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Fernando Pessoa: Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares

Che cosa significa viaggiare e a che cosa serve viaggiare? Qualsiasi tramonto è il tramonto; non è necessario andare a vederlo a Costantinopoli. E il senso di libertà che nasce dal viaggio? Posso averlo andando da Lisbona a Benfica e forse con un’intensità maggiore di chi va da Lisbona in Cina perché se la libertà non è in me non la troverò da nessuna parte.
A Bernardo Soares, l’eteronimo a cui Pessoa fa scrivere Il libro dell’inquietudine*, basta aprire la finestra dell’ufficio in cui lavora per partire in viaggio. Un rumore che sale dalla strada, una nuvola o un volo di uccelli, un soffio di vento o la luce improvvisa del sole che passa attraverso il grigio del cielo; d’un tratto un nuovo universo sostituisce quello fatto di pratiche da completare e di lettere da redigere.
Ma anche l’arrivo di un fattorino, l’odore dell’inchiostro, la frase di un collega o un gesto del capufficio bastano per far sì che Bernardo Soares cominci a riflettere e a spaziare in panorami di paesi lontani: I veri paesaggi sono quelli che noi stessi creiamo, perchè così, essendo i loro Dei, noi li vediamo come sono veramente, cioè come sono stati creati.
E così che questa raccolta di appunti e riflessioni del malinconico impiegato che dichiara di avere due sole certezze: la mia vita quotidiana di passante incognito e i miei sogni come insonnie di uomo desto diventa un libro di immagini e di descrizioni come affreschi dalla presenza concreta e reale.
Certo Il libro dell’inquietudine non è solo questo. Le pagine del diario di Bernardo Soares si aprono verso il mondo esteriore ma scendono anche nell’animo umano. E senz’altro i due percorsi si intrecciano. Riflessioni che analizzano e scrutano l’essere, divagano, approfondiscono, si interrogano. Come dice Antonio Tabucchi nella prefazione al libro: La finestra di Bernardo Soares ha le imposte che si possono aprire nei due sensi, sul fuori e sul dentro. La modestia della figura dell’impiegato scribacchino, per molti versi autobiografica, fa emergere con più chiarezza la forza del ragionamento. È il solo libro in prosa di Pessoa, ma spesso la frase si fa poetica, dalla musicalità mesta.
È nel 1982, quarantasette anni dopo la morte dell’autore, che fu pubblicato per la prima volta in portoghese Il libro dell’inquietudine (Livro do desassosego por Bernardo Soares). Raccolta di appunti scritti, a partire dal 1913, durante più di vent’anni, ma mai diventati il libro che Pessoa avrebbe voluto. Quella che leggiamo oggi è solo un’ipotesi, costruita e poi modificata dagli studiosi attorno alle migliaia di fogli sparsi ritrovati in un baule.
Al centro del libro è Lisbona, la città in cui Bernardo Soares lavora. Una città amata soprattutto nei suoi contrasti tra notti silenziose e giornate animate e caotiche, cieli luminosi e stradine ancora nella penombra, con il grande fiume Tago a fare da sfondo e ad aprire la vista verso il sud. Lo svegliarsi di una città, che avvenga con la nebbia o altrimenti, per me è sempre più commovente dello spuntare del giorno in campagna. Pessoa, prima di lasciare la parola al suo alter ego lo presenta e racconta il loro incontro in un ristorantino dai prezzi modesti. È là che Soares, uomo solitario e schivo, prende i suoi frugali pasti ogni giorno; ed è là che osserva i presenti: il suo non era uno sguardo censorio, ma un’attenzione che tuttavia non sembrava rivolta ai tratti e alle fisionomie della gente. Perchè quello che lo interessa non è l’aspetto superficiale né degli uomini né delle cose ma piuttosto il loro senso profondo e nascosto. Soares finirà per confessare al suo interlocutore, quasi scusandosene, la sua passione per la scrittura, passione che riempie una vita vuota di amici e di altri interessi. Quello che leggiamo è il risultato delle serate solitarie in una stanza d’affitto.
Chissà cosa sarebbe stato questo libro se Pessoa avesse potuto concludere il progetto. Tutta una (breve) vita non gli è bastata. E forse non è un caso. Il libro dell’inquietudineera probabilmente destinato a restare quello che è, un «romanzo» che, con la parola fine avrebbe perso tutto il suo senso e che invece è uno dei libri più importanti del ventesimo secolo.

*Traduzione di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi Feltrinelli editore
http://camminareleggendo.blogspot.it/2012/01/fernando-pessoa-il-libro.html


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