Akutagawa Ryunosuke racconti – Rashomon e ripasso Kurosawa

Nel bosco di Akutagawa Ryunosuke, scrittore di racconti

Akutagawa Ryunosuke nacque nel 1892 e visse una brevissima vita a cavallo dei due secoli. Era di una generazione nata quando la transizione del periodo Meji era già compiuta e si potevano già godere i frutti della missione che i governanti nipponici avevano avuto nei decenni precedenti: modernizzare il paese con “tecnologia occidentale e spirito giapponese”. Akutagawa aveva studiato nella massima università di Tokyo e conosceva in modo profondo la letteratura inglese e francese del secolo che era appena trascorso. Allo stesso tempo però facevano parte del suo bagaglio non solo la letteratura tradizionale giapponese, ma anche quella cinese, il vero e unico riferimento culturale prima dell’apertura al mondo.

Prima di togliersi la vita, riuscì a pubblicare alcuni tra i più memorabili racconti della letteratura giapponese, che non solo vengono tuttora letti e commentati nelle scuole, ma che hanno avuto diffusione ancora maggiore come adattamenti cinematografici. Rashomon, il film che consacrò Akira Kurosawa come regista di fama mondiale e che gli valse l’Oscar come miglior film straniero, doveva la trama al racconto Nel bosco, mentre il titolo proviene da un’altra storia breve dello stesso autore.

La forma letteraria dei racconti brevi funziona in questo modo. Su cento racconti, se dieci sopravvivono per le generazioni seguenti, si potrà parlare di un grande successo.

Questo è quello che scrive Murakami Haruki, forse il più importante scrittori giapponesi viventi e tra i più famosi in assoluto, proprio nell’introduzione alla raccolta di Akutagawa Rashomon e altri racconti curata da Einaudi. E non riescono infatti tutti i suoi lavori a superare il passare del tempo. Suddivisa grossomodo in due parti la sua produzione, emergono con prepotenza i suoi primi lavori, rielaborazioni di antiche storie tradizionali, contrapposti ai suoi ultimi lavori, frammenti introspettivi, lirici e autobiografici influenzati da quello spirito che in Giappone si fa chiamare “il romanzo dell’Io”.

Una delle fonti principali di Akutagawa era il Konjaku monogatarishū una raccolta di mille racconti di origine indiana, cinese e ovviamente giapponese composta poco dopo l’anno 1000. Saccheggiato con meticolosa costanza, questo enorme bacino di storie già raccontate fornì idee e personaggi a moltissimi racconti. Ed è proprio da una di queste storie, riguardante un furto e uno stupro, che nacque il racconto Nel bosco. Il racconto è la storia di un omicidio, raccontata attraverso la testimonianza di sei diversi personaggi: una donna e suo marito sono aggrediti da un ladro. Un monaco, un boscaiolo, un vigilante e la madre della donna, completano le voci della composizione.

Pubblicato nel 1922 è un perfetto esempio di modernismo giapponese, niente affatto lontano da quello che stava succedendo nel resto del mondo, mentre Faulkner ancora provava senza troppa convinzione a lavorare in posta. Ma a quanto pare neanche questa è un’idea di Akutagawa. Ci aveva già pensato nel 1868 Robert Browning, poeta laureato vittoriano, a scrivere un poema drammatico con la stessa struttura. Basato su un vero e intricato caso di omicidio nella Roma degli anni intorno al 1700, il poema L’anello e il libro affida a vari personaggi la narrazione dei fatti mentre essi accadono.

In entrambe le narrazioni i testimoni raccontano ciò che hanno visto o sanno riguardo al crimine di cui si cerca di venire a capo attraverso un processo. Ogni personaggio parla attraverso un monologo drammatico, rivelando così il proprio carattere, limitazioni, intenzioni. La strada però ad un certo punto si divide e mentre i personaggi di Browning vanno alla ricerca del colpevole e della verità, quelli di Akutagawa cominciano a rivelare una realtà molto più complessa, in cui si arriva a dubitare che l’omicidio stesso sia mai accaduto. Con precisione ed eleganza l’autore rende ogni singola testimonianza, anche quelle più banali o apparentemente affidabili, contraddittorie l’una con l’altra.

