Niger : Nigergate – Domenico Quirico articolo – video Macron – L’Africa italiana Limes

sottosuolo è ricco di risorse – uranio, petrolio, gas naturale…

L’INCHIESTA. Pollari sapeva che il materiale acquistato da Saddam
non era destinato al nucleare. Ma alla Casa Bianca preferì tacere
Nigergate, il Grande Inganno
sulle centrifughe nucleari

Lo strano scoop di Panorama che prese per buono il dossier uranio
di CARLO BONINI E GIUSEPPE D’AVANZO

È affare di date, la storia del coinvolgimento italiano nelle manipolazioni che giustificano la guerra irachena. Ne abbiamo già avuto la percezione. È ancora una data che sbroglia e svela il secondo capitolo del Grande Inganno.

9 settembre 2002. In quel giorno, nelle stanze del National Security Council, c’è un incontro segreto e molto strampalato, se si guarda alla trasparenza istituzionale.

Perché il direttore del nostro servizio segreto incontra un’autorità politica della Casa Bianca? Naturale che Nicolò Pollari incontri il direttore della Central Intelligence Agency. Ordinario che il direttore del Sismi incontri la sua autorità politica. Bizzarro che incontri l’autorità politica di un Paese straniero ancorché alleato: per questi meeting ci sono ministri e sottosegretari. Allora, di che cosa discute con Stephen Hadley?

Questo Hadley non è uomo da terza fila, alla Casa Bianca. Oggi è il consigliere per la Sicurezza Nazionale. Nel 2002 è il vice di Condoleezza Rice e “nodo” della rete “parallela” di intelligence voluta da Dick Cheney per rendere legittima la guerra a Saddam. E’ l’uomo che, soltanto per dirne una, si assume la responsabilità delle sedici parole, pronunciate da George W. Bush nel discorso sullo stato dell’Unione, che il 28 gennaio 2003 valgono il conflitto.

Si sa che Hadley, con Pollari, ragiona di armi di distruzione di massa. Legittimo chiedersi che cosa sappia Pollari, il 9 settembre del 2002, dell’uranio nigerino. Come egli stesso ammette, sa tutto. E’ informato dell’avventura di Rocco Martino. I suoi uomini addirittura gli stanno dietro. Conosce i passi del vice-capocentro del Sismi Antonio Nucera, che aiuta il vendifumo. Quel giorno, Pollari è nella migliore condizione per fare una scelta. Dire al vice della Rice che, per la Casa Bianca, è meglio lasciar cadere quella storia dell’uranio, perché è una bufala, perché quei due, Martino e Nucera, sono due impostori. O, al contrario, rafforzare le convinzioni dell’alleato. Magari con un accorto silenzio. Che cosa sceglie? Per saperlo torna buono vedere come si muove Pollari nell’altro caso affrontato nel colloquio con Hadley. E’ il dossier “centrifughe”.

Appena 24 ore prima, 8 settembre 2002, Judith Miller ha raccontato, dalla prima pagina del New York Times, della minaccia nucleare custodita a Bagdad. “Negli ultimi 14 mesi – scrive la reporter – l’Iraq ha cercato di acquistare tubi in alluminio che, secondo i funzionari americani, devono essere utilizzati come rivestimento dei rotors delle centrifughe per l’arricchimento d’uranio”.

Il 9 settembre 2002, dinanzi a Hadley, Pollari ha gli strumenti per affrontare anche questo aspetto della questione. Il Sismi, come ammette, ha “prove documentali dell’acquisto di tubi di alluminio da parte irachena”. Vediamo di che cosa si tratta.

Sono tubi di alluminio 7075-T6. E’ il materiale preferito per un sistema di missili a basso costo (ogni tubo costa 17 dollari e 50 centesimi). Sono fatti di una lega estremamente dura, che li rende potenzialmente adatti come rotors di una centrifuga capace di separare i costituenti dell’uranio fissili da quelli non fissili. Non è un’operazione agevole perché poi le centrifughe devono essere migliaia (16.000) ed essere in grado di sostenere in sincronia rotazioni a velocità estremamente alte.

