savoia una nobile famiglia tanto “per bene” : da beccaris a Mafalda di Savoia, isola di Cavallo

GAETANO BRESCI, Moti popolari del 1898 e musica …

Vittorio Emanuele III, il re “travicello”

di Francesco Ranocchi

Censurato, criticato, additato come il principale responsabile della caduta della Monarchia. Il giudizio della storia sulla figura di re Vittorio Emanuele III è spietato, senza appello; ma fu veramente questa sorta di sciagura o solo un personaggio travolto da eventi imprevedibili? Vittima o colpevole dunque? Una cosa è certa: il figlio di Umberto I, per sua stessa ammissione, non aveva né l’indole né il carattere per governare ma la tragica morte del padre, per mano di Gaetano Bresci, lo proiettò, oltretutto giovanissimo, sul trono di una fragile monarchia come quella italiana, assolutamente bisognosa di un capo carismatico, capace e deciso.

Pur non avendo tali caratteristiche Vittorio Emanuele rimarrà in sella per ben 46 anni, costellati da immani lutti e tragedie, a partire dal primo conflitto mondiale, originatosi a Sarajevo e al quale l’Italia regia si affacciava senza inizialmente intervenire.

La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare l’unità nazionale con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca.

Malgrado l’ottimismo del capo di stato maggiore Luigi Cadorna, il conflitto fu, come noto, tremendo per le nostre forze armate, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.

Il Piave e Vittorio Veneto ci diedero la vittoria ma, al momento di ottenere i giusti riconoscimenti, l’Italia fu, al tavolo della pace, completamente snobbata ed umiliata; il cosiddetto “trionfo mutilato”vanificò dunque tre anni di sacrifici e dimostrò l’assoluta carenza di carisma di un re che non fece nulla per imporre la volontà di un paese capace di annientare il grande Impero Austro-Ungarico.

Umiliata diplomaticamente, precipitata nel caos post-bellico, l’Italia Regia vide affermarsi il fascismo di Benito Mussolini, che nell’ottobre del 1922, decise di marciare, alla testa delle sue camicie nere, su Roma.

Vittorio Emanuele III si trovò di fronte ad un bivio: o mobilitare l’esercito contro i fascisti o lasciare fare; il re optò per quest’ultima soluzione e conferendo a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo, aprì la via al ventennio ed alla conseguente dittatura, sparendo nel nulla ed agendo nell’ombra.

Il Duce aveva esautorato la monarchia, ridotta a mera facciata, a mero simbolo, ma al re sembrava non importare: erano i tempi del fascismo trionfante, del fascismo ammirato e preso a modello dall’emergente Hitler, erano i tempi delle conquiste imperiali, che davano lustro allo stesso re, che giovavano al suo prestigio personale.

Soltanto quando il fascismo cadde in disgrazia, soltanto quando l’Italia stava sprofondando, travolta in Russia, in Africa e messa in ginocchio dai bombardamenti, re Vittorio decise di intervenire ma anziché essere il condottiero di un popolo resistente, anziché riscattare venti anni di oblio, fu solo un fuggitivo qualunque, immemore del suo popolo e delle sue forze armate e solo attento alla sua incolumità personale.

Si può dunque dedurre che il regno di questo controverso personaggio fu, per i contenuti e per l’intensità degli eventi, ancora più lungo dei 46 anni della sua durata.

Per molti gli errori di re Vittorio cominciarono nel 1914, con la sopracitata decisione di voler entrare in guerra, ma non bisogna dimenticarsi che il paese era diviso a metà tra interventisti e neutralisti e che Trento e Trieste erano ancora città italiane soggette all’altrui dominazione.

L’unità d’Italia non era stata dunque completata e non era possibile prima o poi non portarla a termine.

L’occasione si presentò allo scoppio delle ostilità e fu colta al balzo, in quella che può essere considerata una sorta di IV guerra d’indipendenza.

Biasimando il re per tale decisione, bisognerebbe allora biasimare pure Carlo Alberto, il Cavour e Vittorio Emanuele II per le carneficine dell’esercito piemontese nel corso delle lotte risorgimentali.

Semmai, a differenza dei suoi illustri predecessori, Vittorio Emanuele III non ebbe il carisma per imporre le volontà di una nazione che più di ogni altra, dopo gli Stati Uniti, aveva contribuito, alla vittoria dell’Intesa e che invece uscì, praticamente umiliata.

Venendo agli eventi dell’ottobre del 1922, appartiene alla storia la nefasta decisione del sovrano di non firmare lo stato d’assedio contro la marcia su Roma e dunque la responsabilità della dittatura non può che ricadere su costui, ma tale scelta, rivelatasi, col senno di poi, tragica per i destini del popolo italiano, si denotava meno facile del previsto se si considera quella che era la situazione del momento.

