Philip Glass : Koyaanisqatsi – Satyagraha ed altro di Glass

“Koyaanisqatsi”, il grido di dolore di Philip Glass

Nella seconda metà degli anni Settanta il documentarista statunitense Godfrey Reggio, da sempre sensibile alla questione ambientale, iniziò a lavorare a un ambizioso progetto sulle contraddizioni tra la vita moderna e la preservazione della natura. Il regista all’epoca lavorava all’Institute for Regional Education di San Fe, Nuovo Messico, una delle città più antiche degli Stati Uniti (fu fondata dagli spagnoli nel 1610).
Reggio e l’operatore Ron Fricke, (considerato un maestro della fotografia con tecnica time-lapse, ovvero fotogrammi a intervalli di tempi superiori rispetto alla norma) iniziarono sin dal 1976 a lavorare alla realizzazione del documentario “Koyaanisqatsi”.  La particolarità dell’opera è la completa assenza di dialoghi. Il film guida lo spettatore attraverso un viaggio che inizia con la maestosa varietà della natura per passare successivamente all’intervento dell’uomo e diventa sempre più frenetico, nevrotico come la condizione tipica degli esseri umani.
Godfrey Reggio si domanda se l’uomo contemporaneo è in grado di coesistere con la natura e l’ambiente senza il grande rischio di distruggere gli ecosistemi del pianeta terra. Il regista aveva pensato che il commento sonoro fosse una componente fondamentale nella storia e nel montaggio del film. Reggio, senza alcun dubbio diede l’incarico di scrivere le musiche ad uno dei più grandi compositori viventi: lo statunitense Philip Glass, uno dei fondatori del genere musicale minimalista.
Il documentario è stato girato in luoghi molto suggestivi degli Stati Uniti come l’Hosrseshoe Canyon, Utah, Canyonlands National Park, il Lake Powell in Arizona. Nella parte in cui è protagonista l’uomo, Reggio ha scelto la centrale nucleare di San Onofre in California, il centro spaziale Kennedy in Florida e i grattacieli di Chicago e New York. Il regista Francis Ford Coppola ha partecipato alla produzione e alla distribuzione del film. Il compositore Philip Glass dopo aver visto le immagini del film di Reggio iniziò a scrivere l’opera suddividendola in sei movimenti. E’ probabilmente una delle migliori partiture composte dal pianista di Baltimora. Con la sua musica che “come nessun’altra sa suggerire il timore esistenziale” (definizione di Errol Morris), qui Glass dà voce a quello che solitamente non ascoltiamo e soprattutto incarna con incredibile maestria il ritmo e la follia dei tempi moderni.
Il primo movimento (Koyaanisqatsi) inizia con sottofondo di organo, archi e un coro baritonale estremamente drammatico e inquietante. Segue “Vessel”, dominato da un coro di soprani, metafora celestiale della maestosità e della bellezza della natura. Poi subentra un sottofondo ipnotico e ripetitivo di sintetizzatori. Il terzo movimento (Cloudscape) si apre con archi, ottoni che compongono una melodia ‘inquietante’ e ‘ostile’ per poi trasformarsi su un registro più rassicurante.
Archi e fiati sono protagonisti anche nel quarto movimento (Pruit Igoe): i toni e le atmosfere sono sempre più drammatiche, quasi anticipatrici di un’imminente catastrofe. Violini, violoncelli e ottoni, più dei cori che ricordano i Carmina Burana, sono perfettamente fusi in una composizione straordinaria e di grande impatto emotivo.
Il quinto movimento (The grid), dal fraseggio tipicamente minimalista con organo di chiesa, fiati e violini, ha un ritmo molto incalzante e veloce come la condizione umana nelle grandi metropoli. Poi subentra improvvisamente un coro polifonico femminile di soprano di grande suggestione.
Chiude “Prophecies”, con una melanconica linea di organo a canne e un coro liturgico che conclude questo incredibile viaggio di immagini e musica sul destino dell’uomo-
Alessandro Ceccarelli
ttp://www.jobsnews.it/2015/02/koyaanisqatsi-il-grido-di-dolore-di-philip-glass/



