Grazia Deledda : La martora – Canne al vento – Elias Portolu pdf ed altro

Il 10 dicembre 1926 le venne conferito il premio Nobel per la letteratura, «per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».

Le dolenze di Grazia Deledda

Dario Lodi

Molti intellettuali addebitavano a Grazia Deledda (1871-1936) lo svilimento della Sardegna, attraverso la narrazione di vicende in cui veniva mostrata un’arretratezza eccessiva della sua terra. In realtà, la cosa appare più complessa per la variegata personalità della scrittrice (alla quale fu assegnato il Nobel per la letteratura nel 1926), tutta dentro, nelle diverse sfumature, nei suoi numerosi romanzi (e racconti).

Questi romanzi sono di chiara derivazione romantica e hanno un’identificazione nella narrativa di Balzac (che la Deledda, autodidatta, tradusse): fondali truci, personaggi duri come la terra, passioni violente, contrasti insanabili, scontri terribili, soluzioni quasi mai consolatorie (nel caso positivo, accettate più che scelte).

La Deledda amava il romanzo ottocentesco, con il suo Balzac in testa, ma amava anche Tolstoj (al quale voleva dedicare dei racconti) e aveva qualche infatuazione per il nostro D’Annunzio (pochi ne erano esenti all’inizio del ‘900): tre personaggi diversissimi, un genio (Tolstoj), un ottimo mestierante, per necessità (Balzac), e un maestro della retorica più bolsa che si possa immaginare (ma D’Annunzio aveva anche una vitalità straordinaria, era dotato di un magnetismo assai efficace in un mondo provinciale com’era l’Italia di allora). La nostra scrittrice avrebbe voluto ricavare dai tre uno stile proprio. S’impegnò a fondo per riuscirci.

Non sembra che l’intento le sia completamente riuscito, e questo per una serie di esitazioni dovute a mancanze analitiche rispetto a quelle di Tolstoj, suo riferimento, infine, principale. Il russo mette in campo una lotta fra ragione e fede, dispiacendosi che la ragione voglia prevalere, ma dispiacendosi, nel contempo, che la fede voglia comunque imporsi, voglia dominare a prescindere, insomma. La Deledda non conosce questo tormento: la sua filosofia va nella direzione cristiana per cui qualunque male, alla fine, può trasformarsi in bene. La denuncia del male – su cui la nostra scrittrice insiste con una punta d’involontario sadismo – è il primo passo verso la catarsi.

Nella sostanza, la catarsi può e deve avvenire con l’impegno personale, ma anche con la fiducia verso il cambiamento radicale. Certo, secondo la Nostra, l’impegno personale non basta, occorre anche la fede. Su tutto, a questo punto, piomba la provvidenza divina (di manzoniana memoria) che evita tragedie, che livella le aspettative, senza però appiattirle.

Il livellamento, secondo logica date le condizioni di partenza, è un richiamo che la Deledda fa all’uso del classico buonsenso irrobustito da consapevolezze derivate da constatazioni, dal pagare di persona una determinata condizione. La scrittrice sarda non punta tanto sulla questione esistenziale, come fa Tolstoj, ma su quella sociale, come fa Balzac. La prova è data dai suoi romanzi più celebri, “Canne al vento”, “La madre”, “Elias Portolu”, “Marianna Sirca”.

Certo, nella trattazione sociale la Deledda inserisce questioni personali, anticonvenzionali, che portano oltre la contingenza e accendono temi di fondo, propri di qualunque essere umano, che fanno riflettere di là dalla storia. L’autrice racconta con notevole partecipazione, vive ogni personaggio, esprime una sincera preoccupazione per la loro sorte. Ecco, la sincerità e la partecipazione sono i due fiori all’occhiello della sua prosa, una prosa che in molti tratti è poetica (specie negli intermezzi morali e psicologici, dove moralità e psicologia sono come espressi da una buona madre).

La Deledda affermava di non saper scrivere in italiano. Per lei era una seconda lingua, come il francese. Doveva pensare in dialetto sardo e tradurre. Si portò appresso questa convinzione nel trasferimento a Roma, nel 1899. Più verosimilmente temeva di non essere all’altezza dell’italiano accademico, non sapendo che la sua genuinità, la sua spontaneità (peraltro molto ben temperate da una preparazione intellettuale di primordine e da un’ambizione di verità attentamente alimentata), erano una benedizione per l’espressività vera. La Deledda, come Verga, e pochi altri, fu determinante per lo svecchiamento dell’italiano scritto.