In seguito alla crisi post-bellica l’Italia era un paese in ginocchio, in crisi, sull’orlo di esplodere.

Le insurrezioni, i tumulti, le manifestazioni di piazza erano all’ordine del giorno ed in questo caos accresceva, giorno dopo giorno, il suo prestigio Benito Mussolini con il suo movimento.

Il fascismo faceva sempre più adepti e trovava sempre più consensi per cui, quando Mussolini decise di puntare su Roma, non era facile per il re decidere il da farsi.

Mobilitare l’esercito poteva significare far scoppiare una guerra civile che probabilmente avrebbe fatto saltare i fragili equilibri del regno.

Inoltre, in quel clima di crisi, di instabilità, parve opportuno al sovrano, memore di quanto avvenuto in Russia pochi anni addietro, puntare su quella che, apparentemente, forte dei consensi ottenuti, era la figura più idonea a riportare i giusti equilibri. Non si dimentichi, infine, che il primo Ministero Mussolini vide la partecipazione anche dei popolari e dei liberali.

Ma le possibili e pur discutibili, giustificazioni delle scelte di Vittorio Emanuele III di Savoia finiscono qua; tutto ciò che sarebbe venuto dopo, sarebbe stato sintomo ed espressione del suo poco coraggio e della sua limitata capacità di comando.

Le leggi razziali emanate dal regime hanno costituito e costituiscono tuttora la pagina più nera della storia del nostro paese e recavano la firma di un sovrano che accettava l’antisemitismo e la furia xenofoba dell’alleato tedesco, fiero di un Mussolini che l’aveva fatto re d’Albania ed imperatore d’Etiopia; tale giudizio mutò repentinamente a distanza di soli 4 anni, quando le batoste e le umiliazioni subite dalle nostre malandate e carenti forze armate e lo sbarco degli alleati in Sicilia, portano il regime al collasso; fu solo a questo punto che re Vittorio, decise di sbarazzarsi del Duce e di un regime, ormai agonizzanti.

In seguito alla sfiducia di Mussolini, nel Gran Consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, ne dispose dunque l’arresto e la sua sostituzione con Badoglio; terminavano così venti lunghi anni di dittatura e poteva essere questa la possibilità, per il sovrano, di nuovo a capo della nazione, di riscattare i suoi errori, assurgendo al ruolo di condottiero di un popolo nella lotta anti-nazista.

Ed è qui che emerse, in tutta la sua tragica realtà, l’assoluta pochezza di questo personaggio che, anziché divenire il punto di riferimento per un’Italia smarrita, pensò solo a salvare la pelle, fuggendo, con tutto il suo seguito, tra le braccia degli alleati. Nei quarantacinque giorni del Governo Badoglio, poi, non alzò un dito per revocare le leggi razziali, che rimasero in vigore.

L’8 settembre del ’43 nessun ordine, nessun comando fu impartito alle truppe, nessun invito alla resistenza fu da lui pronunciato.

Il re d’Italia, abbandonava la patria al suo destino, abbandonava i suoi frastornati soldati alle barbarie dei tedeschi, senza nessun rimorso di coscienza.

Guidare la resistenza sarebbe stato per lui un obbligo, restare in prima linea un dovere, anche a costo della vita, ma il coraggio non era dalla sua, quel coraggio dimostrato, viceversa dalla divisione Acqui o dai partigiani nella loro lotta al nemico.

Settecentomila soldati italiani internati in Germania, la strage di Cefalonia ed altri indicibili episodi del genere sono il pesante dazio che l’Italia regia dovette pagare a causa delle azioni di Vittorio Emanuele III che preferì vivere nel rimorso e in esilio piuttosto che tentare di salvare la sua patria e il prestigio della sua gloriosa casata, costretta a cedere il posto ad una repubblica, figlia del risentimento degli italiani nei confronti del penultimo re di casa Savoia.

Vittorio Emanuele III morì, mestamente ed in esilio, ad Alessandria d’Egitto nel 1947: fu un re di certo non fortunato trovandosi di fronte, nel corso del suo lungo regno, ad alcuni tra gli eventi più tragici della storia dell’umanità, di fronte ai quali ogni sorta di decisione, vista con l’occhio del momento, non poteva dirsi, di certo, facile.

Sbagliò tanto, tantissimo, ma mentre le decisioni iniziali, pur se sbagliate ed azzardate, con il senno di poi, potevano essere dettate da una certa logica ed, in qualche modo, giustificabili, ciò che, viceversa non può che essere condannato è il suo silenzio dinanzi agli orrori di una dittatura, da lui sfruttata, per titoli ed onori, negli anni dei trionfi e rinnegata solo nel momento della disfatta.

