Pianeta Roth #3: La macchia umana by minimaetmoralia

Pianeta Roth #3: La macchia umana

di Luca Alvino pubblicato lunedì, 13 maggio 2013

Dopo la clamorosa decisione di Philip Roth di smettere con la scrittura, questa rubrica intende offrire uno sguardo retrospettivo sulla sua opera, dai grandi capolavori ai libri meno noti; l’omaggio parziale e appassionato di un lettore irrimediabilmente compromesso, ma anche l’onesto tentativo di analizzare dall’interno il segreto della sua magia, le sue contraddizioni, le doti di lealtà, ironia, umanità e sapienza letteraria: gli ingredienti che l’hanno portato a essere tra gli scrittori più visceralmente amati da due generazioni di lettori. Qui le puntate precedenti.

Nel primo capitolo de La macchia umana, Coleman Silk, settantunenne professore ebreo di lettere classiche in pensione, conduce Nathan Zuckerman a conoscere Faunia Farley, la giovane amante con cui ha iniziato un’improbabile quanto appagante relazione sentimentale. Faunia abita presso una piccola fattoria, nella quale si occupa della mungitura delle vacche; ed è proprio mentre compie questa attività che Zuckerman ha la possibilità di osservarla per la prima volta durante un tardo pomeriggio d’estate.

Oltre che dall’ancestrale sensualità della scena, Nathan viene catturato da un’intuizione folgorante: da come l’equilibrio e la pienezza di quel fenomeno che la mente umana registra come «verità» si alimenti in modo sostanziale di accidenti casuali quali l’imprevisto e la disuguaglianza; di come una banale sensazione di benessere, istintivamente associata all’idea di armonia, ponga in realtà le proprie fondamenta sul disordine e sulla diversità: «La luce e il caldo della giornata (quella benedizione), l’immutabile tranquillità della vita di ogni vacca che corrispondeva a quella di tutte le altre, il vecchio innamorato che studiava l’agilità della donna energica ed efficiente, mentre dentro di lui cresceva l’adorazione, quel suo modo di guardare come se non gli fosse mai capitato nulla di più emozionante, e anche la mia attesa compiacente, il mio stupore davanti all’enorme differenza tra quei due tipi umani, davanti alla disuguaglianza, alla variabilità, alla feconda irregolarità delle intese sessuali – e con l’ordine che ci sentivamo dare, uomini e bovini, differenziati e non differenziati, di vivere, non soltanto di resistere ma di vivere, di continuare a prendere, dare, nutrire, mungere, ammettendo di buon grado, da quell’enigma che è, l’insignificante ricchezza di significato della vita –, tutto veniva registrato come vero da decine di migliaia di piccole impressioni. La pienezza sensoriale, la copiosità, l’abbondante – sovrabbondante – minuziosità della vita, che è la rapsodia. E Coleman e Faunia, che ora sono morti, immersi nel fluire dell’inaspettato, giorno per giorno, minuto per minuto, essi stessi minuzie in quella sovrabbondanza».

L’appagante serenità di una giornata estiva, di uno spettacolo semplice e commovente come la mungitura, o quello – ancor più emozionante – di un uomo ormai anziano che ritrova per una breve stagione l’entusiasmo di sentirsi nuovamente parte di un’esistenza esuberante, sembrano germinare proprio dalla situazione di profondo squilibrio tra i due amanti: lui, uomo coltissimo e raffinato, oramai in età avanzata, che nella vita ha saputo conquistare praticamente ogni obiettivo che si era prefissato grazie a un’incredibile forza di volontà; lei, con la metà dei suoi anni, analfabeta, che si procura da vivere svolgendo umili lavori, dopo aver subito gli oltraggi di un destino drammaticamente implacabile.

Attraverso questo fertile squilibrio, il dissennato accostamento di due individui così diversi e apparentemente inconciliabili – e per il fatto che tale accostamento costituisce la precisa conseguenza di un’inaspettata intesa sessuale – passa uno dei più fertili processi metamorfici della storia, che tramite la ricombinazione genetica contribuisce alla continua ridefinizione del futuro e delle possibilità. Nella contemplazione di una giovane donna prostrata dalla vita, che si dedica alacremente a un’attività ancestrale come la mungitura, profondendovi uno zelo che appare come un ultimo retaggio della disperazione e del disincanto, Zuckerman intuisce un grado zero dell’esistenza completamente al riparo dalle insidie di «quel despota benigno che è la convenzione», un istinto di purezza incontaminato cui gli individui possono attingere solo dopo aver sperimentato fino all’estremo limite l’inconsistenza delle proprie convinzioni.