Come si sa, la Cia e anche il prudentissimo segretario di Stato Colin Powell si convincono che si tratta di materiale “dual use” destinato al programma nucleare iracheno. Powell sfodera tutta la sua esperienza di soldato. Dice: “Non sono un esperto di centrifughe, ma come veterano dell’esercito lasciatevi chiedere questo: perché gli iracheni si stanno dando tanto da fare per quei tubi che, se fossero razzi, andrebbero rapidamente in pezzi dopo il loro lancio?”.

L’obiezione, incredibilmente, resta in piedi anche quando gli scienziati dell’Oak Ridge National Laboratory (con centrifughe, arricchiscono uranio per l’arsenale nucleare degli Stati Uniti) annientano la teoria di Powell. Sostengono che quei tubi sono “troppo stretti, troppo pesanti, troppo lunghi e facili a creparsi per essere utilizzati come componenti di centrifughe”. Concludono gli scienziati di Oak Ridge: “Quei tubi servono alla costruzione di un particolare proiettile d’artiglieria”.

Dunque, l’8 settembre 2002, Judith Miller rappresenta i tubi di alluminio come “la pistola fumante”. Il giorno dopo, Pollari è seduto di fronte ad Hadley. Che cosa gli racconta? Pollari sta zitto. Non svela ciò che sa dei tubi di alluminio che tanto preoccupano (o entusiasmano) l’Amministrazione Bush. La disgrazia è che quei tubi – 7075-T6, lunghi 900 millimetri, diametro 81 millimetri, superficie dello spessore 3.3 millimetri – sono arnesi molto familiari per l’esercito italiano. Sono i proiettili di artiglieria del missile da 81 mm del sistema aria-terra “Medusa”, adottato dagli elicotteri di Esercito e Marina. In realtà, gli iracheni stanno soltanto tentando di riprodurre delle armi che hanno imparato a conoscere nei lunghi anni della collaborazione economico-militare-nucleare tra Roma e Bagdad (i migliori ufficiali dell’Esercito e dell’Aeronautica irachena sono stati addestrati nel nostro Paese negli anni Ottanta). Lo stato maggiore di Saddam ha bisogno di duplicarli, per dir così, perché le scorte sono state conservate all’aperto e sono ormai rugginose. Ecco la ragione dei nuovi acquisti in alluminio anodizzato.

Perché Pollari non spiccica parola? Se si pone la domanda a Greg Thielmann, ex capo del bureau di intelligence del Dipartimento di Stato, si ottiene questa risposta: “Ma voi davvero non avete capito perché l’intelligence militare italiana non ci ha dato nessuna indicazione che consentisse di escludere definitivamente che quei tubi servissero per un programma nucleare? Io un’idea ce l’ho. Il Sismi, come la Cia e come l’intera comunità dell’intelligence anglo-americana, deve e vuole compiacere i falchi della nostra Amministrazione”. Il giudizio è sonoro come una fucilata. Sono le date a offrire una conferma difficile da eludere.

8 settembre 2002, Judith Miller lancia il sasso.
9 settembre 2002, Hadley incontra Pollari.
11 settembre 2002, l’ufficio di Stephen Hadley chiede alla Cia un nullaosta che permetta al presidente degli Stati Uniti di utilizzare in un discorso pubblico le informazioni sulla vendita dell’uranio nigerino. In particolare, per quel che riferisce il rapporto del Selected Committee on Intelligence la richiesta che arriva alla Cia dal gabinetto del National Security Council chiede testualmente a George Tenet che “George W. Bush sia autorizzato a dire: “L’Iraq ha compiuto diversi tentativi di acquistare tubi di alluminio rinforzato da utilizzare per centrifughe per l’arricchimento di uranio. Sappiamo inoltre che, nell’arco degli ultimi anni, l’Iraq ha ripreso i tentativi per ottenere grandi quantità di uranio ossidato noto come yellowcake. Componente necessaria al processo di arricchimento””. La Cia dà il suo nullaosta (a Cincinnati, Ohio, il 7 ottobre 2002, la frase autorizzata cade dal discorso presidenziale.

Il giorno prima, Langley ne raccomanda la cancellazione: “L’intelligence è debole. Una delle due miniere citata dalla fonte come luogo di estrazione dello yellowcake risulta allagata. L’altra è sotto il controllo delle autorità francesi”).