Satyagraha
Opera in tre atti proprio e di Constance DeJong, dalla Bhagavadgita

Sfondo del percorso immaginifico diSatyagraha, commissionata a Glass nel 1976 da Hans de Roo, direttore della Nederland Opera, sono le vicende del periodo che Mohandas Karamchand Gandhi – allora giovane avvocato – trascorse in Sudafrica dal 1893 al 1913 (ventun anni che Glass sintetizza nell’arco di un’unica giornata, dall’alba alla notte), e che videro la nascita e l’evolversi del movimento omonimo da lui fondato all’inizio del ventesimo secolo, nel quale egli elabora operativamente i fondamenti della sua etica della nonviolenza e della disobbedienza civile (successivamente ripresa dal movimento americano per i diritti civili, animato negli anni Sessanta da Martin Luther King). Lottando per l’abrogazione del cosiddetto ‘Black Act’ – una legge iniqua che imponeva inaccettabili restrizioni agli spostamenti interni della popolazione non europea e che virtualmente relegava la comunità indiana in Sudafrica in una situazione prossima alla schiavitù – Gandhi elaborò il concetto di Satyagraha, che in sanscrito significa ‘forza della verità’. Gandhi combatté le autorità sudafricane sul terreno del Black Act e alla fine vinse – in modo non violento – organizzando scioperi della fame e dimostrazioni pacifiche che culminarono, nel 1913, nella grande ‘Marcia di Newcastle’. Queste vicende sono ‘mostrate’ piuttosto che ‘narrate’ – «sarebbe stato come sfogliare un album di famiglia, passando in rassegna instantanee scattate in un arco di vari anni», afferma Glass. Il libretto della scrittrice Constance DeJong è tratto dal poema religioso indianoBhagavadgita, che il compositore americano ha inteso come testo di commento all’azione (rappresentata per immagini) e che ha scelto di mantenere nell’originale sanscrito, per evidenziarne la sacralità, salvaguardarne il ritmo e il peculiare ‘suono’, che tanto l’affascinava. Il compito di trasmettere il ‘significato’ dell’opera sarebbe stato affidato alla musica, alle scenografie e all’azione scenica.

In ciascuno dei tre atti diSatyagrahacompare una sorta di ‘guardiano’ o testimone spirituale, che osserva dall’alto le vicende terrestri. Nel primo atto il conte Lev Tolstoj (che rappresentò una figura di riferimento per Gandhi nel corso di tutta la sua vita); nel secondo il guardiano è invece il poeta Rabindranath Tagore. «Il simbolo nel terzo atto è Martin Luther King», afferma Glass, «che mi ha sempre colpito come una sorta di Gandhi americano, raggiungendo qui gli stessi risultati, e nella stessa maniera di Gandhi in India. Tolstoj, Tagore e King rappresentano il passato, il presente e il futuro diSatyagraha».

Satyagrahaè un’opera sulla politica e, assieme aEinstein on the BeacheAkhnaten, completa – nelle intenzioni dell’autore – una trilogia di opere ‘ritratto’ sui rispettivi temi della politica, della scienza e della religione, opere in cui le idee musicali «scaturiscono», dice Glass, «dalla mia personale idea del personaggio, piuttosto che dall’azione o dalla storia sviluppata sulla scena». Glass, prima di iniziare a scrivere la musica, forma innanzitutto – dopo l’esperienza cruciale con Bob Wilson – unteamcomposto in questa occasione dalla scrittrice americana Constance DeJong, dal costumista e scenografo Robert Israel e dallight designerRichard Riddell. Il regista – l’inglese David Pountney – subentrò soltanto allorché la musica era già stata terminata da Glass.

