KOSOVO – Republika Srpska news by eastjournal.net

KOSOVO: Ucciso Oliver Ivanovic, uno dei maggiori leader della comunità serba

Riccardo Celeghini 4 giorni fa

Oliver Ivanović, uno dei maggiori leader politici dei serbi del Kosovo, è stato ucciso questa mattina a Nord Mitrovica. L’omicidio è avvenuto di fronte alla sede del suo partito, Građanska inicijativa “Srbija demokratija pravda”, dove Ivanović è stato raggiunto da cinque colpi di pistola. Alla notizia, il governo serbo ha annullato il previsto incontro di oggi a Bruxelles con la delegazione kosovara – parte del dialogo tra Kosovo e Serbia sotto la tutela dell’Unione Europea. Il capo dell’Ufficio per il Kosovo e Metohija del governo serbo, Marko Đurić, ha definito l’omicidio un atto criminale e terroristico, nonché un attacco a tutto il popolo serbo. Il governo kosovaro ha condannato con fermezza l’omicidio.

Di ritorno da Bruxelles, il presidente della repubblica Aleksandar Vučić, ha convocato per mezzogiorno una sessione straordinaria del Consiglio di Sicurezza Nazionale, alla quale è seguita la conferenza per i giornalisti alle 13. Alla conferenza, Vučić ha confermato che si tratta di un attentato terroristico contro tutto il paese e che i responsabili verranno consegnati alla giustizia.
Il presidente ha poi approfittato della presenza dei media per condannare le speculazioni pubblicate sui social poco dopo la conferma della morte di Ivanović, e per affermare che queste provengono da coloro che vorrebbero che “lo stivale albanese calpesti il nord del Kosovo”. Inoltre, Vučić ha fatto riferimenti diretti ai suoi oppositori politici, tra cui Saša Janković e Dragan Đilas, per difendersi dalle accuse di tradimento della questione kosovara.

Ivanović è stata una delle figure preminenti della comunità serba in Kosovo negli ultimi venti anni. La sua carriera politica inizia negli anni della guerra, quando diventa presidente del Consiglio Nazionale Serbo per il Nord Kosovo e Metohija. Da allora è emerso come uno dei leader più dialoganti del nord Kosovo, spendendosi come interlocutore sia con le organizzazioni internazionali che con le istituzioni di Pristina, divenendo deputato nel parlamento kosovaro. La sua carriera subisce una svolta nel 2014, quando viene arrestato, tra le proteste della Serbia, con l’accusa di crimini di guerra commessi a danno di albanesi durante il conflitto. Nel 2016 Ivanović viene condannato a 9 anni di detenzione, ma un anno dopo il verdetto viene annullato dalla Corte di Pristina, che ordina un nuovo processo. Durante la detenzione, Ivanović concorre alla carica di sindaco di Mitrovica Nord nelle elezioni locali del 2014, dove viene sconfitto da Goran Rakić, candidato della Lista Serba, il partito sostenuto dal governo di Belgrado. La sfida si ripete alle elezioni locali del 2017, quando Ivanović viene nuovamente sconfitto da Rakić al primo turno.

Proprio la decisione di opporsi al partito controllato dal governo di Belgrado è costata ad Ivanović un progressivo isolamento all’interno del panorama politico della comunità serba in Kosovo. Durante l’ultima campagna elettorale, Ivanović ha denunciato un clima di intimidazioni e minacce contro di lui e contro il suo partito da parte della Lista Serba. Nei mesi che hanno preceduto le elezioni quattro candidati di Iniziativa si sono ritirati in circostanze poco chiare e lo stesso Ivanović ha trovato molte difficoltà nell’accedere ai media serbi in Kosovo.

Questa situazione lascia presupporre che dietro all’omicidio ci possano essere regolamenti di conti all’interno della leadership politica serba del Kosovo, che da sempre è contrassegnata da violenze, aggressioni e minacce di diversa natura. D’altro canto, anche l’opzione di un omicidio interetnico non può essere scartata. Le accuse che pesavano su Ivanović erano particolarmente pesanti, tra cui l’aver orchestrato un’operazione di espulsione ed uccisione della popolazione albanese che viveva nel lato nord di Mitrovica, in qualità di leader di un’unità paramilitare in azione durante il bombardamento della Nato sulla Serbia di Slobodan Milosević. Nonostante si sia dichiarato sempre innocente, dunque, i nemici nel campo albanese non mancano.