Bisogna ora chiedersi che cosa combina Pollari. Questa ingarbugliata faccenda dello yellowcake e delle centrifughe si impasticcia intorno ai documenti farlocchi di Rocco Martino. Chi li ha dati a chi, quando, come? Chi li ha letti e ne ha taciuto l’infondatezza? Chi ha creduto nella loro fondatezza e li ha “disseminati”? L’affare ha il suo fuoco in queste risposte, ma anche nelle parole che non vengono dette. Gli italiani sanno che Rocco Martino è un cialtrone. Hanno ben presente che le uniche carte autentiche di quel dossier sono vecchia intelligence, sottratta all’archivio della divisione del Sismi che si occupa delle armi di distruzione di massa. Pollari lascia correre la frottola per il mondo. Non “brucia” Rocco Martino che bussa alla porta dell’MI6 inglese. Anzi, lo accredita come “fonte attendibile”. Non gela gli entusiasmi dell’amico americano Michael A. Ledeen e dell’Office for Special plans del Pentagono. Semplicemente ammutolisce mentre l’imbroglio si fa strada. Anzi, quando apre bocca, non spegne né delude il desiderio americano. Così avviene per i tubi di alluminio. Dopo una “brillante operazione”, il Sismi ne viene materialmente in possesso. E’ un’intelligence militare. Anche un soldataccio capirebbe che si tratta di “roba nostra”, dei proiettili del “Medusa ’81”. Al Sismi naturalmente lo capiscono. Ma, anche in questo caso, il 9 settembre 2002 Pollari si chiude dinanzi ad Hadley in un riservato silenzio. Fa di più.

12 settembre 2002. In edicola arriva Panorama. Nel lungo servizio titolato “La guerra? E’ già cominciata”, si raccolgono le rivelazioni decisive e inedite al mondo sul riarmo nucleare iracheno. Nessuno ha ancora parlato di uranio. Tantomeno di 500 tonnellate. Lo farà per la prima volta Tony Blair, ma soltanto il 24 settembre 2002. Due settimane dopo l’incontro Pollari-Hadley. Dodici giorni dopo lo “scoop” di Panorama. Il dossier di 50 pagine del governo di Londra afferma che l’Iraq sta cercando di acquisire uranio in Africa. Blair sostiene che “l’Iraq ha cercato di comprare significative quantità di uranio da un paese africano nonostante non abbia nessun programma di nucleare civile che lo richieda”. Ancora oggi, il ministro degli Esteri inglese, Jack Straw, ripete che il “dossier italiano” non era l’evidenza che ha giustificato queste parole; che l’MI6 è in possesso di intelligence acquisita precedentemente. Queste “evidenze” non sono mai saltate fuori. “Se saltassero fuori – dice a Repubblica una fonte di Forte Braschi e sorride – si scoprirebbe facilmente e con qualche rossore che è intelligence italiana raccolta dal Sismi alla fine degli anni ’80 e condivisa con il nostro amico, Hamilton Mac Millan”.

Non è, dunque, la loquacità a indicare le responsabilità italiane dello yellowcake. Sono i silenzi. Abbiamo visto come tace (o è costretto a tacere) il Sismi. Povero Sismi, non è mica il solo. Nessuno dei protagonisti di questo garbuglio, pur sapendo, fiata. Tace Panorama. Quando la direzione del magazine, di proprietà del capo del governo, deve ricostruire i contatti con Rocco Martino (che ha cercato di vendere l’imbroglio a Segrate) omette di ricordare che le informazioni contenute nel dossier truffaldino, già sono state pubblicate il mese prima. Il direttore del settimanale, inspiegabilmente, verifica quei documenti soltanto con l’ambasciata americana e non con il governo né tantomeno con le eccellenti fonti del servizio segreto italiano a cui, come dimostra lo “scoop” di settembre, ha accesso. Non trova alcun interesse nel raccontare, con un secondo potenziale “scoop” mondiale, che la storia su cui si sta imbastendo una guerra è falsa. Tace anche Palazzo Chigi, naturalmente. Il ruolo del consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi, Gianni Castellaneta, è stato essenziale nei rapporti tra il nostro Paese e quel network parallelo che Dick Cheney crea con il finanziamento di Ahmed Chalabi dell’Iraqi National Congress, con la raccolta dell’intelligence “aggiustata” dall’Office for Special Plans, con la diffusione mediatica di queste manipolazioni attraverso il “gruppo Iraq” (che si vede al lavoro anche nel caso Miller/New York Times). Ma chi ha sentito mai Castellaneta dire una parola e chi gli ha mai chiesto in un luogo istituzionale di dirla?