Il lettore, solo difronte ai monologhi e alle risposte a domande fantasma fatte da un narratore inesistente, entra in crisi, nell’impossibilità di arrivare alla soluzione di questo giallo. Cosa è successo nel bosco? E la risposta non può essere ottenuta senza mettere in discussione la qualità stessa della verità e della natura umana.

Qui a Tre racconti non scriviamo solo articoli, ma passiamo anche molto del nostro tempo a leggere storie brevi e voci nuove per la nostra rivista letteraria. La proporzione dei racconti che dalla selezione arrivano alla pubblicazione è forse più bassa di quella indicata da Murakami per il canone. Ma questo non accade perché ci arrivino racconti particolarmente brutti o perché noi siamo particolarmente cattivi (solo un pochino) ma perché sempre più spesso incontriamo le stesse situazioni, luoghi, meccanismi, parole, topoi.

Akutagawa Ryunosuke, nonostante abbia copiato la storia da una antica novella giapponese, da un poeta vittoriano come Robert Browning e persino rubato un’idea a un trascurabilissimo autore come Ambrose Bierce, è stato in grado di realizzare un suo racconto. Ci è riuscito grazie all’attenzione per i dettagli, che hanno tenuto insieme quel mosaico di fonti. Oggi si tenderebbe a chiamare questo riuso “postmodernismo”, ma anche Shakespeare aveva letto qualche cronaca danese per scrivere l’Amleto. Io in questo caso lo chiamerei Letteratura.

Nel bosco di Akutagawa Ryunosuke, scrittore di racconti

Questo articolo è originariamente apparso nell’ambito della raccolta del 2011 L’isola delle libellule a cura di Doozo Art, Roma.  

Recentemente, Murakami Haruki ha affermato che in un’ipotetica classifica de- gli scrittori giapponesi più importanti dell’ultimo secolo, Akutagawa Ryunosuke

rientrerebbe senz’altro tra i primi cinque – e forse potrebbe persino puntare a un gradino del podio. Affermazione tutt’altro che a effetto, tesa a riconoscere i molti debiti linguistici, tematici e di immaginario che rendono Akutagawa un “contem- poraneo” per eccellenza.

Contemporaneo sotto almeno due punti di vista: quello di chi scrive, legge o si oc- cupa oggi di letteratura giapponese, o di letteratura tout court, e riconosce in Aku- tagawa un utilizzatore precoce e capacissimo di temi e strumenti che affascinano o hanno affascinato i teorici del postmoderno – intertestualità, ironia, decostru- zione di modelli narrativi. E quello legato alla contemporaneità propria dell’epoca Taisho (1912-1926), in cui il mondo culturale giapponese scopre che l’immane lavoro di rinnovamento inaugurato dall’epoca Meiji (1868-1912) ha avuto succes- so: il Giappone feudale non esiste più – o meglio, si trova sull’altro versante di una cesura traumatica – e l’Occidente ha smesso di offrirsi come modello unico e compatto, da cui poter assimilare senza la necessità di selezioni e conseguenze. Per la prima volta, ci si confronta alla pari con il resto del mondo.

Il merito letterario di Akutagawa è stato quello di giocare con i tropi del moder- nismo partendo da una prospettiva obliqua e specificamente nipponica – dimo- strando così non solo che quella giapponese si avviava ad essere una letteratura moderna, ma che la nozione stessa di modernità passa attraverso quel fenomeno di scissione e rifrazione di cui il Giappone è un caso esemplare.