La simpatia per la nostra scrittrice, mai ingessata e mai vittima di formule, pur traendole dai drammoni ottocenteschi e abusandone, sta in una scrittura personale, secca, ma non asciutta, semplice e non superficiale. Di sicuro vi affiora il melodramma, però non da poco. La Deledda amalgama tutto con una sana indulgenza verso ogni cosa, anche se fondamentalmente si chiede perché dover ricorrere a una sorta di adesione passiva alle cose. La passività, intendiamoci, non canta vittoria, la bisbiglia soltanto, ma sarebbe meglio la sua sostituzione.

La sostituzione non avviene per il clima culturale del momento che – secondo le regole decadenti – ama più la depressione della vitalità. La Deledda ne è in qualche modo condizionata, pur cercando di reagire a tono. D’altro canto, scarta subito la prosopopea dannunziana. Ed è un miracolo, dati i tempi.

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La martora

Un giovedì d’aprile il piccolo Minnai si svegliò pensando: oggi mi voglio proprio divertire, e balzò nudo dal dappiedi del lettuccio ove dormiva con la giovine zia. Nudo, magro, nero, con le costole frementi, i lunghi capelli rossicci arruffati intorno al visetto ovale, rassomigliava al piccolo San Giovanni lì del quadretto sopra il lettuccio; solo che mentre gli occhi di quello dipinto erano dolci, castanei, i suoi, color verderame, avevano balenii d’astuzia crudele. Per un poco s’aggirò nudo qua e là nella stanzetta bassa che riceveva luce da un abbaino coperto da due tegole di vetro: sulla cassa nera stavano i suoi vestiti, le scarpe, la camicia; ma egli voleva divertirsi, cioè fare qualche cosa di diverso degli altri giorni, e cominciò col proporsi di rimanere scalzo e di non mettersi né camicia né corpetto né mutande. Del resto non aveva mai capito bene a che servono tutte queste cose, come non capiva perché suo nonno lo costringesse ad andare a scuola mentre tutto il suo essere desiderava la vigna: la vigna dove quel giorno la zia era andata ad estirpare le gramigne, dopo aver chiuso lui solo in casa con la borsa dei libri; e più che alla vigna alla tanchitta attigua, con le pecore, il cane nero, il cavallo rosso del nonno, la bisaccia, l’erba, le pietre da lanciare ai passanti dal di dietro della muriccia, e sopratutto coi cinghiali, i cervi, le aquile e le martore.
– Ma oggi… oggi…
Era deciso a tutto: a fuggire, a rompere le tegole dell’abbaino, a correre sui tetti, a volare.
Ritto sulla cassa s’infilò i calzoncini facendo orribili smorfie e mostrando la lingua alla borsa dei libri e al calamaio pronti lì sul tavolo sotto l’abbaino: le bestemmie più atroci che sentiva pronunziare dagli uomini ubbriachi nelle sere di festa gli gonfiavano la gola; ma non le ripeteva a voce alta perché era peccato mortale, e lui odiava la borsa e voleva divertirsi, quel giovedì, ma non andare all’inferno.
Un salto, uno scossone ed ecco i calzoncini fin sotto le ascelle: e non occorrono le tirelle né i bottoni; basta una cordicella, una bella cordicella solida che è sempre bene avere oltre che per tenere su i calzoncini per essere provveduti di tutto quando si vuole andare a divertirsi. Se, per esempio, si dovrà fare un laccio per la martora, o per la donnola in mancanza di meglio? Una cordicella è sempre buona a qualche cosa; e così pure un fiammifero, un batuffolo di carta, qualche bottone, qualche chiodo, il rocchetto del filo rubato dal panierino del cucito della zia: tutte cose che Minnai trae dalle saccoccie gonfie dei calzoncini ed esamina e ripone accuratamente.
Ecco fatto. E la giacca? Dov’è la giacca? Cerca, cerca, la giacca non si trova, né dentro né fuori la cassa, né sotto il letto né in cucina. La zia l’ha nascosta: e tutto è chiuso, tutto è buio. Sembra la casa dei morti, col fuoco spento, la porta chiusa, il latte lì freddo e pallido nella scodella triste sopra il forno col pane accanto.