Quel che è certo è che l’uccisione di un politico di tale livello rischia di avere delle ripercussioni pesanti nell’equilibrio inter-etnico e politico del Kosovo. In un momento di crescente tensione, dovuta all’attesa dei primi rinvii a giudizio della Corte Speciale per i crimini commessi dall’UÇK, l’Esercito di Liberazione del Kosovo, l’omicidio di Ivanović getta nuove ombre sul futuro del Kosovo.

KOSOVO: Ucciso Oliver Ivanovic, uno dei maggiori leader della comunità serba

Riccardo Celeghini 3 giorni fa

La Corte Speciale per i crimini commessi dall’Esercito di Liberazione del Kosovo (UÇK) è già a rischio prima di cominciare. Le forze politiche al governo in Kosovo, difatti, minacciano di abrogare quest’organo, nato con il compito di perseguire i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità ed altri crimini commessi tra il 1998 e il 2000 dall’UÇK nella sua guerra contro le forze della Serbia di Slobodan Milošević. Il tentativo è stato per ora frenato dalla comunità internazionale, che ha reagito duramente contro una mossa che mette a serio rischio le relazioni esterne del paese, proprio nell’anno in cui si festeggia il decennale dell’indipendenza.

Il blitz di dicembre

Il tentativo di fermare l’azione della Corte Speciale è stato reso pubblico la sera del 22 dicembre scorso. In quella data, 43 deputati appartenenti ai partiti di maggioranza hanno firmato una richiesta di sessione straordinaria del parlamento per revocare la legge che nel 2015 ha creato la Corte stessa. Solo un massiccio intervento degli attori internazionali presenti in Kosovo ha bloccato la proposta. L’ambasciatore americano ha parlato di una pugnalata alle spalle degli Stati Uniti, quello britannico della peggior notte nella storia del Kosovo dai tempi della guerra, mentre l’Ufficio dell’Unione europea ha definito la scelta come spaventosa.

L’attacco del governo

Questa presa di posizione immediata ha fermato l’iniziativa, ma non ha placato le polemiche. Già ad inizio del nuovo anno, gli attacchi contro la Corte sono ripresi. La critica maggiore espressa da diversi esponenti politici è che quest’organo giudiziario rappresenta uno strumento volto a punire la popolazione albanese e la sua lotta contro un regime discriminatorio quale era quello di Milošević. Una posizione condivisa dai tre partiti di governo, l’Alleanza per il futuro del Kosovo (AAK), il Partito Democratico del Kosovo (PDK) e Iniziativa – NISMA, tutti guidati da ex-leader dell’UÇK.

Il primo ministro Ramush Haradinaj si è detto fermamente contrario alla Corte, sostenendo il tentativo di abrogarla. Ancora più duro ci è andato suo fratello, Daut, deputato per il suo stesso partito, l’AAK, che ha lanciato velate minacce: ad i primi arresti, ha dichiarato, gli ex-militanti dell’UÇK sono pronti a mobilitarsi. Più diplomatico è stato il presidente della Repubblica e storico leader della guerriglia albanese durante la guerra, Hashim Thaçi. Thaçi, fondatore del PDK, ha fatto sapere che per ora l’impegno preso rimane, ma il parlamento è sovrano e può decidere, se c’è la maggioranza, di abolire la Corte.

Le preoccupazioni della comunità internazionale

Che la temperatura intorno alla questione sia ancora alta lo dimostra il viaggio a Pristina di due inviati di Francia e Germania per le questioni relative ai Balcani occidentali, avvenuto il 10 gennaio. I due diplomatici hanno incontrato le più alte cariche dello stato, ricordando come un nuovo tentativo del parlamento di abolire la Corte danneggerebbe pesantemente le relazioni tra il Kosovo ed i suoi partner occidentali. Un concetto ribadito ancora dall’Unione europea due giorni dopo con un comunicato ufficiale. Le preoccupazioni sono dovute al fatto che la richiesta dei 43 deputati non è stata stralciata, dunque potrebbe essere sottoposta a breve alla presidenza dell’assemblea, e, se approvata, andare al voto in aula.

I rischi che sta correndo il Kosovo sono altissimi. In un contesto già complicato dai casi legati al mancato accordo per la definizione dei confini con il Montenegro e ai ritardi della messa in atto dell’Accordo di Bruxelles raggiunto con la Serbia, nonché dal recentissimo omicidio di uno dei leader della comunità serba, Oliver Ivanović, gli attacchi alla Corte stanno innervosendo ulteriormente i paesi europei e gli Stati Uniti. Un’azione così mirata e aggressiva lascia fortemente intendere che i primi rinvii a giudizio stanno per arrivare, e non è escluso che toccheranno le più alte cariche istituzionali del Kosovo. L’atmosfera che si respira oggi lascia intendere che se questo accadrà, i rischi di tensioni nel paese sono reali.

