Marguerite Yourcenar : Feux “Fuegos”, Poèmes

Pillole d’autore: Marguerite Yourcenar, Fuochi

di Laura Ingallinella
23.10.11
Conosciamo tutti Marguerite Yourcenar (1903-1987), francese di origine belga, per il suo grande capolavoro: il romanzo Memorie di Adriano (1951). Con esso ha consegnato alla storia letteraria un autoritratto spirituale – al contempo imponente e cesellato, ma dotato, soprattutto, di struggente intensità – del grande imperatore Adriano, membro della dinastia degli Antonini e di un’epoca in cui la romanità comincia a presagire l’insorgere della propria decadenza. Tributo all’amore per la lingua e la civiltà greca, Memorie di Adriano è la punta di diamante di una ricca e variegata produzione letteraria, che trae ispirazione dalla profondissima cultura della Yourcenar (precoce traduttrice di Virginia Woolf, comparatista e acuto critico letterario) e dalla sua altrettanto profonda sensibilità (basta scorrere i suoi dati biografici: inesausta viaggiatrice, innamorata dell’Italia, esploratrice di luoghi selvaggi e solitari, eremita della letteratura e ultima grande aristocratica della narrativa francofona).
Feux (1936), l’opera da cui abbiamo scelto i passi che seguono, è probabilmente la più rarefatta e insieme autobiografica della Yourcenar. Ma come per il suo più grande e indimenticabile personaggio, Hadrièn, l’io frantumato e molteplice di Fuochi è iperstorico e iperletterario, riflette su se stesso e sull’amore come un oracolo che cerca di spiegare una profezia dopo che questa si è avverata, come un Giovanni che vuole interpretare i segni dell’Apocalisse dopo che questa ha ormai cancellato il mondo e la storia. L’amore si codifica e, codificandosi, parla oltre il tempo e lo spazio. La “crisi passionale” (così in Prefazione) che ispirò l’opera si trova quindi trasfigurata: ascoltiamo i monologhi di Fedra, di Antigone, di Maria Maddalena, di Clitennestra, di Saffo, ma, come nei Dialoghi con Leucò di Pavese – opera pubblicata dodici anni dopo, in tutt’altro contesto letterario, ma come affratellata da una spiritualità comune e da un comune dolore – le parole si sottraggono al narrativo e al contingente.  L’edizione italiana (Bompiani, 1986) ha anche un valore aggiunto: la Yourcenar ha avuto una traduttrice del calibro di Maria Luisa Spaziani. Sarà prosa lirica, o prosa d’arte che dir si voglia, ma della miglior specie.

Non darsi più, è darsi ancora. Significa dare il proprio sacrificio.
Nulla di più improprio dell’amor proprio.
Il delitto del pazzo è quello di preferirsi. Quest’empia preferenza mi ripugna in quelli che uccidono e mi spaventa in quelli che amano. La creatura amata non è più, per quel genere di avari, che una moneta d’oro su cui artigliare le dita. Non è più di un dio: è appena una cosa. Mi rifiuto di fare di te un oggetto, quand’anche fosse l’Oggetto Amato.
L’unico orrore è di non servire. Fai di me ciò che vorrai, uno schermo magari, magari del metallo buon conduttore. Tu potresti sprofondare in blocco in quel nulla dove scompaiono i morti: io mi consolerei se tu mi lasciassi l’eredità delle tue mani. Soltanto le tue mani sopravvivrebbero, scisse da te, inesplicabili come quelle degli dei di marmo diventati polvere e calce della loro stessa tomba. Sopravvivrebbero ai tuoi atti, ai corpi miserabili che hanno accarezzato. Non servirebbero più da intermediarie fra le cose e te: sarebbero mutate loro stesse in cose. Ridiventate innocenti, dal momento che non ci saresti più tu a farle tue complici, tristi come levrieri senza padrone sconcertate, come arcangeli a cui nessun dio dirami più ordini, le tue mani inutili riposerebbero sulle ginocchia delle tenebre. Le tue mani aperte, incapaci di dare o di prendere una gioia qualsivoglia, mi avrebbero lasciata cadere come una bambola rotta. Io bacio, all’altezza del polso, quelle mani indifferenti che la tua volontà non scosta più dalle mie; accarezzo l’arteria azzurra, quella colonna di sangue che un tempo sorgeva incessante come lo zampillo di una fontana dal suolo del tuo cuore. Con brevi singhiozzi soddisfatti io abbandono il capo come nell’infanzia fra quelle palme piene di stelle, di croci, di precipizi di ciò che fu il mio destino.
Non ho paura degli spettri. I vivi sono terribili soltanto perché hanno un corpo.
Non esistono amori sterili. Le precauzioni non servono a niente. Quando ti lascio, il dolore sta al fondo del mio essere come una specie di orribile figlio.