Sta chiotto Gianni Letta. Quando affiora la verità del falso dossier italiano, il sottosegretario con delega ai servizi, contrariamente a quanto si legge nelle inesatte note del governo, si appella al segreto di Stato. Sostiene che nessuna documentazione può essere offerta al controllo del Parlamento perché si metterebbero “in pericolo fonti dei servizi”. Quali fonti? Rocco Martino, carabiniere fallito, spione disonesto, doppiogiochista? O Antonio Nucera, vicecapo del centro Sismi di viale Pasteur che trafuga (o è costretto a trafugare), dall’archivio della sua Divisione, intelligence ammuffita per costruire “il pacco”?

E’ evidente che, a frittata rovesciata, qualcosa bisogna pur raccontare dopo tanto silenzio. Pollari si muove nell’estate del 2004. Discretissimo, diventa improvvisamente loquacissimo. Apre addirittura il suo ufficietto a Palazzo Baracchini. Pollari se ne sta in una stanzetta buia, dietro uno scrittoio stracolmo di carte. Carte, carte, carte ovunque. Alla sua sinistra, c’è un altro scrittoio coperto di dossier come uno scoglio dall’onda. Spiega a Repubblica (è il 5 agosto 2004): “Non mi fido di nessuno. Le carte le voglio leggere io…”. L’uomo appare in difficoltà. Sente sul collo l’alito maligno dei reporter americani dell’Atlantic Monthly. Si rigira tra le mani una richiesta di colloquio recapitata dalla televisione americana Cbs all’ambasciata italiana a Washington. Si chiede: “Che cosa vogliono questi da me? Chi è che li sta informando? La Cia? L’Fbi? Qualche transfuga della Cia? Qualche nemico del Fbi?”. Sa che Rocco Martino è stato agganciato dai producer di 60 minutes e teme, come una catastrofe personale, la confessione del vendifumo davanti ai microfoni. Ora Pollari deve guadagnare una via d’uscita dall’impiccio e gli sembra di aver trovato il modo per uscire dall’angolo. Dice a Repubblica: “Sono stati i francesi del Dgse a trarre in inganno gli americani. Noi non c’entriamo nulla”. Estrae da una cartellina una stampata in power-point multicolore (i colori sono giallo, rosso, viola, azzurro, verde). La cartuscella dovrebbe dimostrare il “ruolo dell’intelligence francese nell’affaire Niger”. Mai sembra convincente. E’ musica che suona stonata anche oggi. Il tempo ha dimostrato in modo solido l’infondatezza della “pista francese”, farfallina già in partenza. Infatti, come accerta il rapporto del Senato americano, due settimane prima dell’inizio della guerra, il 4 marzo 2003, i francesi avvertono Washington che i documenti in loro possesso sono falsi perché sono gli stessi che Rocco Martino ha rifilato a Parigi. Non è stata mai rintracciata (né Pollari la rivendica) un’analoga nota italiana che possa dare uno stop all’irruenza di Dick Cheney. Il Sismi, come il governo, sa che l’intelligence contro l’Iraq è tutta fuffa. Tacciono. Come precipita nel mutismo l’intero circuito politico italiano. E’ comprensibile il silenzio della maggioranza, ma l’ozio dell’opposizione può esserlo di fronte a una manipolazione che addirittura provoca una guerra? L’unico atto che si può registrare è la richiesta di una commissione di inchiesta presentata dall’Unione, una pretesa soltanto burocratica perché, una volta licenziata, può essere dimenticata. Così, mentre negli Stati Uniti si contano tre inchieste indipendenti (Cia-gate; Nigergate; cospirazione di Larry Franklin, funzionario dell’Office of Special plans), in Italia non si muove foglia. Se si ha la ventura di incontrare il pubblico ministero di Roma, Franco Ionta, per sapere almeno – così per curiosità – come è finita l’inchiesta su quel vendifumo di Rocco Martino, il magistrato spiegherà: “Sì, ho interrogato questo Martino. Un truffatore. In mezz’ora ho chiuso il verbale… Che volete che mi dicesse… Ora la richiesta di archiviazione è nelle mani del gip… Trattasi di buffonata…”. Una buffonata italiana che può annegare nel silenzio. Della politica, dell’informazione, della magistratura. Così vanno le cose in Italia.