Le origini della Corte

La Corte Speciale, propriamente chiamata Specialist Chambers and Specialist Prosecutor’s Office, è nata per perseguire i presunti crimini commessi dall’UÇK contro civili serbi, rom ed albanesi, sulla base delle accuse raccolte in un report del 2011 del Consiglio d’Europa. Proprio da questo report è nata la Special Investigative Task Force (SITF), che dal 2011 ad oggi ha condotto un vasto numero di indagini. La Corte Speciale è stata formata proprio con l’intento di giudicare i responsabili dei presunti crimini sulla base di quanto raccolto dalla SITF. A differenza del Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, la Corte Speciale deve la sua fondazione ad una legge approvata dal parlamento di Pristina, dunque è parte del sistema giuridico kosovaro, ma, proprio come il Tribunale, ha sede a l’Aja e ha giudici internazionali, per garantirne la sicurezza. La Corte dovrebbe emettere i primi rinvii a giudizio nelle prossime settimane.

KOSOVO: La Corte Speciale per i crimini dell’UCK è sotto attacco, sale la tensione

Republika Srpska: paramilitari e irredentismo “per la sopravvivenza del popolo serbo”

Alfredo Sasso 3 giorni fa

Questo articolo è stato originariamente pubblicato su OBC Transeuropa

Un uomo solo, con posa imponente in mezzo a un grande viale vuoto, attorniato da due ali di folla e seguito a lunga distanza da una marcia in cammino. L’uomo è naturalmente Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska e protagonista dell’immagine-simbolo più efficace  del 9 gennaio, data in cui si è svolta anche quest’anno la parata del “Giorno della Republika Srpska” a Banja Luka, capitale amministrativa dell’entità.

Sulla ricorrenza vige ancora il veto di incostituzionalità stabilito nel 2015 dalla Corte statale della Bosnia Erzegovina, che la ritenne discriminatoria verso la popolazione non-serba dell’entità. Ma anche in questa occasione, come avvenuto l’anno scorso, Milorad Dodik ha deciso di andare per la sua strada, dando inizio di fatto alla campagna elettorale (nell’autunno 2018 si voterà per le elezioni politiche in Bosnia Erzegovina e in Republika Srpska) con questo eterno ritorno all’uguale: l’ennesimo rilancio di un discorso sciovinista e revisionista per consolidare il consenso interno e tenere in scacco gli attori della regione.

Pur non raggiungendo i livelli di mobilitazione dello scorso anno, la parata è stata imponente. Hanno sfilato circa 1.800 persone, l’ormai consueto connubio civil-militare di polizia speciale in armi, ex-combattenti, pompieri, dipendenti pubblici, associazioni di volontariato e club sportivi professionisti (tra cui naturalmente l’Igokea, plurititolata squadra di basket controllata dalla famiglia di Dodik) e, come si spiegherà più avanti, un’organizzazione sospetta paramilitare che sta attirando l’attenzione della stampa regionale e mondiale.

“Per la sopravvivenza del popolo serbo”

Nel suo discorso, Dodik ha evocato il legame tra Republika Srpska e compimento degli “obiettivi storici del popolo serbo”, una locuzione tipica degli anni Novanta. Alla sfilata, erano presenti il ministro degli Interni e quello della Difesa della Serbia, Nebojša Stefanović e Aleksandar Vulin, nonché l’ex-presidente serbo Tomislav Nikolić che si è espresso con toni chiaramente irredentisti, augurando di cuore l’indipendenza della Republika Srpska.

Va comunque osservato che Dodik non ha dato alcuna indicazione su eventuali tempi e modi del percorso secessionista. Il discorso sull’indipendenza, sebbene costantemente ripetuto, pare tornato a poggiare su un futuro indeterminato dopo l’apparente accelerazione dello scorso anno. È un modo per perpetuare lo status di patrioti nel futuro, osserva  l’analista Srđan Puhalo: “Nella retorica, il partito di Dodik non rinuncia all’idea di una RS indipendente, ma non offre alcuna garanzia o promessa che avverrà. Solo affermano di essere portatori di questa idea e che prima o poi ci lavoreranno”.