Ho conosciuto dei giovani che venivano dal mondo degli dei. I loro gesti facevano pensare alle traiettorie degli astri; non ci si stupiva che il loro duro cuore di porfido fosse insensibile; se tendevano la mano, la rapacità di quei mendicanti squisiti era un vizio da dei. Come tutti gli dei, rivelavano inquietanti parentele con i lupi, gli sciacalli, le vipere: ghigliottinati, avrebbero assunto l’aspetto livido dei marmi decapitati. Certe donne, certe fanciulle provengono dal mondo delle Madonne: le peggiori allattano la speranza come un figlio promesso alle crocifissioni future. Alcuni miei amici provengono dal mondo dei saggi, da una sorta di India o di Cina interiore: l’universo intorno a loro si dissipa in fumo, accanto a quei freddi stagni in cui si rispecchia l’immagine delle cose, gli incubi si aggirano come tigri addomesticate. Amore, mio duro idolo, le tue braccia tese verso di me sono vertebre di ali. Ho fatto di te la mia Virtù; in te accetto di vedere una Dominazione una Potenza. Mi affido a quel terribile aereo alimentato da un cuore. La sera, in quegli antri malfamati dove ci trascinavamo insieme, il tuo corpo nudo sembra un Angelo incaricato di vegliare sulla tua anima.
Mio Dio, rimetto il mio corpo fra le tue mani.
Si dice: pazzo di gioia. Si dovrebbe dire: savio di dolore.
Possedere è l’equivalente di conoscere: la Scrittura ha sempre ragione. L’amore è stregone: sa i segreti, è rabdomante, sa le sorgenti. L’indifferenza è guercia, l’odio è cieco; incespicano a fianco a fianco nel fossato del disprezzo. L’indifferenza ignora; l’amore sa; va compitando la carne. Bisogna godere di una creatura per aver l’occasione di contemplarla nuda. Ho dovuto amarti per capire che la peggiore o la più mediocre delle persone umane è degna di ispirare lassù l’eterno sacrificio di Dio.
Sei giorni fa, sei mesi fa, erano sei anni allora, e fra dieci secoli… Ah! morire per fermare il Tempo…

L’amore è un castigo. Veniamo puniti per non essere riusciti a rimanere soli.
Bisogna amare un essere per correre il rischio di soffrire per lui. Bisogna amarti molto per rimanere capace di soffrirti.

Non posso impedirmi di vedere nel mio amore una forma raffinata di dissolutezza, uno stratagemma per passare il tempo, per negare il Tempo. Il piacere compie in pieno cielo un atterraggio forzato, nel folle stridore meccanico degli ultimi sussulti del cuore. In volo planato, vi sale la preghiera; l’anima vi trascina
il corpo nell’assunzione dell’amore. Perché sia possibile un’assunzione, ci vuole un Dio. Tu hai quello che ci vuole di bellezza, di accecamento e di esigenze per sembrare un Onnipotente. In mancanza di meglio, ho fatto di te la chiave di volta del mio universo.

