Richard Strauss : Salome

Gertrude Hoffman scantily-dressed for her role in the opera Salome.

Dalle memorie di Richard Strauss (nota 1)

Ero al Piccolo Teatro di Max Reinhardt, a Berlino, per vedere Gertrud Eysoldt nella Salomé di Wilde. Dopo la rappresentazione incontrai Heinrich Grünfeld, che mi disse: «Strauss, questo sarebtóè proprio un soggetto d’opera per Lei». Fui in grado di rispondere: «Già lo sto componendo». Il poeta viennese Anton Lindner mi aveva già mandato il raffinato dramma e si era offerto di trarne un “libretto” per me. Acconsentii, e mi mandò alcune scene iniziali messe in versi con ingegno, senza che io mi decidessi a iniziare la composizione della musica. Finché un giorno mi domandai: perché non comincio subito, senza aspettare altro, da «Wie schön ist die Prinzessin Salome heute Nacht!» (Com’è bella la principessa Salome questa sera!)? Da quel momento in poi non fu difficile ripulire il testo dalle fioriture letterarie, fino a farlo diventare proprio un bel «libretto». E ora che la danza e specialmente l’intera scena finale sono intessute di musica, non ci vuol molta bravura a dire che il lavoro «reclamasse la musica». Sì, sicuro. Ma bisognava saperlo intendere! Già da tempo disapprovavo che nelle opere di soggetto orientale ed ebraico mancassero il colore autenticamente orientale e il sole ardente. Questa esigenza m’ispirò un’armonia veramente esotica, variegata da insolite cadenze come seta cangiante. Il desiderio di caratterizzare al massimo i personaggi mi portò alla bitonalità: una caratterizzazione soltanto ritmica, quale è impiegata da Mozart nel più geniale dei modi, non mi pareva sufficientemente forte con il contrasto fra Erode e i Nazareni. Il mio si può considerare un esperimento isolato adatto a un particolare soggetto, ma non ne consiglierei l’imitazione. – Schuch, persona straordinaria, ebbe il coraggio di accettare di eseguire anche Salome; ma le difficoltà cominciarono già alla prima prova di lettura al pianoforte. Tutti i cantanti si erano dati appuntamento per restituire le loro parti al direttore; tutti tranne il cèco Karl Burrian [Erode] che, interrogato per ultimo, rispose: «La so già a memoria». Bravo! – Allora gli altri si vergognarono e le prove poterono effettivamente iniziare. Considerando che la parte era faticosa e corposa l’orchestra, il ruolo della principessa sedicenne dalla voce di Isolda – una cosa così non si scrive, signor Strauss: o l’una cosa o l’altra! – era stato affidato alla trentasettenne Marie Wittich, soprano drammatico spinto. Alle prove di scena ogni tanto faceva sciopero protestando indignata come la moglie di un borgomastro sassone: «Questo non lo faccio, sono una donna per bene». Il regista Wirk, che pretendeva da lei «perversità ed empietà», era disperato! Eppure la signora Wittich, che naturalmente come figura non era adatta alla parte, aveva ragione, ma in un altro senso: perché ciò che attrici esotiche, degne di un varietà di infimo ordine, si sono permesse di fare in rappresentazioni posteriori muovendosi come serpenti e facendo volteggiare per aria la testa di Jochanaan, ha spesso superato ogni limite di decenza e di gusto! Chi è stato in Oriente e ha osservato il decoro delle donne di laggiù capirà che Salome, giovinetta casta e principessa orientale, deve essere rappresentata con la massima semplicità e nobiltà di gesti; altrimenti, incapace com’è di fronteggiare il miracolo del mondo straordinario, ostile che si trova davanti, invece di pietà susciterà solo raccapriccio e orrore. (A questo proposito si osservi che i si bemolle acuti del contrabbasso al momento dell’uccisione del Battista non sono le grida di dolore lamentoso bensì il gemito della vittima che sfugge dal petto di Salome in spasmodica attesa. Alla prova generale questo passo inquietante suscitò tanto spavento che il conte Seebach, temendo una reazione di ilarità, mi indusse a coprire un poco il contrabbasso con un si bemolle tenuto del corno inglese). In contrasto con una musica estremamente nervosa, la recitazione degli interpreti deve attenersi sulla scena alla massima semplicità; soprattutto Erode, invece di muoversi continuamente come un nevrastenico, dovrebbe riflettere che, da parvenu orientale, desidera imitare nel contegno il maggior Cesare di Roma in presenza dei suoi ospiti romani: mantenendo cioè sempre compostezza e dignità, nonostante momentanei sbandamenti erotici. Agitarsi sul palcoscenico e davanti al palcoscenico contemporaneamente è troppo! Per questo basta l’orchestra! «Dio mio, che musica nervosa! È proprio come se tanti scarafaggi ti scorrazzassero nei pantaloni», gemette disperato mio padre quando gliene pestai qualche parte al pianoforte, pochi mesi prima che morisse. Non aveva tutti i torti. Sebbene l’avessi sconsigliata, Cosima Wagner insistette una volta a Berlino che le suonassi singoli brani; dopo la scena finale osservò: «Questa è pura pazzia! Lei è per l’esotico, Siegfried per il popolare!». Bum!