Minnai andò alla porta e la scosse: impossibile aprirla. Guardò dalla fessura ma non vide che un lembo dell’orticello solitario col muro divisorio dell’orto di donna Antonina la monaca di casa. Anche lui era chiuso lì, dunque, come la misteriosa vicina che nessuno conosceva perché da trent’anni prigioniera di sé stessa. Ma lui non voleva farsi monaco, no, no, e neppure prete come suo nonno voleva: piuttosto morire. S’accucciò davanti alla porta, guardando la linea di luce della fessura bianca come un cero, e si mise a piangere trastullandosi coi capi della sua cordicella. Ecco, sì, egli lo sapeva cosa è l’essere orfani di padre e di madre, senza beni di fortuna, costretti ad andare a scuola per diventare prete od usciere; costretti a rinunziare a tutto, anche a rimanere scalzi, anche a rimanere nudi.
– Ma niente! Io non voglio far niente e niente e niente.
[…] in un attimo dunque un grande vaso di sughero che serviva alla zia per la farina fu sopra il tavolo, capovolto come un enorme tamburo, con la borsa sotto seppellita; e sopra una sedia, e sopra la sedia uno sgabello: e sopra lo sgabello come in cima a una torre il piccolo Minnai che sfondava l’abbaino e immergeva la testa nell’infinito. Persino il gatto era fuggito lontano per la sorpresa: e tutto intorno i bassi tetti secolari, di embrici ridiventati una crosta di terra feconda, fiorivano di erbe selvagge, di fieno, di avena, di gramigne, quasi per dare a Minnai l’illusione della brughiera e premiarlo del suo coraggio.
Ma appena fu su, si accorse di due brutte cose: la sua mano sanguinava e un muro con un finestrino rasente al tetto a destra chiudeva l’orizzonte. Del sangue non gl’importava molto: lo avrebbe dato tutto per un soldo, se col soldo avesse potuto comprare un nido con tre uccellini dentro: eppoi il sangue si può anche succhiare e inghiottire e così torna dentro e nulla è perduto; l’importante è di arrampicarsi sul finestrino e salire sopra il tetto più alto.
Così, piano, piano, fa qualche passo: ha paura di sfondare i tetti, tanto gli sembra di essere grande e pesante; così devono camminare i ladri, alla notte, quando fanno quello che loro pare e piace. Bella cosa essere ladri; vivere sui tetti, entrare nelle case ove la gente dorme, prendere la roba altrui come fosse nostra: forse non c’è cosa più bella al mondo. Forse è più bello ancora vivere sui tetti che alla vigna o all’ovile; solo che non c’è modo di cacciare. Eppure, sì; ecco, uno strido attraversa lo spazio: Minnai si getta carponi sugli embrici e lascia che il falco si avvicini; eccolo, è quasi sopra la sua testa, nero, ad ali spiegate, così vicino che si vedono i suoi occhi scintillare dorati al sole. Sì, si può anche cacciare, sui tetti: e Minnai si solleva d’un balzo e lancia il rocchetto della zia in direzione del falco, tenendo il capo del filo fra le dita insanguinate. Ma né il falco cade né il rocchetto torna; il primo è in alto, il secondo è giù al di là del tetto, nell’orto di donna Antonina; Minnai tira il filo e ne fa una matassa che anche così imbrogliata può servire.
E andò dritto al finestrino; ma subito vide come un pozzo bianco aprirsi sotto i suoi occhi. Era una stanza stretta e alta, con le pareti nude imbiancate con la calce: una scaletta a piuoli serviva per aprire e chiudere il finestrino, e giù nella penombra chiara, accanto a un lettuccio coperto di una stoffa ruvida, una piccola monaca vestita di nero, sedeva su uno sgabello, con in mano il rosario e in grembo un animale che sembrava un gatto giallo.
Appena Minnai ebbe messo la testa dentro, la monaca sollevò il viso spaurito e l’animale le scivolò di grembo, lungo, con la coda più lunga del corpo, e parve sparire sotterra. Ella si curvò tosto a chiamarlo di sotto al lettuccio, ma come quello non usciva tornò a sollevare il piccolo viso spaventato.
– Vattene – implorò sottovoce.
Ma di lassù Minnai domandò con calma:
– Che bestia è? Gatto non è, cane non è.
– È una martora. Ma va via! Vedi come l’hai spaventata. Va via.
Minnai non era abituato all’obbedienza. Eppoi quel giorno voleva divertirsi.