Fuggita di casa a quattordici anni, dopo aver subito molestie sessuali da parte del patrigno, Faunia si sposa giovanissima con Les Farley, un ex combattente del Vietnam che soffre di gravissimi disturbi da stress post-traumatico. Dopo aver sopportato una serie innumerevole di violenze, Faunia abbandona il marito portando con sé i due figli piccoli. Ma poco tempo dopo i bambini muoiono nell’incendio della roulotte nella quale abitavano. Annichilita dalla violenza inaudita degli avvenimenti, la donna riesce a trovare una pur precaria stabilità emotiva imponendosi di rinunciare a qualsiasi convinzione di tipo metafisico, abbandonandosi con assoluto trasporto alla pura immanenza, al semplice stato di natura. Non si fa più nessuna illusione sulle possibili implicazioni sentimentali delle sue relazioni sessuali, e a Coleman – che in un momento di particolare entusiasmo arriva ad affermare che tra loro due c’è qualcosa in più del semplice sesso – la donna risponde con spiazzante franchezza: «No, non è vero. Hai semplicemente dimenticato cos’è il sesso. Questo è sesso. E basta. Non rovinarlo con la pretesa che sia un’altra cosa».

Faunia, il cui nome non può non evocare la desolata ferinità del suo temperamento, nutre un’inusuale passione per le cornacchie: «la cornacchia è uno spettacolo. Come vola, per esempio. Non sono belle come i corvi, quando i corvi volano e fanno quelle bellissime, meravigliose acrobazie… I corvi si librano nell’aria, ma le cornacchie sembrano avere una meta precisa. Non vanno a zonzo, da quel che posso dire. Volino pure alto, i corvi. Si librino nel cielo. Facciano miglia e miglia, battano i record e vincano premi. Le cornacchie devono solo andare da un posto all’altro… Cosa pensano le cornacchie quando sentono cantare gli altri uccelli? Pensano che sia una stupidata. È vero. Gracchiare. Gracchiare è l’unica cosa».

Secondo la viscerale percezione di Faunia, nel comportamento delle cornacchie non c’è nessuna implicazione sovrasensibile intesa a nobilitare l’intrinseca trivialità dell’esistenza; esse considerano le cose solamente per quello che sono, non per ciò che possono rappresentare. Per loro, volare significa spostarsi da un posto all’altro, e non librarsi nelle altezze. La loro voce è un semplice segnale, per di più sgraziato; non hanno bisogno di conferirgli la grazia del canto. La loro vita è tutta superficie, pura schiettezza, semplice denotazione: «Il loro bello è che sono la praticità in persona. Nel volo. Nei discorsi. Persino nel colore. Tutto quel nero. Nient’altro che nero».

Coleman Silk incontra Faunia in un momento in cui sembra che la sua vita stia crollando in pezzi. Dopo una lunga e stimata carriera come insegnante di lettere classiche e preside di facoltà presso l’Athena College, un giorno viene ingiustamente accusato di razzismo, e lo scandalo che ne consegue lo costringe a rassegnare le proprie dimissioni e accettare un pensionamento anticipato. Durante i mesi di battaglia sostenuti contro schiere di colleghi benpensanti per difendere la propria innocenza, sua moglie muore improvvisamente, e Coleman si ritrova solo, a settant’anni suonati, ad affrontare quello che potrebbe percepire come il fallimento monumentale di un’intera esistenza, e a sperimentare – per la prima volta in un contesto diverso da quello delle lezioni sulla tragedia greca – come il caso giochi un ruolo fondamentale nella costruzione di un destino.

Il romanzo è ambientato nel 1998, in un’America ancora sotto shock a causa degli undici pompini che Monica Lewinsky fece al presidente Clinton durante il biennio trascorso come stagista alla Casa Bianca. Era «l’estate in cui il segreto di Bill Clinton venne a galla in ogni suo minimo e mortificante dettaglio… l’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la più antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere più sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia».

