Come la sinistra si è “vestita” da radical chic
I grandi movimenti storici hanno portato all’abbandono del socialismo per il mito del progresso e dei “diritti”

di Stenio Solinas

Quando il socialismo ha smesso d’essere tale ed è diventato di sinistra? Quando avviene il passaggio dall’«emancipazione sociale dei lavoratori» al progressismo che fa dei «diritti dell’uomo» l’ideologia vincente? Com’è possibile che al termine di un percorso, intrecciato quanto conflittuale, si verifichi il paradosso per cui i ricchi votano a sinistra mentre i poveri votano per l’estrema destra?
A queste domande cercano di rispondere, l’uno utilizzando la filosofia, l’altro l’arte e la letteratura, due saggi che Neri Pozza pubblica ora: Il nostro comune nemico, di Jean-Claude Michéa (pagg. 256, euro 18) e Cospiratori e poeti, di Diego Gabutti (pagg. 288, euro 13,50). Il sottotitolo del primo, «Considerazioni sulla fine dei giorni tranquilli», rimanda a quello del secondo, «Dalla Comune di Parigi al Maggio 68», perché è in questo arco di tempo, più o meno un secolo, che la grande mutazione si compie, celebra il suo trionfo, assiste poi al suo declino e si ritrova infine a contemplare, come scrive Michéa, «la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari stesse – e la dissoluzione delle loro conquiste sociali – nel moto perpetuo della crescita globalizzata, sia essa ridipinta di verde o coi colori dello sviluppo sostenibile, della transizione energetica e della rivoluzione digitale». Ovvero, per dirla con Gabutti, il lavoratore «come la sola e vera macchina», «la religione del lavoro» che «schianta l’umanità intera», i lavoratori stessi «consegnatisi di propria mano a questo destino di schiavi».
Il 1870 che segna la Comune di Parigi è dunque per entrambi gli autori la data in cui ha inizio il passaggio di consegne o, se si vuole, il momento in cui la filosofia del progresso esautora a cannonate la filosofia del sociale. Ciò che avviene, e che si fa finta non sia avvenuto, dandone cioè la colpa alla reazione sempre in agguato, è il massacro degli operai parigini a opera della «spietata volontà dei principali capi della sinistra liberal dell’epoca, da Adolphe Thiers a Jules Favre». Al tornante del secolo, l’affaire Dreyfus rafforza quello che appena trent’anni prima era stato battezzato nel sangue, ovvero il «nuovo progetto dell’integrazione definitiva del movimento operaio socialista nel campo ritenuto politicamente omogeneo della sinistra repubblicana e delle forze progressiste». Il consolidamento finale di quel progetto sarà «il contesto dell’ascesa del fascismo degli anni Trenta»…
Come scrive Michéa, in questa alleanza novecentesca forzosa e forzata fra movimento operaio e sinistra repubblicana borghese, ci sono naturalmente molte cose buone, compreso «un reale miglioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici». Solo che un tale compromesso renderà «filosoficamente complicato ogni sforzo serio da parte dei partiti di sinistra per combattere in comune – e non soltanto a parole – le radici profonde di un sistema economico e sociale che si basa fin dall’inizio sulla valorizzazione del capitale attraverso lo sfruttamento continuo del lavoro vivo, la depredazione suicida del pianeta e il regno della merce e dell’alienazione consumistica».
Una volta accettata l’idea di una crescita materiale illimitata (un controsenso in un mondo finito, va da sé) e avendo integrati i sindacati nella gestione diretta del sistema capitalistico, sempre più la sinistra orienterà la sua visione nel nome dell’individualismo egualitario dove il progresso fa rima con l’estensione dei diritti, a prescindere se quest’ultimi facciano o meno parte di una socialità di costumi, di usi, di consuetudini, di un sentimento comune, insomma. È quello che ironicamente Michéa chiama «Clochemerle ovvero la politica dell’orinatoio», rifacendosi al titolo di un fortunato romanzo di Gabriel Chevallier ambientato negli anni ’20 (Peccatori di provincia è stato il suo titolo in italiano). In esso è emblematicamente raccontato il passaggio fra l’essere socialista, ovvero la lotta contro la modernizzazione capitalistica del mondo e per una dimensione «sociale» della vita, e l’essere di sinistra, ovvero opporsi alle forze della reazione in nome del progresso… Così la giunta comunale di sinistra di quel piccolo paese, per sancire la modernità e l’evoluzione della sua amministrazione, il suo sguardo rivolto al futuro, realizzerà la costruzione di un orinatoio pubblico, «provvedimento egualitario in sommo grado», unico e per tutti. «La sinistra moderna, una volta liberata dall’ipoteca socialista, non poteva far altro che tornare ai suoi primi amori, ovvero alla politica dell’orinatoio e dei segnali simbolici di modernità egalitaria, che si tratti del matrimonio per tutti, della legalizzazione della cannabis, del voto agli stranieri o della femminilizzazione dell’ortografia. Un ritorno a Clochemerle, insomma, ma al tempo della globalizzazione liberista e della Silicon Valley». Poiché al progresso non c’è mai fine, quattro anni fa la sinistra svedese ha presentato un progetto di legge che mirava a vietare agli individui di sesso maschile di urinare in piedi, allo scopo di garantire lo stesso modello di minzione per tutti…
Rifacendosi a Proudhon come a Orwell, Michéa tiene a sottolineare che «una critica socialista del totalitarismo è esistita e ha avuto la sua nobiltà fra Ottocento e Novecento», così come fa parte di quella tradizione libertaria la convinzione che «più le decisioni che colpiscono le nostre vite quotidiane vengono prese lontano da noi, meno sono da considerarsi democratiche». Si situa qui l’ultima schizofrenia della sinistra moderna, per la quale «prossimità e autonomia locale» divengono ipso facto ripiegamento identitario e/o rifiuto xenofobo e che porta a frasi come quelle di Jean-Claude Juncker, «non ci può essere scelta democratica contro i trattati europei» o di Daniel Cohn Bendit all’indomani del referendum sulla Brexit: «Bisogna smettere di dire che il popolo ha sempre ragione». Il populismo, ieri come oggi, nasce proprio da questo, dal rifiuto di farsi espropriare del proprio diritto di scegliere come vivere, con chi vivere, in nome di cosa vivere…