(3, fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 24 e il 25 ottobre)

Leggi la prima puntata
Leggi la seconda puntata

(26 ottobre 2005)
http://www.repubblica.it/2005/j/sezioni/esteri/iraq70/sileita/sileita.html

In Niger una missione a ostacoli

Pubblicato il 30/12/2017
Ultima modifica il 30/12/2017 alle ore 07:4
Domenico Quirico

Gli oppositori dell’intervento militare italiano in Niger hanno fatto inutile diga accusando: vedrete, i nostri soldati non andranno a dar la caccia a schiavisti e jihadisti, fine utilissimo, forniranno, gratuitamente, ascari per gli interessi minerari della Francia (le miniere di uranio sfruttate da «Areva», tra l’altro grande elemosiniere di presidenti d’Oltralpe).
Sospetto malizioso ma balordo: la Francia quegli interessi li difende accuratamente e con efficacia da sola, fin dall’epoca delle cosiddette «indipendenze» concesse al suo impero africano. Come dimostra il fatto che nel sobbollire e intricarsi di tempeste, guerre e tumulti in quei Paesi, e nonostante il declino della République, nessuno ha messo in pericolo proprio quell’assettato e locupletato monopolio. Neppure i neocaliffi del deserto. Neppure i cinesi. E Parigi non commette certo l’errore di coinvolgere nell’Affare soggetti che da ausiliari potrebbero diventare concorrenti.

Meglio avrebbero fatto, gli sparuti pacifisti, a proporre altri interrogativi, questi sì ardui e cavillosi. Perché quando si decide di ricorrere a uomini armati, a eserciti, anche se son quelli nostri, lillipuziani, per non trovarsi invischiati in micidiali usure «di bassa intensità», ci sono auree regole strategiche: esser ben informati sulla geografia umana sociale e storica dei luoghi in cui si andrà ad operare, per esempio, su coloro che ti spareranno addosso e soprattutto su alleati e amici. Sì, perché di lì posson venire pericolose sorprese.

L’attenzione italiana a questa parte del mondo, il Sahara e il Sahel, è d’altra parte, con provinciale disinvoltura, recentissima. Fino a poco tempo se ne occupava, a qualche migliaio di chilometri di distanza, la ambasciata di Dakar! Ci affidiamo dunque ai francesi, al dinamico Macron: qui da due secoli sono di casa, visto che l’Africa è cortile della loro inestinguibile «grandeur». Più che geopolitica: un destino.

Prima constatazione: tutti i governi francesi, di destra e di sinistra, hanno mantenuto un controllo invulnerabile sulle colonie diventate a parole indipendenti, in particolare quelle della fascia saheliana, Niger, Mali, Ciad. Questo significa che ne hanno il controllo militare (cinquemila soldati francesi presidiano la zona con aerei ed elicotteri e ordigni vari). Danno loro una mano gli obbedientissimi eserciti locali che sono pittoresca dépendance dell’armata francese. Controllano la politica: partiti, presidenti, qualche volta persino gli oppositori in «democrazie» fitte di elezioni un po’ sospette e corrette da qualche golpe per liberarsi, ogni tanto, di proconsoli divenuti troppo pittoreschi o avidi. E poi l’economia, attraverso le risorse minerarie e naturali, la moneta, che nostalgicamente si chiama ancora «franco». Parigi ha agito indisturbata, con una tacita delega europea, e fino a una certa data americana, ad occuparsi di questi scatoloni di sabbia.

Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall’unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell’evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell’aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo.

E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei?

Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista.

http://www.lastampa.it/2017/12/30/cultura/opinioni/editoriali/in-niger-una-missione-a-ostacoli-Lhbq4h7n0LAe4fNU0SlfZI/pagina.html





Niger Da una guerra «umanitaria» all’altra by il manifesto e analisi difesa

Questa voce è stata pubblicata in EFFETTI COLLATERALI, memoria e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.