Akutagawa nasce a Tokyo il 1° marzo 1892 e muore nel 1927, anno di inizio dell’epoca Showa. È stato un prolifico autore di racconti (si è dedicato, inoltre, alla critica letteraria e allo haikai), un amante del grottesco, un maestro di stile, un uomo immerso nelle proprie ossessioni personali che è però riuscito a mettere su carta il battito irregolare del Giappone di quegli anni.

La sua breve vita, cui fa cornice l’altrettanto breve e contraddittoria parentesi libe- rale dell’epoca Taisho, è così tutta tesa tra le necessità dittatorie del fare lettera- tura e il disgregamento personale che quel fare letteratura sembra comportare. La parola scritta in Akutagawa non diviene mai rifugio o evasione fantastica (ha, piuttosto, un gusto per l’illusione e la fantasmagoria): scrivere è l’insostenibile sforzo di un uomo che documenta pensieri e parole del proprio collasso.

33Non ho più la forza di continuare a scrivere. Continuare a vivere in una con- dizione simile è doloroso oltre ogni descrizione. Se solo ci fosse qualcuno che, mentre sto dormendo, prendesse il mio collo, e mi soffocasse gentilmente.

La sicurezza di essere sul bilico della follia e l’intollerabilità di questo pensiero sono in qualche modo legate al ricordo – un ricordo poeticamente reinvestito, nascosto, ma attivo – della madre, Fuku, impazzita di colpo poco dopo la sua nascita. La pazzia per Akutagawa non è dunque uno stato estremo della psiche o dell’esperienza; rappresenta piuttosto lo sfondo primario della vita stessa, che sfida l’uomo e il narratore ad esprimerlo, ma al tempo stesso lo erode e lo trasfi- gura – come in un ritratto dalla testa di volpe.

Mia madre era pazza. E non sono mai riuscito a sentirla vicina, come madre. Se ne stava seduta da sola nella sua stanza, con i capelli sistemati in un kushi- maki, a fumare da una pipa lunga e sottile. Il suo volto era piccolo, e così il suo corpo. Per qualche ragione, mi ricordo ancora il suo volto grigio e smorto. Non mi viene in mente alcun gesto di affetto da parte sua. Una volta che io e la mia madre adottiva ci eravamo presi il disturbo di salire al secondo piano per salu- tarla, all’improvviso mi colpì sulla testa con quella lunga pipa. Ma in genere mia madre era una malata molto tranquilla. Quando io e la mia sorella maggiore le chiedevamo di disegnare per noi, lei subito buttava giù uno schizzo su un pezzetto di carta. E non si limitava ai disegni a inchiostro. Usando gli acquerelli di mia sorella, dipingeva per noi scorci di fiori, o quadri di donne e bambini vestiti con colori vivaci. Ma le persone nei suoi quadri avevano inevitabilmente la testa di una volpe.

Biografia ed elaborazione artistica qui sono legate con un nodo anche troppo stretto. Ma se da una parte leggere l’opera di Akutagawa richiede un confronto diretto, quasi insostenibile, con la sua vita, dall’altra sia i lavori giovanili che le opere del suo ultimo periodo – segnate da una forte impronta autobiografica – si distinguono per una tendenza al discorso ironico che fa leva su identità multiple e contraffatte. Più voci e più personaggi, che sono condanna dell’autore, ma an- che spazio di manovra e suo linguaggio specifico – un filtro nevrotico fatto di più epoche storiche, di riferimenti culturali ibridi, di giochi intertestuali volutamen- te disorientanti. Quella di Akutagawa è quindi un’arte del disorientamento, e un disorientamento che si fa arte. La massa dei suoi racconti si presenta come un discorso in frammenti, la scacchiera di un gioco autoriale, o un bosco narrativo in cui autore e lettore possono incontrarsi e perdersi reciprocamente.

Non è un caso che al centro di quello che è probabilmente il suo racconto più famoso, tra i capolavori della sua produzione matura e primo spunto testuale del film Rashomon di Kurosawa, ci siano proprio dei personaggi che si perdono in un bosco. Si perdono in un senso letterale: perdono se stessi e la loro identità.