Uno scenario di spregevole conformismo costituisce lo sfondo più adeguato per la vicenda umana di Coleman Silk e della sua amante Faunia Farley, che si dispiega in una società inesorabilmente soggiogata da un’intransigente «tirannia della decenza», il complesso apparato ricattatorio tramite il quale la collettività imbriglia l’autonomia delle pulsioni individuali e le indirizza nel solco remissivo della condiscendenza. Il conflitto tra fragilità dell’«io» – ovvero il distillato degli impulsi emotivi con cui l’essere umano lotta per affermare la propria specifica irripetibilità – e solidità del «noi» – la forza coercitiva e intirizzita con cui la società impone al soggetto di conformarsi a una volontà plurale, che ne condiziona prepotentemente il comportamento – è una tematica che attraversa tutta la narrativa di Philip Roth, a partire da Lamento di Portnoy (1969) fino a Indignazione (2008), passando per Il teatro di Sabbath (1995) e i romanzi dell’American Trilogy (1997-2000). Ma in fondo, un po’ tutta l’opera rothiana è caratterizzata dal dualismo esistente fra tradizione e tradimento, fra il radicamento in una cultura solida – che garantisce protezione tramite la rassicurante salvaguardia della ripetizione e della ritualità – e la necessità di venir meno all’influenza troppo costrittiva di tale condizionamento.

L’euforico e generalizzato atteggiamento di condanna che, sul finire degli anni novanta, la società americana riserva allo scandalo Clinton-Lewinsky è il medesimo con cui la comunità di Athena – immaginaria cittadina universitaria del Berkshire, nel New England – censura l’ultima, straordinaria, storia d’amore di Coleman Silk. Non sembra ammissibile che, alla sua età e con la sua ragguardevole cultura, l’ex docente di lettere possa avere una relazione con una donna analfabeta e tanto più giovane di lui.

L’entusiasmo dell’anziano professore – che non fa mistero di ricorrere al Viagra per i suoi rendez-vous amorosi – scandalizza profondamente anche coloro che fanno professione di larghe vedute e apertura intellettuale: contro di lui si scaglia la furia omicida dell’ex marito di Faunia, Les Farley, il rancore farisaico dei quattro figli di Silk, il raffinato sarcasmo del giovane avvocato Nelson Primus, e la risentita ostilità della nuova direttrice del dipartimento di letteratura, la giovane insegnante di francese Delphine Roux. Quest’ultima – una delle maggiori responsabili della persecuzione di Coleman e della sua conseguente decisione di congedarsi dal college –, quando scopre che l’uomo ha intrapreso una relazione con la giovane donna, impiegata per una ditta di pulizie presso il campus universitario, non riuscendo a trattenere la propria indignazione, gli invia una lettera anonima di diciotto parole nella quale dà sfogo alla propria insopprimibile passione per gli stereotipi e la semplificazione: «TUTTI SANNO che stai sfruttando sessualmente una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni».

Tutti sanno. In realtà, se esiste una lezione che è possibile apprendere dalla lettura di questo romanzo (che nega la possibilità stessa di imparare lezioni), è proprio il fatto che nessuno sa nulla; che anche soltanto ritenere di sapere qualcosa è sciocco e pretenzioso: «Tutti sanno… Cosa? Perché le cose vanno come vanno? Cosa? Tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane? Nessuno sa, professoressa Roux. “Tutti sanno” è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente». La realtà è irriducibile a qualsiasi tipo di categorizzazione. L’ontologia è una monumentale illusione della civiltà occidentale, che – come ogni monumento – è destinato prima o poi a crollare. Niente è come sembra. Tra verità e apparenza si erge l’ostacolo insormontabile della complessità, che rende impervio qualunque tentativo di imporre una tassonomia all’esperienza.