A Dresda il successo fu quello che là tocca a tutte le prime. Ma dopo: all’Hotel Bellevue, gli aruspici scrollavano la testa profetando che l’opera sarebbe stata data forse in qualche grande teatro, ma sarebbe scomparsa presto. Tre settimane dopo era stata messa in programma da dieci teatri, mi pare, e a Breslavia, con un’orchestra di settanta elementi, ebbe un successo sensazionale. Poi la stampa cominciò a sfornare un mucchio di sciocchezze; cominciarono le opposizioni del clero – all’Opera di Vienna la prima rappresentazione si ebbe solo nell’ottobre 1918, dopo uno scabroso scambio di lettere con l’arcivescovo Piffl – e quelle dei puritani a New York dove, dopo la prima, l’opera dovette venir tolta dal cartellone per l’intervento di un certo signor Morgan. L’Imperatore della Germania permise la rappresentazione soltanto quando Sua Eccellenza Hülsen ebbe la trovata di alludere, alla fine, all’arrivo dei Re Magi, con la comparsa della stella del mattino. Guglielmo II disse una volta al suo sovrintendente: «Mi dispiace che Strauss abbia composto questa Salome; mi è molto simpatico, ma con questa si farà un danno terribile». Questo danno mi permise di costruirmi la villa a Garmisch! A questo proposito, voglio ricordare con gratitudine l’intrepido editore berlinese Adolphe Fürstner, che ebbe il coraggio di pubblicare l’opera: cosa che dapprincipio non suscitò affatto l’invidia dei suoi colleghi (per esempio di Hugo Bock). Così però quell’ebreo intelligente e gentile si assicurò anche Il cavaliere della rosa. Onore alla sua memoria!

Richard Strauss

Guida all’ascolto (nota 2)

La consapevolezza critica del presente e la volontà innovativa nell’arte sono caratteri che per molti decenni si giudicava mancassero nella musica dei due ultimi protagonisti nella storia dell’opera, Strauss e Puccini. Che anch’essi esprimessero, ognuno con le sue capacità e con la sua cultura, l’inquietudine e la grande tristezza della cosiddetta modernità, che conoscessero cioè l’angoscia della fine dell’arte, era da molti negato non fosse altro che per la loro colpa di essere musicisti enormemente popolari. Qualche riconoscimento, se c’era, era così circoscritto e cauto che anticipava quasi sempre un biasimo critico e una riprovazione morale. Oggi sembra sorprendente quanto a lungo sia durata la paradossale intesa tra snobismo antiromantico e filisteismo in differenti gradi della cultura europea contro le opere di Strauss e specialmente contro Salome. Da parte di Gide e di Thomas Mann, di Gabriel Fauré, di Max Reger, di Busoni, come da parte di Cosima Wagner e di Pfitzner, di Boito e di Barilli o di un qualsiasi cronista musicale di allora un interesse per Salome era quasi sempre l’occasione di un giudizio ironico, infastidito e perfino sprezzante.