Hanno invece disertato le celebrazioni di Banja Luka il presidente della Serbia Aleksandar Vučić e la prima ministra Ana Brnabić, un’assenza in cui diversi analisti hanno riscontrato una “ritirata tattica ” o comunque un gesto di prudenza dei vertici più alti di Belgrado verso le ambizioni del leader serbo-bosniaco.

Vučić è già sotto forti pressioni della comunità internazionale per i negoziati con il Kosovo e non vorrebbe aprire altri potenziali contrasti nella regione. Ma dall’altra parte non intende nemmeno prendere apertamente le distanze da Dodik. Lo dimostra l’intesa tra Belgrado e Banja Luka sulla cosiddetta “Dichiarazione per la sopravvivenza del popolo serbo”, un documento che dovrebbe essere firmato dai due governi nelle prossime settimane, e che proclamerebbe la difesa della lingua, dell’alfabeto e della cultura nazionale serba.

Il documento è oggetto di perplessità sia dalla destra nazionalista serba, che non vede effetti pratici nell’iniziativa, sia da settori progressisti, che vedono nell’accento sui diritti etnici e sulla evocazione di imprecisate “minacce” all’identità, la probabile ennesima fonte di sospetti e distrazione di massa su scala regionale.

La destra austriaca alla corte di Dodik

Quanto agli ospiti internazionali, se l’anno scorso avevano partecipato alle celebrazioni gli europarlamentari del Front National francese, quest’anno si è recato a Banja Luka il vice-sindaco di Vienna, Johann Gudenus, in rappresentanza del partito di ultra-destra FPÖ che da pochi mesi è nella coalizione di governo in Austria. Gudenus ha anche ritirato un’onoreficenza a nome del leader di partito Heinz-Christian Strache, amico personale di Dodik.

La partecipazione di Gudenus, duramente criticata dall’opposizione e da diversi media in Austria, conferma che Dodik trova appoggi e lobbying tra le destre radicali europee. Queste, a loro volta, si servono del contesto bosniaco per alimentare le proprie propagande fondate sull’islamofobia e sul rifiuto di ogni modello multiculturale nonché, nel caso specifico dell’FPÖ, per ottenere il sostegno dalla diaspora di riferimento (Dodik ha ripetutamente chiesto agli austriaci di origine serbobosniaca di votare i candidati dell’FPÖ alle elezioni).

Alle celebrazioni di Banja Luka ha partecipato anche Anatolij Bibilov, presidente dell’Ossezia del Sud, che ha firmato un accordo di cooperazione con le autorità della Srpska. I rapporti Ossezia-Srpska, che si iscrivono nel reciproco interesse promozionale dei cosiddetti stati autoproclamati e nel comune orientamento filo-russo, hanno causato l’immediata protesta diplomatica della Georgia e reazioni critiche tra l’opposizione serbo-bosniaca, dalle cui fila proviene l’attuale ministro degli Esteri bosniaco, Igor Crnadak.

Quest’ultimo ha commentato con aperto disprezzo: “Perché non abbiamo avuto il presidente della Baviera, della Lombardia, della Catalogna, regioni più importanti di paesi più rilevanti? Questa vicenda crea un danno alla Republika Srpska, [che è] riconosciuta con le sue istituzioni da tutti i paesi ONU, eppure si è messa sullo stesso piano di un’entità dubbia, tanto importante quanto la municipalità di Prnjavor  [sic]”.

Paramilitari a Banja Luka?

La partecipazione più discussa è stata quella di “Srbska čast” (Onore Serbo), un’associazione ultra-nazionalista con sede a Niš, in Serbia. Sui propri profili social, Srbska čast si presenta come un’organizzazione identitaria e umanitaria, che sostiene famiglie in difficoltà e difende rigorosamente le tradizioni serbo-ortodosse.

È per meriti “umanitari” che l’associazione sarebbe stata più volte recentemente premiata e ricevuta presso il parlamento della Republika Srpska. Nelle foto che circolano su internet, però, spicca anche molto altro: membri in posa con divise militari e armi di grosso calibro, assetti da combattimento, ostentazione di forma fisica e prestanza corporea, con abbigliamento e gadget curati e in vendita, un immaginario fascio-fashion comune a tante organizzazioni della “nuova” ultradestra europea.

Vecchi articoli, come questo di BNTV  del febbraio 2017, già illustravano i cospicui precedenti di tutti leader di Srbska čast nel crimine organizzato, per traffici di prostituzione, droga e alcuni ancora sotto indagine delle forze di sicurezza statali.