Ho ritrovato il vero senso delle metafore dei poeti. Mi sveglio ogni notte nell’incendio del mio stesso sangue.
https://www.criticaletteraria.org/2011/10/pillole-dautore-marguerite-yourcenar.html

Feux, Marguerite Yourcenar

Ecrit par Sophie Galabru 04.06.13 dans

Feux, 1993, 147 pages

Ecrivain(s): Marguerite Yourcenar Edition: Gallimard

Recueil de narrations lyriques ou de poèmes en prose, comme on le voudra, Feux est un des plus beaux écrits de la littérature française contemporaine. Il y a mille particularités qui convergent vers un universalisme littéraire, poétique et humain. Comme le dit l’auteur elle-même « produit d’une crise passionnelle » le recueil aurait pu s’appeler l’Amour Fou, mais c’est un titre plus à l’image du style baroque, métaphorique, classique et racinien auquel Marguerite Yourcenar a recours qui nommera ces écrits. Feux telle est la métaphore vive qui baptise ces plaidoyers passionnés.

L’ensemble proposé ici est celui de neuf récits tous empruntés à la Grèce Antique sauf Marie-Madeleine ou le salut de Dieu ; entrecoupés de réflexions brèves et foudroyantes, extraits sans doute d’écrits intimes et personnels. Yourcenar emprunte tous les sentiers détournés, narration à « il » ou « elle », nouvelle identité mythique de « je » pour nous parler de ce qui n’en finit pas de se vivre, l’amour passion. Ces détournements sont moins une mise à distance qu’une pudeur, mais peut-être aussi parce que dans l’incapacité à souffrir la souffrance ce ne peut être un « je » souffrant qui parle mais une souffrance s’écri(v)ant à travers des prête-noms. Ces personnages, ce style emphatique mais sublime, ces métaphores et ces images au service d’histoires simples soutiennent ensemble l’idée majeure selon laquelle l’amour est un support de passions abstraites et transcendantes.

L’auteur l’explique dans sa préface, elle a multiplié les calembours lyriques, les variations stylistiques, et historiques superposant le passé au moderne, c’est-à-dire le mythe et son expression contemporaine comme il était à la mode dans les années 1930-1940 chez nombre d’auteurs – Giraudoux, Anouilh –, consciente aussi parfois de s’approprier les interprétations intermédiaires – Phèdre telle que vue par Racine – elle en garde l’universalisme de la vérité passionnelle. Ce procédé  n’est pas sans évoquer un illustre prédécesseur du genre, le poète latin Ovide, qui dans les Héroïdes fait parler des personnages féminins et imagine leur plainte quant à l’indifférence ou l’absence de l’être aimé. Yourcenar fait parler des hommes, Achille, Phédon, mais c’est surtout aux femmes qu’elle donne la parole. C’est Clytemnestre qui explique à ses juges combien l’absence d’un homme aimé est provocation à l’adultère et au meurtre, c’est la poétesse lesbienne Sappho qui tente désespérément d’oublier son aimée Attis, et qui croyant aller vers le tout autre, c’est-à-dire un homme, a choisi celui qui ressemble le plus outrageusement à sa compagne perdue. C’est encore Marie-Madeleine qui raconte l’échec de ses fiançailles avec le futur évangéliste Jean qui préféra suivre le Christ, sa vie de prostituée sauvée par sa rencontre avec le Christ au terme d’une initiation douloureuse « j’ai accepté la pureté comme une pire perversion ».

Ces amours légendaires montrent les confusions du sentiment, comment en effet la passion est un mélange de pureté de l’abandon capable de virer à la perversion et à la folie dans la jalousie, le suicide ou l’obsession, de sorte que l’amour comme le feu est un éclat qui ne peut que consumer ce qu’il éclaire. Pour Yourcenar ce mélange explosif montre qu’il n’est peut-être plus un amour de l’humain qu’un contact avec un absolu, une rencontre mystique avec une transcendance.

Pourtant les quelques phrases intimes qui entrecoupent ces narrations en troisième personne disent l’exact contraire : elles crient le vécu passionnel et intime de quelqu’un, l’auteur. Elles proposent la description la plus concrète voire chimique de phénomène amoureux : « Absent ta figure se dilate au point d’emplir l’univers. Tu passes à l’état fluide qui est celui des fantômes. Présent elle se condense ; tu atteins aux concentrations des métaux les plus lourds, de l’iridium, du mercure », le passage du figuré au propre « un cœur c’est peut-être malpropre. C’est de l’ordre de la table d’anatomie et de l’étal de boucher je préfère ton corps », ou « rien de plus sale que l’amour-propre ».