Oggi l’attitudine è, almeno in parte, diversa, perché ha perso ragione concettuale e sostanza polemica l’ostilità modernista contro il tardo romanticismo e l’estetismo decadente. Tuttavia l’ammirazione dei più è rivolta alla musica della sapiente vecchiaia di Strauss, cioè alla sua arte classicheggiante e crepuscolare. Quanto a Salome ed Elektra, invece, qualcuno giudica che questa musica ostenti una retorica, fastosa ma ormai innocua, anche se, certo, magistralmente abile, dell’eccesso e dei cattivi sentimenti e che quindi essa sia solo una geniale e calcolata provocazione gettata alla decenza borghese di un secolo fa, una provocazione priva oggi di energia innovativa. Si può non essere d’accordo. L’esaltazione degli impulsi psichici oscuri, il solipsismo maniaco, tipico di tutti i personaggi della Salome di Strauss, la loro indifferenza cieca al principio di realtà, il simbolismo del Nulla, l’onnivora ossessione descrittiva di questa musica, la poetica, infine, della decorazione fanno anche di Salome un’opera necessaria al nostro concetto di arte moderna. E vedremo che la prevaricazione del particolare naturalistico e dell’abbellimento sulla forma generale è solo apparente, che sotto la dispersione estetistica vivono e operano il magistero compositivo ben noto, una solida intelligenza analogica e costruttiva e una matura capacità drammatica. Certo, il calcolo degli effetti Strauss lo fece e la sopraffina commistione di moda, mondanità, scandalo che la sua musica mette in atto, ebbe il risultato, atteso, di creare con Salome l’avvenimento musicale-teatrale in tutta Europa e in America per quella stagione 1905-1906 (solo nel 1906 la misero in scena, dopo la prima del 9 dicembre 1905 a Dresda, almeno altri 11 teatri in Europa) e per molte stagioni a venire. Salome non è più un caso di mondanità né di divismo né di scandalo. Ma per noi segna, con Tosca (1900) e con Pelléas (1902), l’inizio del teatro musicale moderno.

«Mi dispiace che Strauss abbia composto questa Salome – disse il Kaiser Guglielmo II all’epoca della prima rappresentazione a Berlino (5 dicembre 1906) – lui mi è molto simpatico, ma si farà un danno enorme con quest’opera». E Strauss commenta nei suoi Ricordi: «Con questo danno mi sono costruito la villa a Garmisch!». Poi nel 1907 Salome arrivò a Parigi, al Théàtre du Chatelet (8 maggio, era data in tedesco, diretta da Strauss, con Emmy Destinn, che tre anni dopo fu la prima Minnie nella Fanciulla del West a New York, e Karl Burrian, che aveva cantato Erode già a Dresda). Fu una magnifica occasione di mondanità, essendo presente tutta Parigi, dal Presidente della Repubblica in giù, anzi essendo presente la migliore nobiltà, di sangue e di cultura, d’Europa. Per Strauss quella Salome di Parigi fu, insomma, la consacrazione della celebrità mondiale. «Posso annunziarLe – gli disse qualcuno durante gli applausi finali – che il Presidente Le consegnerà la Légion d’Honneur». «Me la merito» mormorò lui tranquillo e soddisfatto.