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In Yabu no naka (Nel bosco, 1921), titolo che in giapponese è divenuto una forma idiomatica che indica un problema indecidibile, l’intreccio si aggroviglia in poche pagine e l’approccio giudiziario, da mystery, è solo il primo tentativo di depistag- gio. La vicenda segue sei deposizioni in un tribunale, in cui si cerca di ricostruire la dinamica di uno stupro e di un omicidio avvenuti in un bosco poco fuori Kyoto. Un samurai e sua moglie in viaggio sono stati ingannati da un bandito, condotti dentro una macchia di bambù, e l’uomo è rimasto ucciso. Ciascuno dei tre prota- gonisti però (anche il morto ha la sua occasione di parlare, per bocca di una me- dium) fornisce una visione differente non solo dell’accaduto, ma del valore umano e delle relazioni di forza presenti nella radura. Inoltre, tutti e tre finiscono per accusarsi dell’omicidio. Ciascuno dei tre personaggi esce dal centro del bosco di bambù – fuoco della scena continuamente reinterpretato e sempre inaccessi- bile – con la certezza di aver perso qualcosa di fondamentale: la libertà, l’onore, la vita. Ma la situazione insostenibile in cui si ritrovano gettati i tre protagonisti del racconto – il bandito Tajomaru, il samurai Takehiro e sua moglie Masago, è la crisi della parola e della testimonianza, l’impossibilità di un senso di condivi- sione su cui basare un’esperienza umana. Kurosawa sintetizza questa dipartita più sottile e atroce con le parole del bonzo, che ripete di «non aver più fiducia nel cuore dell’uomo». Il racconto si chiude con l’immagine dell’oscurità, dell’abisso indistinto che accoglie il morto, e si allarga sulla vicenda nella sua interezza. Parlare di nichilismo non è affatto fuori luogo.

Scegliendo di intitolare Rashomon il proprio capolavoro, Kurosawa ha voluto in- contrarsi e scontrarsi con Akutagawa sul suo stesso, desolante terreno di disli- velli narrativi e palinsesti letterari, tentando di risolverne il problema e la sfida. Rashomon prende il titolo e l’ambientazione – e, apparentemente, poco altro – da quello che viene considerato il primo vero racconto di Akutagawa, pubblicato nel 1916 sulla rivista studentesca «Teikoku bungaku». Nel racconto osserviamo un servo senza padrone, completamente solo in una Kyoto in decadenza, costretto a passare la notte sotto la porta Rasho. E’ una notte di valutazioni e rivoluzioni interne, in cui il sistema etico dell’uomo – e, quindi, il suo mondo – si sfalda. Nel vecchio portale, dove cadaveri indesiderati vengono abbandonati ai corvi, incontra una vecchia che sta strappando i capelli di una giovane morta. L’idea di peccato e male si fa viva, violentemente, per un’ultima volta, e crolla in modo definitivo di fronte alle parole della megera, che per giustificarsi rinfaccia al cadavere di aver «venduto carne di serpe spacciandola per anguilla». Posto di fronte alla catena interminabile della degradazione e del male e al fallimento continuo di una mo- rale binaria, il giovane abbraccia con gusto una nuova vita da ladro, strappando i vestiti della vecchia e fuggendo nella notte.

Entrambi i racconti terminano con una dissolvenza nel buio. Kurosawa deve aver meditato sulla disfatta morale descritta da Akutagawa ab- bastanza a lungo da capire di non poterla sottovalutare. Scegliendo di unire i due