– Lei lo so chi è – disse dall’alto. – È donna Antonina la monaca di casa. È lì da cento anni e neppure mia zia l’ha conosciuta. Mio nonno, sì, però. Dice che era bella e che s’è chiusa dentro perché lo sposo l’ha piantata.
La donna trasalì: gli occhi le si velarono di lagrime. La voce del ragazzino le sembrava la voce stessa del suo passato. Ah, dunque, nel mondo si ricordavano di lei? E dov’era il mondo? Le parve di ricordarsi: fu assalita come da una follia di risurrezione.
– Chi è tuo nonno?
– Non si rammenta? Salvatore Bellu. È ricco, mio nonno. Abbiamo la vigna, la tanchitta, cento pecore e un cavallo e altre cose. Io vado a scuola. Ma quest’animale non viene fuori? Ah, mi dimenticavo: abbiamo anche gli alveari. Se vuole gliela faccio venir fuori io, di sotto il letto, la martora. Sono bravo. Una volta io ne ho cacciato tre, di martore, poi altre nove. Quando mi vedono stanno ferme che è un incanto. Anche gli astori li so prendere col filo.
La donna ascoltava e credeva: aveva sempre creduto a tutto, nella vita.
– Scendi – disse al ragazzino.
In un attimo egli fu giù; s’allungò sotto il letto, prese la bestiuola palpitante, la rimise in grembo alla donna. La martora lo guardava coi suoi occhi lucidi pieni di spavento, mentre leccava la mano alla sua padrona.
– Com’è lunga! A tirarla pare si allunghi di più; pare di pasta: e che gola d’oro, che dentini, che baffi, e che coda bella come uno scopino nuovo! – egli diceva accarezzandola. – E com’è venuta qui? Dev’essere una che ho cacciato io, una volta, e m’è scappata. Noi stiamo qui vicini.
– Quando t’è scappata?
– Eh, saranno tre anni.
– Ma tu quanti anni hai?
– Chi lo sa? Sono orfano. Forse otto.
– E a cinque anni cacciavi già le martore?
– Sì, anche a tre. Si può andare a caccia quando si vuole.
– Ma quest’animale, io l’ho appena da un anno.
– Sì, anche un anno fa ne ho prese tante: mio nonno le porta a un signore che per ogni martora gli dà un fucile nuovo.
Intanto s’era seduto a gambe in croce ai piedi della monaca e guardava la martora con occhi languidi. Il desiderio di portarsela via lo rendeva come ebbro.
– Bella, bella, anima mia – le diceva reclinando la testina sulla spalla destra e sorridendole. E la martora, come affascinata dalla passione di lui, cominciò a leccargli la manina insanguinata.
Così egli rimase lì fin dopo mezzogiorno. La monaca gli domandava notizie del mondo di trent’anni prima, ed egli rispondeva senza scomporsi; tanto le cose e gli uomini e le loro piccole e grandi vicende, tutto infine era sempre lo stesso. Verso mezzogiorno qualcuno batté all’uscio.
– È mia nipote che porta da mangiare. Nasconditi, sebbene ella non entri mai qui – disse la monaca. Egli si strinse la martora al petto e si nascose sotto il lettuccio.
E mentre la sentiva palpitare contro il suo cuore mormorava con lo spasimo di un amante:
– Mia! Mia! Tutta mia! Ti porto via a costo della vita. Ti ho cacciato, finalmente! Sì, ti ho preso io e sei mia. Ma non ti porto, no, al signore, in cambio del fucile: ti tengo con me, ti nascondo nella legnaia, e vengo a dormire con te, e ti porto i pulcini della zia, ed anche i suoi biscotti, se li vuoi, tanto so dove prenderli e so aprire di nascosto l’armadio. Tutto ti porto; e così ci divertiamo assieme, e così saremo contenti tutti e due. Che fai qui, in questo carcere? Sei monaca tu pure? No, sai, io sono scappato dal carcere, ho sfondato il tetto: eppoi un giorno ce ne andremo assieme tutti e due, torneremo in campagna, dietro il muro della vigna. Là si sta bene, là, sì, dove non c’è gente, dove non si va a scuola. Anima mia bella…
La martora gli leccava l’orecchio.
Intanto la monaca aveva ritirato senza parlare il canestro delle provviste e apparecchiava.
– Venite fuori – chiamò sottovoce.
Ma quei due, sotto, parevano morti; morti, abbracciati, sepolti nel loro sogno d’amore e di libertà.
– Ci lasci qui – disse finalmente Minnai. – Si sta bene. Ci dia da mangiare qui. Io sono abituato a stare sotto il letto, quando la zia vuole bastonarmi. Allora mangio e leggo e anche scrivo, sotto il letto. E anche dormo.