In quel momento e proprio per Salome Strauss, a poco più di quaranta anni, era il più acclamato e il più discusso di tutti i musicisti, in Germania e fuori. Era il primo: «il primo per genialità, il primo nel saper dimostrare con la pratica che un artista con la sua arte può dominare la vita e il mondo» (come scrisse di lui Paul Bekker). Aveva in sommo grado quello che Thackeray giudicava il dono principale dei grandi uomini, il successo. E nessuno nel primo decennio del secolo contribuì con autorità pari alla sua a liquidare l’immagine filistea dell’artista puro e povero. Egli non fu mai un bohémien, né docente di conservatorio, né sentì mai il bisogno di essere un dandy. Nell’unione tra superiore perizia tecnica, disciplina e creazione e con l’ostentata praticità del lavoro (evidente, per esempio, nel tranquillo distacco con cui egli dirigeva la sua stessa musica) Strauss aggiornò la figura e la collocazione del musicista-artista nella società borghese regolata dai principi della produzione e del profitto. Da Salome in poi egli fu un geniale, e di necessità autoritario, capitalista dell’arte, un creatore di successo e di ricchezza. Ma, come ho già detto, fu anche consapevole, con tenacia sempre maggiore nel passare degli anni, che l’arte superiore, la bellezza come forma duratura, sono un bene non naturale né necessario nella nostra moderna società, edonistica, meccanizzata, antiestetica, quella stessa che in apparenza lo aveva assecondato e arricchito. Nella sua maturità di operista, che si inizia con Salome appunto, della società egli espresse dapprima l’aspirazione allo spettacolare e al crudele in Salome e in Elektra, con una poetica dell’eccesso e dell’eroismo negativo. Le due opere sono una grandiosa esasperazione degli spiriti dell’ultimo Ottocento, sono l’immagine conclusiva e contratta della tradizione wagneriana, che in esse si consuma. Da allora ogni altro tentativo di dramma musicale in Germania, in Italia, in Francia, è sembrato tardo e fragile.

Dopo la guerra mondiale, con la fine dell’unità spirituale europea, nella quale egli si era formato e credeva, in un mondo per lo più intossicato dalle ideologie e dai nazionalismi e frastornato dalla bruttezza rumorosa Strauss reagì da artista par suo, con l’alta disciplina delle forme, con una calma malinconia, con un’arguta e serena ironia, infine con una tale sapienza da creare, in questo secolo dell’anticlassicismo o del neoclassicismo o dell’astrattismo, un suo unico, solido, prezioso classicismo. Ma questa è storia successiva.

Torniamo a Salome e alle sue premesse. Nel periodo tra il 1886 e il 1903 Strauss aveva lavorato, quasi senza interrompersi, ai nove Poemi Sinfonici che, uno dopo l’altro, avevano costituito l’affermazione via via più risoluta della sua personalità. La sua fantasia e la sua cultura si erano nutrite di ideali vitalisti e di estetismo, in una specie di unione dei tre ispiratori della cultura tedesca di fine secolo, Schopenhauer, Wagner, Nietzsche. I Poemi Sinfonici di Strauss, nella concitata commistione di spiritualismo tardoromantico e di naturalismo decadente trasformarono dall’interno e infine esaurirono la tendenza cosiddetta espressiva della musica, la tendenza, cioè, della musica a programma e del sinfonismo descrittivo. Quanto oltre potesse spingersi la musica nell’evocare immagini, nel raffigurare personaggi, nel rappresentare gesti, nel colorire impressioni e sensazioni, solo Strauss ha saputo dimostrare come nessuno prima di lui, neppure Berlioz né Liszt. Ma con i Poemi di Strauss il sinfonismo tedesco giunge anche alla saturazione dei suoi mezzi espressivi. Qui l’idea musicale, infatti, per quanto eloquente sia, concisa ed efficace all’ascolto, non ha più capacità autonoma di significazione, bensì rimanda ad altro che le è esterno. Ciò verso cui i suoni si protendono e che intendono plasmare nel loro linguaggio, non è un contenuto letterario, un principio spirituale, un simbolo culturale, come era nei poemi di Berlioz e di Liszt: no, nel sinfonismo di Strauss ci sono ritratti fisionomici, azioni, gesti, trasposti in un lessico armonico-strumentale di eccezionale energia raffigurativa, ma bisognoso della parola e di una vicenda compiuta per attuarsi perfettamente, bisognoso cioè della risolutiva chiarificazione della sua sostanza teatrale.