Durante una lezione, il professor Silk si riferisce a due studenti del suo corso – che in tutto l’anno non si sono mai presentati in aula – usando l’aggettivo «spooks», il cui significato principale è «spettri», ma che, in uno dei suoi significati secondari, vuol dire anche «negracci». Il caso vuole che i due studenti siano effettivamente neri, e che – assai risentiti per l’espressione usata dall’insegnante – lo accusino apertamente di razzismo: il bianco e potente professore ebreo, ex preside di facoltà, forte del prestigio che gli viene dalla vastità della sua erudizione e dall’autorevolezza del ruolo ricoperto, approfitta della propria posizione di preminenza per insultare e discriminare due ragazzi che non hanno armi adeguate per opporsi. La questione assume ben presto dimensioni smisurate. In breve, Coleman si vede costretto a rassegnare le proprie dimissioni e intraprende un estenuante tentativo di autodifesa, dedicandosi alla scrittura di un lungo memoriale difensivo intitolato Spettri.

Questo è lo spunto da cui muove il romanzo. La storia inizia subito a funzionare, e la narrazione procede con la consueta felicità espressiva dello scrittore newarkese. Andando avanti nella lettura, apprendiamo che la moglie di Silk è morta un anno dopo l’episodio degli spettri; veniamo a sapere i dettagli intimi della relazione tra Coleman e Faunia; facciamo la conoscenza dei quattro figli del professore; fa la sua comparsa la figura dirompente di Les Farley, ancora ossessionato dal ricordo dell’ex moglie. Ma dopo quasi cento pagine, quando la narrazione è decollata e abbiamo ormai preso confidenza con la trama, scopriamo che Coleman Silk non è né ebreo né bianco. E non lo scopriamo in modo lineare, dopo una rivelazione esplicita del narratore. Per capirlo, dobbiamo mettere in discussione il patto tacito con l’autore a cui siamo abituati da anni e anni di esperienza come lettori: dopo averla sospesa come di consueto, abbiamo bisogno di ripristinare la nostra incredulità, e dubitare di tutto ciò che abbiamo appreso fino a quel momento durante la fruizione del testo.

Coleman inizia a ricordare quel giorno lontano della sua adolescenza in cui il dottor Fensterman, un medico ebreo suo vicino di casa, si presentò dalla famiglia Silk per chiedere un imbarazzante favore ai suoi genitori: egli voleva, in cambio del pagamento di tremila dollari, che il giovane Coleman prendesse una B anziché una A in due degli esami finali a sua scelta, consentendo così a suo figlio Bert di risultare il miglior studente del corso e tenere lui il discorso di commiato alla cerimonia di consegna dei diplomi. Solo così infatti, a causa della forte discriminazione razziale esistente, uno studente ebreo come Bert Fensterman poteva avere la speranza di essere accettato alla facoltà di medicina di Harvard o Yale. (E dunque? Ci chiediamo a questo punto. Non è ebreo anche Coleman? Non ha diritto anche lui a lottare contro un infame atteggiamento razzista e giocarsi le carte che gli ha messo in mano il destino?). Il dottor Fensterman è consapevole che le discriminazioni verso i neri sono molto più forti di quelle nei confronti degli ebrei, ma ritiene che, uscendo come il miglior studente nero della scuola, Coleman abbia comunque la possibilità di iscriversi in un buon college per neri come la Howard University. (Ma che sta dicendo? Coleman non è nero. È ebreo. È bianco. Proviamo a scorrere velocemente le pagine iniziali in cerca di qualcosa che ci sia sfuggito. Ci sarà stato un errore dell’editore. Devono aver fatto un casino in fase di impaginazione).

L’autore, in sostanza, ci ha truffato. Ha conquistato la nostra fiducia senza meritarla. Si è macchiato dello stesso crimine del quale fu accusato Bill Clinton in quella torrida estate del 1998: ha mentito ai suoi (e)lettori. Ora ci aspettiamo che – come fece Clinton – si scusi pubblicamente, ammetta i suoi secondi fini, o per lo meno la sua negligenza, e ci confessi dettagliatamente le proprie motivazioni. Ma il narratore continua a raccontare la storia come se ci avesse detto fin dal principio che Coleman Silk è nato in una famiglia nera del New Jersey, a East Orange, e non si degna di fornirci nemmeno una parola di spiegazione. Solo proseguendo nella lettura, veniamo a sapere che Coleman, dopo aver subito alcuni episodi di discriminazione, spinto da una naturale insofferenza verso tutto ciò che gli impedisce di realizzare fino in fondo il proprio io, approfitta dell’estrema chiarezza del proprio incarnato per inventarsi un’identità nuova: abbandona Howard (il college di Washington, D.C. riservato ai neri) e si iscrive come bianco alla NYU; si sposa con una donna ebrea e rinuncia per sempre alle proprie origini, non rivelando mai a nessuno – nemmeno ai propri figli – la verità su ciò che realmente è.