Ma la monaca voleva la sua compagna, senza la quale non sapeva più vivere, e anche la martora all’odore delle vivande s’agitava, s’allungava come un serpe, calda e molle sul petto di Minnai, puntandogli le zampine unghiute sul collo, cacciandogli il muso sottile sotto le ascelle. Finalmente riuscì a sgusciargli sottile di sotto il braccio ed egli uscì dietro di lei.
Il pasto era abbondante, e c’era anche il vino; e dopo aver sparecchiato la monaca tornò al suo posto, con la martora lunga distesa sulle ginocchia col capo pendente giù a destra e la lunga coda a sinistra, e cominciò anche lei a raccontare le cose del suo mondo sebbene Minnai mezzo addormentato non glielo richiedesse.
– Devi sapere che una persona una volta mi disse: «Tu sei come morta per me». Allora, che fare? Essere come morta davvero. Nei primi tempi, rammento, piangevo tanto che gli occhi si abituarono a piangere, a dare lagrime, senza ch’io più me ne accorgessi. Così, come la fontana dà l’acqua. Ma poi pensavo: tanto, morire oggi, morire fra trent’anni è lo stesso. Però, si pensa, si pensa, si dicono tante cose belle, ma quando si è vivi si è vivi; i prigionieri stessi che hanno commesso un delitto si confortano pensando al giorno lontano della libertà, a quando rivedranno il sole nelle strade: ma chi si è fatto prigioniero senza colpa, per volontà propria? Si ha un bel pensare alla morte: la compagnia dei vivi piace ancora. E così per tanti anni ebbi desiderio di compagnia, poi non ci pensai più: finalmente, un anno fa, questa martora balzò qui dentro dal finestrino, come te, e si nascose sotto il letto. Sulle prime la credetti un gatto; ma curvandomi la vidi meglio e mi spaventai, ed essa anche mi guardò spaventata e cominciò a correre, ma neppure vedeva la scaletta per fuggire. Allora mi venne una grande pietà e pensai: se la lascio andar via l’ammazzano. Chiusi il finestrino e stetti ferma; così la martora s’acchetò e tornò a nascondersi sotto il letto. Misi un poco di pane e d’acqua e non chiusi occhio tutta la notte. Avevo paura mi saltasse addosso e lasciai il lume acceso. Ma sul tardi la sentii a muoversi e allungando la testa vidi che beveva: beveva ansando, fermandosi ad ascoltare, spaurita. Mi misi a piangere e avrei voluto prenderla nel mio letto per confortarla. Così passarono i giorni, l’animale s’abituò a bere, a mangiare, a non aver paura. Un giorno la presi: non fece resistenza; era molle come l’erba in primavera. Aveva le zampine gonfie; ecco perché non scappava; gliele unsi col sevo, ma essa poi se le curò da sé leccandole, e anche dopo guarita non cercò più di scappare. Eccola qui: è buona, mi fa compagnia; mi pare, quando sto con lei, di essere ancora nel mondo. È come una mia figlia; anima mia – concluse, lisciandola tutta con la piccola mano tremula.
La martora aveva chiuso gli occhi e pareva morta.
Minnai ascoltava, ma non gl’importava nulla del racconto della monaca. Il desiderio di aver la martora e portarsela via lo vinceva con una violenza così angosciosa da destargli il pianto. Le lagrime gli cadevano dagli occhi senza ch’egli se ne accorgesse. «Come cade l’acqua dalla fontana».
– Me la dia un pochino ancora; poi me ne andrò…
Commossa, la monaca gli mise la martora addormentata sulle ginocchia ed egli a sua volta cominciò ad accarezzarla tuffando con voluttà la manina nel pelo morbido come l’erba sottile di marzo.
Giù dal finestrino il cielo del meriggio mandava un riflesso azzurro, una luce lontana, come dalla bocca d’un pozzo. Lassù era la gioia, la libertà; era la solitudine della vigna e della macchia, la vita, la vita! E Minnai taceva, aspettando, deciso ad aspettare anche mille anni e mille giorni pur di arrivare al suo intento. Ogni tanto sollevava gli occhi fulgenti e vedeva gli occhi della monaca velarsi, chiudersi, riaprirsi, chiudersi ancora.
Quando fu certo del sonno profondo di lei s’inginocchiò e parve chiederle perdono: si accomodò bene la martora sul collo come un bambino addormentato e si arrampicò silenzioso sulla scaletta attento a non schiacciarle la coda.