La strada a Salome, al primo capolavoro del teatro musicale tedesco dopo Wagner, passa attraverso l’esperienza di un mutamento di civiltà. Con Wagner la musica, affermando se stessa come arte delle arti e forma superiore di conoscenza, cioè come unitaria espressione di tutte le energie intellettuali e psichiche dell’uomo, si era fatta dramma. Ma poi in una società che con esigenze sempre più decise pretendeva dall’arte la decorazione della banalità quotidiana e il risarcimento della perdita di emozioni spirituali, alla musica vennero meno i valori assoluti. Il passo che Strauss seppe compiere per primo, da artista responsabile e colto entro una grande tradizione e dotato di straordinario istinto scenico, fu quello di tradurre in atto nel teatro musicale il cambiamento delle condizioni civili, sostituendo una nuova concezione dell’opera a quella, estinta, del dramma nazionale di idee. Così si spiega l’ostilità di tutti i wagneriani di Bayreuth, con a capo Siegfried Wagner, Thode e Houston-Chamberlain, a Salome e poi alle altre opere di Strauss (dopo aver ascoltato qualche pagina di Salome suonata al pianoforte da Strauss stesso Cosima Wagner fu molto scortese: «Questa è pura follia! Lei è per l’esotico, Siegfried per il popolare!»).

Ma della giusta direzione del passo fatto da Strauss qualche merito va anche alla raffinata raccolta di tutti i caratteri significativi dell’estetismo cosmopolita che è la Salome di Oscar Wilde, di cui Strauss si appropriò con grande abilità e con un coraggio che allora poteva sembrare imprudenza. Infatti già in anticipo si potevano dare per sicuri lo scandalo di una parte del pubblico e i divieti delle varie censure (con rammarico di Mahler, che voleva dirigerla, a Vienna fu proibita la prima rappresentazione austriaca, che toccò a Graz, il 16 maggio 1906, anche qui con avvenimento mondano memorabile: agli spettacoli di Graz si videro nel pubblico, tra molti, Mahler e sua moglie Alma, Schönberg, Alban Berg, Zemlinsky, Puccini; su in galleria c’era anche un giovane pittore allora sconosciuto, Adolf Hitler).

Dunque, quando Strauss concluse il ciclo dei Poemi Sinfonici volgendosi al canto teatrale e alla scena, fu per qualcosa di radicalmente nuovo, che continuava, sì, il suo stile sinfonico ma in un campo sentimentale ed espressivo più ampio e più produttivo (Guntram, 1894, e Feuersnot, 1901, le due opere di Strauss che precedettero Salome, rientrano nel tipo di opera tedesca tradizionale e quindi sono meno significative, sebbene contengano, specialmente la seconda, musica ammirevole). La parola, che era attesa, come abbiamo detto, ed era ormai necessaria, si aggiunse quale elemento chiarificatore dell’invenzione musicale-drammatica, la cui estrinsecazione primaria restò di competenza dell’orchestra, secondo il genuino talento del compositore. Tuttavia, essendo Strauss un vero musicista di teatro, contano, in Salome e da allora in poi, anche la ricchezza, l’originalità, la varietà delle forme vocali, e pertanto la facezia su Salome definita «concerto per orchestra con accompagnamento di voce umana» (si dice sia stata una trovata di Gabriel Fauré) è, come tutte le battute del genere, immeritatamente nota, futile e poco pertinente in tutti e due i termini. Infatti, la prodigiosa invenzione strumentale, anche se è tutta tematica e densamente contrappuntistica, non tanto costruisce forme strumentali autonome quanto mira alla narrazione e all’evidenza teatrale (e compiutamente le attua); e la parola cantata trae dalle suggestioni decadenti del testo ma soprattutto dalle decise sollecitazioni dell’orchestra un’energia espressiva di efficacia infallibile.

Perciò Salome entrò nel repertorio presto e con enorme successo. Strauss non ha mai voluto lavorare e creare fuori dal suo contesto civile per metterlo sotto accusa; anzi, della società in cui viveva egli seppe sfruttare gli elementi nuovi a vantaggio della sua esperienza estetica. Magnifico simbolo di una società cosmopolita, facoltosa, edonistica, elegante, Salome è una delle ultime manifestazioni dell’intesa culturale franco-tedesca, già produttiva dalla metà dell’Ottocento e rianimata dall’incontro tra wagnerismo ed estetismo simbolistico. Fu, come è noto, la cultura dell’alta borghesia europea. E nella musica significò la moda della strumentazione lussureggiante in funzione di una scrittura prevalentemente cromatica e, nel contenuto, dei soggetti esotici o leggendari, e simbolici: tutti caratteri a metà via tra Wagner e il gusto francese, i quali contribuirono a disegnare la fisionomia stilistica di questa Salome, che non somiglia a nessuna opera tedesca del tempo.