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testi, ha lasciato che a raccontare gli eventi del tribunale fossero il boscaiolo e il bonzo che aprono le testimonianze processuali del racconto, e ha voluto che a raggiungerli sotto la porta in rovina, in un pomeriggio di pioggia torrenziale, fosse un vagabondo totalmente amorale – come un fantasma del servo, tornato sul luogo del suo delitto per ascoltare il resoconto di un fallimento umano altrettanto atroce. Il suo sguardo, che qui mette in scena la prospettiva di Akutagawa stesso, riesce a vedere persino più in là, a scoprire che la cornice in rovina della porta nasconde ancora, all’infinito, nuove possibilità di menzogna, e che il racconto del boscaiolo può essere sottoposto allo stesso vertiginoso esercizio del dubbio. Il crollo è contagioso, capace di colpire in forme e spazi differenti – era questa una delle morali del racconto Rashomon. Quando ogni pretesa di verità e spazio etico sembrano dissolte per l’ennesima volta, i tre narratori sentono il pianto di un ne- onato abbandonato – presente tutto il tempo, testimone nascosto e silenzioso. Il vagabondo esce di scena rubando l’abito che lo avvolge – reiterando quel motivo del furto che i due racconti hanno in comune. Il boscaiolo e il bonzo rimangono senza parole, senza speranza, di fronte al pianto cieco del bambino completa- mente esposto, che qui non rappresenta l’innocenza, ma la completa gettatezza, la problematica disponibilità già presente nel cadavere – inizio e fine della vita nella sua qualità fondamentale.

Kurosawa però decide, con uno scatto umano che è anche maestria narrativa, che l’unico modo per superare una simile empasse è ribaltare il concetto di respon- sabilità del primo processo, e sforzarsi di accogliere, di proiettare su di un’azione di fiducia altrettanto incerta e miracolosa, il finale del film. Il boscaiolo decide di adottare il bambino, e i due uomini possono separarsi con un inchino silenzioso, finalmente pacificato.

C’è in Akutagawa, nonostante la tendenza e la passione per la dissoluzione, la capacità di un simile riscatto, per un’umanità che riscopre se stessa proprio nella scommessa, nella crisi e nel versante grottesco dell’esistenza? Penso che esista, che in lui crudeltà e sarcasmo siano non solo confronto, ma conseguenza di un impegno umano dei più alti. La dolcezza disarmante della pia prostituta mino- renne di Gesù di Nanchino, che guarisce dalla sifilide trasmettendola a un cliente ubriaco scambiato per Gesù Cristo; il lirismo improvviso e spiazzante che chiude il brevissimo I mandarini, in cui una ragazza sgraziata salva dalla sua sensazione di vuoto il cinico alter ego dello scrittore gettando a dei ragazzini una manciata di mandarini dal finestrino di un treno in corsa; il finale grottesco e poetico di Sen- nin (1923), in cui un provinciale sprovveduto arrivato ad Osaka con l’idea risibile di diventare un eremita con poteri ultraterreni finisce a lavorare per anni per un medico e sua moglie che approfittano della sua ingenuità. Scaduti i termini del servizio, i due decidono di liberarsene facendolo salire in cima a un pino e dicen- dogli di alzare entrambe le mani al cielo:

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Non avevano finito di parlare, che Gonsuke aveva giù lasciato il tronco an-che con la mano sinistra. Se ne stava lì in cima all’albero, con entrambe le mani sollevate, eppure non cadeva. Dopo un lungo istante il suo corpo e il lembo dello haori con lo stemma del suo padrone non toccavano più la cima dell’albero. Ma Gonsuke non stava cadendo. Piuttosto, galleggiava come una marionetta nell’aria del pomeriggio. “Grazie al vostro aiuto” disse “sono final- mente diventato un vero sennin”. E dopo essersi congedato con questo saluto rispettoso, cominciò a salire dolcemente per il cielo, fino a sparire tra le nuvole sempre più alte.

http://www.archiviomalacoda.cloud/2015/11/18/rashomon-e-nel-bosco-di-akutagawa-ryunosuke-perdersi-in-mezzo-al-bamboo/

“Rashomon” (tempio del dio Rasho) è un film del 1950, girato in bianco e nero, diretto dal maestro Akira Kurosawa, interpretato magistralmente da uno sporco e vile Toshiro Mifune. La pellicola, girata con pochi mezzi, ebbe notevole difficoltà nella distribuzione in patria e all’estero; fu la vittoria del Leone d’Oro al Festival del Cinema di Venezia nel 1951 che ne consacrò il successo e portò alla ribalta internazionale Kurosawa e Mifune.