Il suono orchestrale diSatyagrahasi basa su quello che era diventato il suono inconfondibile della musica di Glass eseguita dal suoensemble, formato da tastiere elettriche, tre sassofoni con obbligo di flauto, clarinetto basso e una voce di soprano (tutti amplificati): «Nel pensare all’orchestra perSatyagraha, capii che la soluzione stava proprio nel pensare la partitura orchestrale nello stesso modo in cui avevo sempre pensato le partiture per il mioensemble», ignorando le prassi musicali tradizionali. Seguendo questo ‘suono guida’ Glass elabora una partitura che richiede una sezione di legni (tre flauti, tre clarinetti, tre oboi, due fagotti, un clarinetto basso) e una sezione completa di archi (primi e secondi violini, viole, violoncelli e contrabbassi), oltre a un organo elettrico, tralasciando completamente ottoni e percussioni. Glass evita accuratamente di lasciar spazio a parti solistiche, creando un’immagine sonora complessiva che imita, sostanzialmente, quella di un organo elettrico, con tutti gli strumenti all’unisono e con dinamiche esasperate, proprio per ricreare quello che lui stesso definisce «il tipico Phil Glasssound», facendo praticamente scomparire l’orchestra all’interno della musica, che ha una centralità assoluta rispetto all’insieme di possibilità esecutive e timbriche dei singoli strumenti, che Glass ignora deliberatamente. Va anche sottolineata la preponderanza che assume il coro all’interno diSatyagraha, che è sostanzialmente un’opera corale (il coro canta infatti in quattro scene su un totale di sette). Questo anche per conferire una corrispondenza musicale al carattere ‘pubblico’ della vita di Gandhi, che si svolge in mezzo alla folla. ConSatyagraha, inoltre, Glass inizia a usare la voce umana in modo strettamente ‘vocale’, rispettandone la naturale estensione, e sottraendola a quella scrittura di tipo rigorosamente ‘strumentale’ che aveva caratterizzato la musica scritta per lavocalistdel suoensemble. Glass giunge addirittura a enfatizzare il canto a più voci: nell’opera vi sono arie, duetti, trii, quartetti, quintetti e perfino un sestetto (la scena d’apertura – ad esempio – è costituita da un’aria, affidata al personaggio di Gandhi, che si trasforma prima in un duetto, e poi in un trio, il tutto scritto in una maniera non esente da echi verdiani, ricca e altamente declamatoria ed espressiva nello stile).

Mentre inEinstein on the BeachGlass aveva cercato i modi per combinare strutture ritmiche e armoniche, trovando tutta una serie di soluzioni, talvolta di notevole complessità, perSatyagrahasemplifica il suo approccio compositivo, concentrandosi su un’unica soluzione tratta dalla musica barocca – la ciaccona – e utilizzandola sistematicamente in tutte e sette le scene dell’opera. Come modulo di progressione, la ciaccona deriva dalla musica flamenca per chitarra, introdotta in Spagna dai gitani, probabilmente originari dell’India, e viene adottata da Glass in quanto rappresenta una delle «pochissime prassi armoniche condivise dall’Oriente e dall’Occidente, perché l’uso dell’armonia è praticamente inesistente nella musica orientale». Al di là di queste non trascurabili differenze rispetto ai lavori precedenti, il materiale compositivo è – come sempre in Glass – limitato a pochi elementi essenziali e ben riconoscibili, sottoposti a intensivi processi di variazione, estremamente dilatati nel tempo. L’effetto che ne deriva per l’ascoltatore è quello di una iniziale e apparente staticità, destinata a rivelare in breve una interna metamorfosi, che avviluppa la trama musicale rendendola cangiante, mobile e avvolgente, conferendole una indubbia dimensione spaziale basata su semplici geometrie ed evidenti simmetrie, all’interno di un universo inequivocabilmente tonale.
Fonte: Dizionario dell’Opera Baldini&Castoldi

http://www.operamanager.com/cgi-bin/process.cgi?azione=ricerca&tipo=OP&id=10685

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