È vero, tuttavia, che in Salome è assente l’ambizione di un’arte aristocratica e critica. Strauss, infatti, se addensa qui ogni sorta di esasperazioni e angosce, una non l’ha mai provata, quella relativa all’impotenza dell’arte e dell’artista (anche se capì, come ho detto, quanto antiartistico fosse il Novecento). Des Esseintes, che venti anni prima si era recluso nella mistica adorazione della Salomè di Gustave Moreau, avrebbe respinto con fastidio la sfrenata incarnazione musicale di quell’immagine pittorica; come la respinsero altri francesi fini e difficili, Proust, Gide (il quale era difficilissimo da contentare in ogni caso, e amava solo Chopin), Debussy e i musicisti della Schola cantorum (alcuni esponenti, insomma, dello snobismo che ho ricordato all’inizio). Ma del vero estetismo Strauss, pur senza pose letterarie, condivise per allora una premessa principale: la musica in Salome considera irrilevante la partecipazione etica e perfino affettiva del soggetto creante e quindi essa conosce appena l’ironia e non conosce la pietà (come disse Romain proprio a Strauss).

Anche nell’analisi del materiale linguistico non ci si libera di quest’opera con troppa disinvoltura. È vero che la modernità dei procedimenti sonori è per lo più apparente, dato che sono reperibili in essi, più o meno chiaramente, le funzioni dell’armonia tradizionale (è il caso della cadenza clamorosamente dissonante dopo le ultime parole di Salome, cadenza che risulta dalla sovrapposizione della piagale sulla sesta eccedente o sesta tedesca). È vero perfino che la linea musicale scade talvolta nella cantabilità generica. Ma è vero, ed è ciò che più conta, che questa musica ha per suo carattere primario un respiro nervoso, allarmato e, si direbbe, disorganico, una disposizione interna dei periodi che vuol negare la spontaneità del canto. In una vita senza principi e senza criteri l’idea di durata è sostituita da un’ansiosa sensibilità e da una cieca agitazione. Così accade che l’invenzione musicale non paia mai (ma, in realtà, è) subordinata ad ampie relazioni strutturali, perché essa prevede ed ottiene, con aggressività illimitata, la reazione istintiva di chi ascolta.

L’analisi particolareggiata dei procedimenti costruttivi, dell’architettura generale (che è ben salda), dell’efficace taglio teatrale, della perfetta caratterizzazione vocale di ogni personaggio (anche dei secondari: Narraboth, certo, e, ad esempio, i due Nazareni), dei rapporti tematici, dei segnali espressivi, numerosi, complessi, spesso molto profondi, quest’analisi pretenderebbe un lungo saggio e non un articolo occasionale (ed è strano che un’indagine esauriente su un’opera così popolare ancora non esista; tra tante guide all’ascolto semplicemente esplicative ed elencative si può consigliare la raccolta di vari saggi, di cui alcuni pregevoli, curata da D. Puffet, R. Strauss, Salome, Cambrìdge Univ. Press, Cambridge 1989).

Dunque, qui dobbiamo di necessità limitarci a qualche suggerimento relativo alla fisionomia coloristico-timbrica dell’opera e a pochi elementi meno noti, meno evidenti del sistema tematico.

Per Salome si parla sempre dell’orchestrazione fantasmagorica ed opulenta ed è questa la prima impressione dell’ascolto. Ma ci sono anche sottigliezze e artifici ammirevoli. Un caso per tutti. È evidente che Strauss ha immaginato e attuato un mondo sonoro esotico, licenzioso, folle, quasi il corrispondente musicale di un’immagine pittorica. Ma di quella corte e di quelle figure eccentriche egli ha inventato anche l’idioma eccitato, querulo, stridente. La sovrastante sonorità nasale dei clarinetti, costretti spesso al registro acuto e a fraseggi sforzati, vuole imitare i suoni tipici non tanto di un carattere etnico (probabilmente anche di questo, perché Strauss deve aver progettato l’imitazione di una parlata semitica: sebbene alla corte degli Erodi non si parlasse aramaico, bensì greco), quanto di un’isteria generale, un’isteria non solo delle voci, ma anche dei pensieri e dei sentimenti.