Nel Giappone feudale, dove violenza e soprusi sono all’ordine del giorno, tre personaggi (un boscaiolo, un viandante  e un monaco) trovano riparo dalla pioggia sotto lo stesso tetto. I tre iniziano a discorrere su un fatto di sangue accaduto: un samurai, vagando per il bosco insieme alla moglie, viene brutalmente attaccato e ucciso da un fuorilegge e la moglie viene da esso violentata. Il fatto è narrato attraverso quattro testimonianze: il monaco riporta ai presenti le tre versioni fornite al processo dal bandito (Mifune), dalla moglie del samurai e dallo spirito del samurai (chiamato in causa da una maga), mentre il boscaiolo, infine, sostenendo di essere stato testimone oculare, riferisce direttamente la sua versione. Nessuna delle deposizioni risulta essere uguale alle altre, lasciando indeterminata quale sia la “verità”.

Il film, tratto da un racconto di Akutagawa, tratta principalmente i temi della soggettività, della molteplicità del reale, dell’impossibilità dell’esistenza di una sola unica ed inconfutabile verità. La complessità del vero non è l’unico argomento centrale dell’opera, che affronta anche i concetti di ipocrisia degli uomini, di menzogna, di mistificazione. Ogni testimonianza ha le caratteristiche di chi le racconta, o meglio, le peculiarità che i narratori vorrebbero avere: il brigante, smargiasso e millantatore, pone l’accento sulle proprie gesta da uomo impavido e feroce, così come la donna e lo spirito del defunto samurai tessono una vicenda che più li mette egoisticamente in buona luce. Anche la voce del samurai dall’aldilà non è particolarmente convincente; nemmeno la morte e l’oltretomba regalano la certezza della verità. L’ultima testimonianza, quella del boscaiolo, che nulla ha da guadagnare o da perdere in questa storia, pare essere la versione più verosimile (forse le persone più semplici possono cogliere la verità meno distorta?), ma, davanti a tanta confusione, non è possibile credere in toto a nessuno di loro. Proprio mentre la fiducia negli uomini è messa tristemente in discussione, si ode il pianto di un neonato: un appello di speranza o solo un grido di dolore per l’umanità egoista e corrotta?

“Rashomon” attraverso se stesso non tratta solo della verità tangibile (affrontata nella trama), ma gioca con lo spettatore mettendo parallelamente in atto la relatività della narrazione e dunque del cinema. E’ interessante notare che le inquadrature sono raramente “soggettive”, ma la telecamera riprende i personaggi dando l’impressione di un resoconto “oggettivo” e fedele ai fatti. Tale aderenza al reale è però smentita dalle molteplici versioni fornite al processo dai testimoni, i quali parlano guardando spesso in camera, come se, oltre ai giudici, mentissero anche agli spettatori. Pure il cinema e le sue immagini mentono (interessante sarebbe un confronto con la poetica del Neorealismo italiano, alla ricerca di qualcosa di apparentemente opposto), e, spesso, ciò che vediamo noi con i nostri occhi, non è la realtà, come siamo portati a credere, ma è un astuto artifizio.

La pellicola, che ha aperto le porte del mondo occidentale ad uno dei più grandi registi in assoluto (lo definirei quasi “l’eroe dei due mondi”), è stata anche il trampolino di lancio in patria per Kurosawa e, giustamente, oggi è considerato uno dei suoi capolavori. Mai banale, retorico o scontato, “Rashomon” spinge ad una riflessione profonda sulla verità, sugli “altri” e soprattutto ricorda di non fidarci troppo neanche di noi stessi.

https://www.debaser.it/akira-kurosawa/rashomon/recensione

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