Subito dopo la parata del 9 gennaio, il portale di Sarajevo Žurnal.info ha pubblicato un’inchiesta  secondo cui Srbska čast sarebbe un gruppo paramilitare a disposizione del governo della Republika Srpska, per sostenere l’opzione secessionista e reprimere l’eventuale opposizione interna. Il gruppo sarebbe stato addestrato da ufficiali dell’esercito russo presso il Centro umanitario di Niš, un ente di protezione civile serbo-russo accusato da esponenti USA e filo-occidentali di essere una base operativa degli interessi di Mosca nella regione.

L’inchiesta ha avuto vasta eco nella stampa regionale e internazionale (ne ha scritto, tra gli altri, il Guardian ). Tutti i diretti interessati, da Srbska čast all’ambasciata russa in Bosnia Erzegovina al governo della Srpska, hanno seccamente negato le accuse.

Il ministro statale della Sicurezza, Dragan Mektić, invece, ha più confermato che smentito, sostenendo che il suo dicastero e i servizi bosniaci seguivano da tempo l’organizzazione che puntava effettivamente a “creare una formazione paramilitare” e che nei prossimi giorni consegneranno al Tribunale statale la documentazione raccolta. Va specificato che Mektić è serbo-bosniaco dell’SDS, partito all’opposizione dell’SNSD di Dodik, e non è difficile immaginare che la questione acuirà lo scontro politico nei prossimi mesi.

Sembra ancora presto per trarre conclusioni definitive sulla completa veridicità dell’inchiesta. Nel bene e nel male, la maggior parte della documentazione apportata da Žurnal proviene dai profili social dei militanti di Srbska čast e da altri materiali web di libero accesso. Solo una piccola parte proviene da fonti riservate. Sono stati i singoli militanti stessi a rivelare di essere stati ricevuti da Dodik in persona, di avere rapporti diretti con la galassia di combattenti russo-ucraini e con veterani serbo-bosniaci condannati per crimini di guerra, di essere coinvolti nelle attività del Centro di Niš.

Che tutto ciò sia parte di un disegno coordinato e organizzato da forze militari russe o del governo serbo-bosniaco, pare ancora prematuro stabilirlo con certezza e sarà fondamentale attendere le informazioni che le istituzioni di Sarajevo potrebbero decidere di divulgare o fare filtrare. Se la chiave geopolitica richiede dunque cautela, quella di politica interna appare sin da ora legittima.

L’opposizione sarebbe tenuta a esigere spiegazioni sul perché inviti, premiazioni e onori pubblici vengano accordati a un’associazione così vicina ad ambienti criminali. Sarà uno dei tanti compiti in questo anno elettorale che non è partito, ed era facile prevederlo, con le migliori premesse.

Un paese congelato da cui si emigra

Il campo politico in Republika Srpska, non diversamente da quello dell’intera Bosnia Erzegovina, appare congelato. Scarso cambio generazionale, nessuna capacità d’immaginazione, nessun movimento spontaneo nei territori.

I partiti all’opposizione dell’SNSD di Dodik condurranno tutta la campagna sulla lotta contro la corruzione e l’avventurismo del “tiranno” al potere da dodici anni. Ma nonostante i tenui segnali di maggiore pragmatismo, le timide aperture al dialogo con i partiti di Sarajevo e qualche volto appena più presentabile e competente, l’opposizione non offre una reale alternativa all’attuale blocco di potere. E quest’ultimo resta, in ogni caso difficile da scalzare, visto il controllo ferreo sui media e sul settore pubblico. E per ottenere un cambiamento, sempre più cittadini si sentono costretti a usare i biglietti di autobus anziché le schede elettorali.

Nelle settimane tra dicembre e gennaio, diversi  media  analisti  di Banja Luka hanno dedicato ampia attenzione alle code nei consolati e nelle stazioni degli autobus, segnali di un’emigrazione che sarebbe in forte crescita dalla capitale della Republika Srpska in particolare verso paesi dell’Europa centrale come Slovenia, Repubblica Ceca e Slovacchia, quest’ultima soprattutto diventata una meta d’attrazione per i giovani l’offerta di lavoro nei servizi e nella piccola industria. È un trend già comprovato da diverse analisi, una contro-parata molto più numerosa ma anche più silenziosa di quella ufficiale, e che continua a non suscitare le dovute reazioni.

Republika Srpska: paramilitari e irredentismo “per la sopravvivenza del popolo serbo”


Questa voce è stata pubblicata in EFFETTI COLLATERALI, sono cazi acidi sono e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.