Ciononostante re Vittorio avrebbe potuto riscattare le sue colpe assumendo il comando di un’Italia allo sbando ma la sua fuga, con tutte le conseguenze che ne derivarono, rappresentò il definitivo fallimento di 46 anni di regno, fallimento che gettò nel fango il suo casato, distrusse, agli occhi degli italiani, il ricordo delle imprese dei suoi gloriosi ascendenti e costrinse e tuttora costringe i suoi discendenti all’esilio dal suolo patrio; neppure 56 anni hanno infatti rimosso dalle coscienze, il ricordo di quegli anni di orrore.

Re d’Italia, figlio di Umberto e Margherita di Savoia. Nato a Napoli l’11 novembre del 1869. Segue nella prima gioventù i corsi d’istruzione militare, percorrendo rapidamente la successiva carriera. Il 24 ottobre 1896 a Roma sposa Elena Petrovich Niegosh, figlia di Nicola I, Principe del Montenegro. Diviene re in seguito all’assassinio del padre, Umberto I, nel 1900. Sotto il suo regno, nel campo sociale sono da ricordare, nel 1913, le prime elezioni a suffragio universale maschile. Nel ’14 è tra i sostenitori dell’intervento dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, che può essere considerata l’ultima tra le guerre d’indipendenza e  porta all’unione con la Patria le regioni del Trentino Alto Adige, della Venezia Giulia, della Città di Trieste, della penisola d’Istria e della Dalmazia. Nel maggio del 1915, riconfermata la sua fiducia nel governo interventista di A. Salandra, subito dopo l’apertura delle ostilità, seguendo lo Statuto, il re assume il comando supremo delle Forze armate e rimane al fronte per tutta la guerra.
Nel ’22 e negli anni seguenti non si oppone all’ascesa del fascismo, che istaura un regime totalitario che dura sino al 1943. Nel 1936 Vittorio Emanuele III acquisisce il titolo di Imperatore d’Etiopia e, nel 1939, quello di Re d’Albania. Nel frattempo, nel ’38 firma le leggi razziali volute da Mussolini. Il 25 luglio del 1943 il regime fascista viene dichiarato decaduto, il re ordina l’arresto di Mussolini e conferisce al Maresciallo Badoglio l’incarico di formare il nuovo governo. L’8 settembre Badoglio annuncia alla radio l’armistizio con gli Alleati e viene a cessare anche l’alleanza con la Germania, contro la quale, il 13 ottobre, viene dichiarata guerra, dopo l’accettazione dell’Italia come nazione cobelligerante da parte degli alleati. Il re e i suoi familiari con i membri del Governo si rifugiano a Brindisi. Nel novembre dello stesso anno, rinuncia alle corone di Albania ed Etiopia. Nel ’44, prima di ritirarsi a Ravello, dopo l’occupazione anglo-americana di Roma, nomina luogotenente del regno il figlio Umberto. Nell’intento di favorire il successo monarchico nell’imminente referendum istituzionale, il 9 maggio 1946 abdica al trono e si ritira in esilio ad Alessandria d’Egitto, dove muore il 28 dicembre 1947