E anche questi disordini dell’interiorità la musica esprime, con tutti i mezzi a sua disposizione e specialmente con le allusioni tematiche. L’opera, come si sa e come si avverte anche al primo ascolto, è interamente concepita su alcuni (in verità, molti) temi collegati ai personaggi, alle loro emozioni, ai loro pensieri. Questi temi, tutti mirabilmente concisi ed eloquenti, si incontrano, si sovrappongono, si svolgono, si mutano secondo un dinamismo sinfonico-contrappuntistico che, sebbene sia molto avanzato nell’elaborazione, non tradisce né confonde le necessità drammatiche e narrative, anzi le approfondisce. Tutto ciò che passa e che si agita nella psiche e nella mente dei personaggi noi lo ascoltiamo nella vicenda sonora.

Anche da questa infinita ricchezza addito un esempio solo. Il primo dei temi che appartengono a Jochanaan, è costituito da tre intervalli discendenti di quarta. Nella prima enunciazione completa (preceduta da anticipazioni confuse, che creano attesa) esso è do-sol, fa-do, la-(re diesis)-mi. È un tema ieratico, arcano, enigmatico, ma dotato di una strana autorità (sì che l’intervallo di quarta diventa un segnale in tutta l’opera) e di una proteiforme mutabilità nel rapporto che tutti gli altri personaggi hanno con il temibile e desiderabile santo. Se Salome fissa il delirante asceta, il tema stesso, attratto nel sortilegio dell’eros, si carica di stupore, di attesa, di desiderio. Ma ben altre trasformazioni significative le sei note subiscono, fino al grottesco. Jochanaan, inorridito, ha maledetto Salome ed è scomparso nel buio del suo pozzo. Alla fine dell’interludio (la disperazione erotica di Salome, respinta e disprezzata) l’uragano sinfonico si placa in uno scattante disegno cadenzale, un vero gesto sonoro di furore e di minaccia (dominante di si bemolle maggiore/tonica di do diesis minore: che è la tonalità esclusiva di Salome!). Poi un confuso pensiero pulsa nel buio dell’orchestra, un ricordo e un rancore nel fondo della coscienza della donna: il controfagotto e i fagotti svolgono, lento, indeciso, il tema per quarte. Su questa truce oscurità all’improvviso il clarinetto in mi bemolle strilla lo stesso tema, ora rapido, goffo, ridicolo: è una sorpresa geniale, una riuscita tensione che sposta il nostro interesse drammatico da Salome a una figura che la scena visibile ancora ignora. Nel testo di Wilde l’entrata di Erode è preparata, con un brillante colpo di scena, da una battuta del Primo Soldato: “Le Tétrarque ne viendra pas ici. Il ne vient jamais sur la terrace. Il a trop peur du prophète”, e in quel momento si vede Erode. Ci si rammarica a torto che Strauss abbia eliminato quelle parole – a torto, perché egli con la musica ha ottenuto un effetto più conciso e più energico. Prima di vedere la figura del Tetrarca noi ne conosciamo la stravagante ossessione.

Ogni risorsa espressiva, ogni relazione, ogni allusione in Salome è concepita e realizzata con tale sapienza e sottigliezza. Come dicevo, un’indagine sistematica ancora manca e forse non se ne sente l’urgenza: perché in pochi altri capolavori del teatro musicale le raffinate complicazioni della fantasia e del linguaggio operano con tale immediatezza sulla coscienza di chi ascolta.

Franco Serpa

http://www.flaminioonline.it/Guide/Strauss/Strauss-Salome.html




Torino : Festival Richard Strauss – Richard Strauss post

DER ROSENKAVALIER , Strauss Richard; Zweig Stefan, Strauss e il …

Questa voce è stata pubblicata in speciale lirica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.