De cette crise ne naît pas que l’expression lyrique du manque ou du désir, mais autant de réflexions sur la mort et le destin. Souvent l’auteur associe l’amour à une condamnation, condamnation pourtant acceptée. C’est là moins un plaisir masochiste qu’un regard lucide sur l’amour. La crise passionnelle n’est peut-être qu’anormalité ou pathologie psychique dans le règne terrestre et immanent des affaires humaines. Mais lorsque sortis de l’immanence, nous rejoignons la sphère transcendante à laquelle la passion conduit, sphère où le principe est à l’abandon de son être, où les valeurs y sont inversées – innocence et culpabilité, pureté et perversion, bonheur et malheur –, la passion n’est plus misère du moi qu’initiation douloureuse à l’au-delà de soi. Mais il n’y a qu’elle, nous dit Yourcenar, qui sera l’artisan de son destin, puisque de sa passion même, elle en est la seule responsable « qu’on accuse personne de ma vie », « Je connais les passerelles, les ponts tournants, les pièges, toutes les sapes de la Fatalité. Je ne puis m’y perdre. La mort pour me tuer aura besoin de ma complicité ». L’autre me tourmente sans moi et avec moi.

Sophie Galabru

http://www.lacauselitteraire.fr/feux-marguerite-yourcenar

FUEGOS Marguerite Yourcenar – Cronopios, sólo cronopios


Poèmes de

Marguerite Yourcenar

Cantilène pour un joueur de flûte aveuglepar Marguerite Yourcenar

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Le Poème du Joug

Les femmes de mon pays portent un joug sur leurs épaules.
Leur cœur lourd et lent oscille entre ces deux pôles.
À chaque pas, deux grands seaux pleins de lait s’entrechoquent
contre leurs genoux ;
L’âme maternelle des vaches, l’écume de l’herbe mâchée
gicle en flots écœurants et doux.

Je suis pareille à la servante de la ferme;
Le long de la douleur je m’avance d’un pas ferme;
Le seau du côté gauche est plein de sang;
Tu peux en boire et te gorger de ce jus puissant.
Le seau du côté droit est plein de glace;
Tu peux te pencher et contempler ta figure lasse.
Ainsi, je vais entre mon destin et mon sort;
Entre mon sang, liquide chaud, et mon amour, limpide mort.
Et lorsque je serai sûre que ni le miroir ni le breuvage
Ne peuvent plus distraire ou rassurer ton cœur sauvage,
Je ne briserai pas le miroir résigné ;
Je ne renverserai pas le seau où toute ma vie a saigné.
J’irai, portant mon seau de sang, dans la nuit noire,
Chez les spectres, qui eux du moins viendront y boire.
Mais avec mon seau de glace, j’irai du côté des flots.
Le gémissement des petites vagues sera moins doux que mes sanglots ;
Un grand visage pâle apparaîtra sur la dune,
Et ce miroir dont tu ne veux plus reflétera la face calme de la lune

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Quelli che ci attendevano. Una poesia di Marguerite Yourcenar (1903-1987)

Quelli che ci attendevano, si sono stancati d’attendere,
E sono morti ignorando che saremmo giunti presto,
Le braccia hanno serrato che non potevano più tendere,
Facendoci eredi d’un rimorso, non d’una memoria.
I fiori, le preghiere, il più tenero gesto.
Sono tardivi doni che niente può benedire;
Non si fanno i vivi comprendere dai morti;
La morte, quando viene la morte, ci unisce senza unirci.
Non sapremo la dolcezza delle loro sepolture.
Le nostre grida, tardi lanciate, si estenuano, ricadono,
Senza un’eco penetrano la sorda eternità;
E i morti sdegnosi, o costretti al silenzio,
Non ci ascoltano, presso la soglia nera del mistero,
Piangere su un amore che non è stato mai.
Da Sette poesie per una morta (1931), in “Poesia”, Anno IX n.94 Aprile 1996
Trad. Roberto Rossi Precerutti
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2016/03/quelli-che-ci-attendevano-una-poesia-di.html

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