© Grazia Deledda, La martora in Il fanciullo nascosto. Novelle, Milano, Treves, 1915.

proSabato: La martora di Grazia Deledda. Racconto

Canne al vento – Liber Liber

Elias Portolu

Incipit

I.

Giorni lieti s’avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del continente; poi doveva sposarsi Pietro, il maggiore dei tre giovani Portolu.

Si preparava una specie di festa: la casa era intonacata di fresco, il vino ed il pane pronti;1 pareva che Elias dovesse ritornare dagli studi, ed era con un certo orgoglio che i parenti, finita la sua disgrazia, lo aspettavano.

Finalmente arrivò il giorno tanto atteso, specialmente da zia Annedda, la madre, una [p. donnina placida, bianca, un po’ sorda, che amava Elias sopra tutti i suoi figliuoli. Pietro, che faceva il contadino, Mattia e zio Berte, il padre, che erano pastori di pecore, ritornarono di campagna.

I due giovanotti si rassomigliavano assai; bassotti, robusti, barbuti, col volto bronzino e con lunghi capelli neri. Anche zio Berte Portolu, la vecchia volpe, come lo chiamavano, era di piccola statura, con una capigliatura nera e intricata che gli calava fin sugli occhi rossi malati, e sulle orecchie andava a confondersi con la lunga barba nera non meno intricata. Vestiva un costume abbastanza sporco, con una lunga sopragiacca nera senza maniche, di pelle di montone, con la lana in dentro; e fra tutto quel pelame nero si scorgevano solo due enormi mani d’un rosso bronzino, e nel viso un grosso naso egualmente rosso-bronzino.

Per la solenne occasione, però, zio2 Portolu si lavò le mani ed il viso, chiese un po’ d’olio d’oliva a zia Annedda, e si unse bene i capelli, poi li districò con un pettine di legno, dando [p. 3 modifica]in esclamazioni per il dolore che quest’operazione gli causava.

— Che il diavolo vi pettini, — diceva ai suoi capelli, torcendo il capo. — Neanche la lana delle pecore è così intricata!

Quando l’intrico fu sciolto, zio Portolu cominciò a farsi una trecciolina sulla tempia destra, un’altra sulla sinistra, una terza sotto l’orecchio destro, una quarta sotto l’orecchio sinistro. Poi unse e pettinò la barba.

— Fatevene altre due, ora! — disse Pietro, ridendo.

— Non vedi che sembro uno sposo? — gridò zio Portolu. E rise anche lui. Aveva un riso caratteristico, forzato, che non gli smoveva un pelo della barba.

Zia Annedda borbottò qualche cosa, perchè non le piaceva che i suoi flgliuoli mancassero di rispetto al padre; ma questi la guardò con rimprovero e disse:

— Ebbene, cosa dici, tu? Lascia ridere i ragazzi; è tempo che si divertano, loro; noi ci siamo già divertiti.

Intanto giunse l’ora dell’arrivo di Elias. Vennero alcuni parenti e un fratello della fidanzata di Pietro, e tutti mossero verso la [p. stazione. Zia Annedda rimase sola in casa, col gattino e le galline.

La casetta, con un cortile interno, dava su un viottolo scosceso che scendeva allo stradale: dietro il muro assiepato del viottolo si stendevano degli orti che guardavano sulla valle. Pareva d’essere in campagna: un albero stendeva i suoi rami al disopra della siepe, dando al viottolo un’aria pittoresca: l’Orthobene granitico e le cerule montagne d’Oliena chiudevano l’orizzonte.

Zia Annedda era nata ed invecchiata là, in quel cantuccio pieno d’aria pura, e forse per questo era rimasta sempre semplice e pura come una creatura di sette anni. Del resto, tutto il vicinato era abitato da gente onesta, da ragazze che frequentavano la chiesa, da famiglie di costumi semplici.

Zia Annedda usciva ogni tanto sul portone aperto, guardava di qua e di là, poi rientrava. Anche le vicine aspettavano il ritorno del prigioniero, ritte sulle loro porticine o sedute sui rozzi sedili di pietra addossati al muro: il gatto di zia Annedda contemplava dalla flnestra.


Grazia Deledda – Marianna Sirca.pdf – controappuntoblog.org

Cenere : Grazia Deledda | controappuntoblog.org

“Banditi a Orgosolo” Vittorio De Seta | controappuntoblog.org

la mia scena preferita di banditi ad Orgosolo

http://www.controappuntoblog.org/2012/07/26/la-mia-scena-preferita-di-banditi-ad-orgosolo/

Lao Silesu ; Charles Harrison – A Little Love, A Little Kiss (1913 …

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