«Nessuno sa, professoressa Roux». Nessuno sa nulla, come suggerisce la stupefacente deviazione nell’intreccio, e come indicheranno ulteriori rivelazioni inaspettate nel finale del romanzo. Coleman Silk, colui che è stato accusato di razzismo, ovvero di subordinare l’eccezionalità e la specificità dell’individuo a categorie insensate e vessatorie come il concetto di razza, si rivela essere in realtà «il più grande dei pionieri dell’io»; un uomo che, piuttosto che rimanere imbrigliato negli odiosi vincoli del pregiudizio, ha preferito sopportare una dolorosa e definitiva rinuncia alla propria identità e ai propri affetti.

Il pregiudizio (così come il moralismo) è una forma semplificata di conoscenza, che ha la pretesa di ridurre a categorie statiche e inefficaci una realtà che, per sua natura, è complessa e in incessante trasformazione. Tentare di comprendere qualcosa tramite strumenti che non vengano messi continuamente in discussione da un’esperienza delle cose sempre rinnovata non consente di conoscere nient’altro che se stessi, o ciò che si conosce già. Coleman, con la sua decisione di sottrarsi alla logica del pregiudizio e di rinunciare alla propria identità, enfatizza l’irriducibilità dell’individuo a categorie astratte che non riescono a coglierne la sottile specificità. Intitolando il romanzo La macchia umana, Philip Roth procede in direzione di un nuovo umanesimo, che non tenta di ricondurre l’uomo a modelli classici stereotipati, ma che muove un passo coraggioso verso la sua precarietà, la sua debolezza, le sue contraddizioni.

Nelle ultime pagine del romanzo, tre mesi dopo la morte di Coleman e Faunia, Nathan Zuckerman, guidando lungo un’isolata strada di montagna, nota il pick-up di Les Farley fermo lungo il bordo della carreggiata. L’uomo si è fermato a pescare in un lago ghiacciato, e Nathan, osservandolo in lontananza, rimane colpito dall’impronta scura che la sua figura impone alla bianchezza immacolata del paesaggio. Senza fermarsi troppo a riflettere sulle possibili reazioni di quell’individuo disturbato, il cui equilibrio è stato irrimediabilmente compromesso da una serie di esperienze a dir poco devastanti, Zuckerman arresta la sua vettura e si dirige avventatamente verso di lui, spinto da un’invincibile curiosità: «Dopo essermi allontanato di circa cinquecento metri dalla strada, ero entrato, no, mi ero introdotto abusivamente – era quasi un senso di illegalità, quello che provavo –, avevo sconfinato in un ambiente incorrotto, oserei dire, inviolato, sereno e intatto come quello che circonda ogni specchio d’acqua interno del New England. Ti dava un’idea, come fanno questi posti (che proprio per questo sono tanto apprezzati), di come doveva essere il mondo prima dell’arrivo dell’uomo. La forza della natura è talvolta un potente lenitivo, e quello era un posto che ti calmava, che t’invitava ad accantonare le tue banali riflessioni senza metterti, nello stesso tempo, troppo in soggezione ricordandoti quel niente che è l’arco di una vita e la vastità dell’estinzione».

Nella verginità di quel paesaggio incontaminato, nell’abbagliante candore sul quale risalta la tenebrosa inesplicabilità dell’uomo, e nel gesto coraggioso di Nathan Zuckerman, che anela a quel candore e allo stesso tempo non teme quell’oscurità, si cela una delle immagini più poetiche della Macchia umana: uno dei libri di Philip Roth che maggiormente ne rivelano la tensione appassionata verso l’ineffabilità del divenire, la luminosa indipendenza di giudizio, la fedeltà sincera alla contraddizione.

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