Torniamo alla Comune di Parigi da cui siamo partiti, ma seguendo ora il tracciato poetico-artistico di Gabutti invece di quello ideologico-filosofico di Michéa. Su quelle barricate non ci saranno i poeti: né Rimbaud, né Verlaine, né, per cause di forza maggiore, Baudelaire, morto quattro anni prima… Ci saranno invece i conspirateurs, più o meno di professione, ovvero l’avanguardia ancora romantica di ciò che nel mezzo secolo successivo prenderà il nome di militanti dell’idea e del partito unico, i rivoluzionari come punta di lancia del proletariato. Sul perché di quell’assenza, metaforicamente parlando, di là cioè dalle contingenze e dai singoli caratteri, vale la pena interrogarsi, anche perché, come nota Gabutti, «nei decenni successivi, gli artisti parigini si sforzarono in tutti i modi d’essere presenti nei torbidi, e non solo per cantarne le gesta». È che nella bohème culturale ottocentesca seguita alla Rivoluzione francese e poi alla ascesa e caduta di Napoleone, reazionari e socialisti hanno più punti in comune di quelli che corrivamente si è portati a credere, accomunati come sono dall’odio verso lo spirito borghese e la modernità. C’è più pensiero sociale, l’attenzione agli umili, agli ultimi, ai diseredati, in Balzac, Barbey D’Aurevilly, Gautier, Baudelaire, Rimbaud che nel comunismo scientifico e proletario di Marx. E va da sé che il pensiero spesso utopico dei teorici socialisti si muove in parallelo con le paranoie elitarie e snobistiche degli alfieri della controrivoluzione, il loro gusto da taverna e da dissipazione. I primi sognano la felicità del genere umano liberato dalla schiavitù del lavoro, i secondi si accontenterebbero della propria, impossibile ormai nell’epoca delle masse, della meccanica e dell’etica borghese dei sacrifici.
Se per Michéa la Comune è il canto del cigno del socialismo, per Gabutti è «l’inizio del moderno movimento comunista»: hanno ragione entrambi, e del resto Marx vedrà con favore «la batosta» francese del’ 70: toglieva Proudhon dalla scena per lasciare solo a lui il ruolo di protagonista…
Come che sia, su quelle barricate quei poeti non salgono perché confusamente avvertono che da lì in poi la battaglia non sarà più ideale, ma ideologica: non contempla fratellanze di pensiero, ma alleanze ferree, non celebra la bohème, ma la sezione di partito. Lì dove socialità operaia e asocialità aristocratico-artistica potevano ancora convivere in odio alla borghesia, la razionalità comunista fa strame dell’una e dell’altra ed esige la più assoluta disciplina. Nel bel racconto di Gabutti, innervato da uno stile tanto proprio quanto coinvolgente, il Novecento dei poeti diventa questa cosa qui, ovvero il tentativo impossibile di mettere d’accordo l’utopia individuale e la rivoluzione. L’Ubu re di Jarry è la prefigurazione dei «processi di Mosca», noterà col senno di poi André Breton, che però in quanto padre-padrone del Surrealismo aveva fatto del suo movimento «una cinghia di trasmissione del Partito comunista francese». Se un eccitato Aragon scrive versi per esaltare la «Guépéou» e il suo «sano terrore», un mite Paul Eluard arriverà a rivedere quelli «pieni di disperazione» scritti in morte della moglie, perché «il compagno Thorez mi disse che non si deve intossicare l’anima del proletariato con la tristezza». Come osserva Gabutti, «timorosi di perdere il treno della modernità sul quale (sembrò loro di capire) viaggiavano i partiti operai, erano saltati a bordo senza biglietto; e adesso il controllore minacciava di farli scendere alla prima stazione, se non avessero pagato biglietto e multa: autocritica, addio all’individualismo e basta stranezze».
Il risultato sarà la bohème chic, ovvero la revolution maò maò e l’avant-garde in caricatura dei film di Jean-Luc Godard e in sovrappiù, tramontato il proletariato, come nuovo «soggetto rivoluzionario» e nuova star, «lo studente declassato, disprezzato, alienato e un po’ secchione della fiaba goscista». Ciò che è venuto dopo, lo abbiamo sotto i nostri occhi. Il socialismo è definitivamente scomparso e la sinistra si è fatta merce.

di Stenio SolinasPubblicato sul Giornale del 18/04/2018

http://francosenia.blogspot.com/2018/05/attualita.html

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