http://www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblicasavoia2.htm

UNA PRINCIPESSA NEL LAGER

ROMA – Il 28 agosto di cinquant’ anni fa, in un postribolo per ufficiali del lager nazista di Buchenwald trasformato in infermeria, moriva Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III e moglie di Filippo di Assia, fatta internare da Hitler per vendetta nei confronti dei reali italiani colpevoli del ‘ tradimento’ dell’ 8 settembre. L’ anniversario verrà celebrato a Kronberg, vicino Francoforte, presso la tomba di famiglia degli Assia dove il corpo di Mafalda è stato traslato nel 1951. A Roma i monarchici deporranno fiori ai piedi del busto della principessa all’ ingresso di Villa Polissena, residenza di Mafalda. Il 19 novembre, anniversario della nascita, saranno il ministro per i Beni culturali Domenico Fisichella di Alleanza nazionale e lo storico Antonio Spinosa a commemorarla in Campidoglio nella sala della Protomoteca messa a disposizione dal sindaco Rutelli. A Buchenwald Mafalda era entrata dieci mesi prima di quel 28 agosto, nell’ ottobre 1943, al termine di tre settimane di traumatizzanti interrogatori a Berlino, dove era stata portata subito dopo il vero e proprio sequestro – l’ operazione ‘ Adeba’ – organizzato a Roma dal colonnello Herbert Kappler, su precise diposizioni di Himmler. L’ intera famiglia Savoia era già nel Sud; Mafalda invece – che confidava nel fatto di essere moglie di un principe tedesco ritenuto di tendenze naziste – era da poco tornata nella Roma già occupata dai tedeschi da Sofia dove aveva partecipato ai funerali del cognato Boris di Bulgaria, morto in circostanze poco chiare. Era andata a trovare i figli, segretamente trasferiti in Vaticano dove monsignor Montini, il futuro Paolo VI, li aveva ospitati nelle sue stanze. La mattina del 22 settembre, con un pretesto, era stata attirata nella sede dell’ ambasciata tedesca dove era stata catturata. Condotta a Ciampino, era stata subito trasferita in Germania. Il marito, Filippo d’ Assia, arrestato la sera dell’ 8 settembre, era già in un campo di prigionia. Della sorte della moglie avrebbe avuto notizia dagli alleati solo nel ‘ 45. A Buchenwald i responsabili del lager, dopo aver registrato l’ ingresso della principessa, le avevano subito imposto di farsi chiamare Emy von Weber e di non rivelare la sua identità. Le avevano assegnato metà di una baracca, in un’ area destinata a ‘ internati speciali’ . Di costituzione fragile, provata dagli stenti, la principessa era già al limite della resistenza quando fu semiseppellita dalle macerie ed ebbe un braccio gravemente lesionato in seguito al bombardamento del campo. Le fu amputato un braccio, ma non le furono prestate le cure necessarie. Secondo un medico triestino, Fausto Pecorari – all’ epoca internato a Buchenwald – “Mafalda venne intenzionalmente operata tardivamente per provocarne la morte”, secondo un metodo “spesso applicato a Buchenwald su personalità di cui ci si voleva sbarazzare”. Mafalda morì, a quasi 42 anni, durante la notte del 28 agosto. La mattina successiva il suo corpo denudato stava per essere portato nel forno crematorio quando un sacerdote, padre Giuseppe Tyl, lo riconobbe anche a causa della mutilazione. Ottenuto il permesso dai dirigenti del campo, mise il corpo in una bara, dopo aver prelevato tre ciocche di capelli per la famiglia, e ne curò la sepoltura nella fossa 262 del cimitero di Weimar come “donna sconosciuta”. Solo nel 1951 le spoglie di Mafalda, localizzate già nel ‘ 45 da un gruppo di marinai italiani deportati a Weimar, furono esumate e trasferite nella tomba di famiglia degli Assia a Kronberg.

sez.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1994/08/26/una-principessa-nel-lager.html

La sparatoria dell’isola di Cavallo
Il principe assolto dall’accusa di omicidio

Al processo venne condannato a sei mesi per porto abusivo d’arma

Il padre di Dirk Hamer mostra la foto del figlio ucciso da Vittorio Emanuele di Savoia

ROMA – Non è la prima volta che Vittorio Emanuele di Savoia deve confrontarsi con la giustizia. Negli anni ’70 l’erede di casa Savoia fu coinvolto in un indagine della pretura di Venezia per traffico internazionale di armi ed è risultato iscritto alla loggia massonica della P2 con la tessera numero 1.621.

Ma la vicenda più scabrosa risale al 18 agosto 1978, all’Isola di Cavallo, in Corsica. Vittorio Emanuele era in preda ai fumi dell’alcol e, dopo una lite con il miliardario Nicky Pende, sparò col fucile. Un proiettile uccise uno studente tedesco di appena 19 anni, Dirk Jeerd Hamer, che stava dormendo con gli amici su un’imbarcazione vicina.

Quella notte, la barca dei ragazzi tedeschi si trovava vicina ad altre due: una era lo yacht di Vittorio Emanuele di Savoia e l’altra era il “Coke”, il panfilo del medico romano Niki Pende, ex marito dell’attrice Stefania Sandrelli. Qualcuno, verso l’ora di cena, decise di usare il gommone di Vittorio Emanuele per raggiungere il porticciolo ma il principe se ne accorse e decise di andare a chiedere spiegazione ai proprietari del “Coke”.

Ci andò armato della sua carabina. Scoppiò una zuffa; il principe sparò un colpo per intimorire l’avversario ma Niki Pende si gettò sull’erede dei Savoia e a quel punto partì un colpo che colpì il giovane Dirk Hamer sull’imbarcazione vicina. Dopo il ferimento, Hamer fu trasportato in Germania e ricoverato nell’ospedale di Heilderberg, ma morì quattro mesi dopo.

Vittorio Emanuele, processato in Francia, venne condannato nel ’91 a sei mesi con condizionale per porto abusivo d’arma da fuoco ma prosciolto dall’incriminazione per omicidio volontario. Il principe si è sempre proclamato innocente: “Quell’incidente mi ha rovinato la vita e distrutto al reputazione. La gente mi giudicò senza attendere la sentenza”.

(16 giugno 2006)
http://www.repubblica.it/2006/06/sezioni/cronaca/arrestato-vittorio-emanuele/isola-di-cavallo/isola-di-cavallo.html

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